"Mestieri." - a cura del Dott. Erminio D’Addesa - www.Vallata.org

"Mestieri."
a cura del Dott. Erminio D’Addesa

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    I mestieri sono ormai finiti specialmente nei nostri paesi dove da sempre era ed è purtroppo imperante la cultura “di mandare i figli a scuola” pensando di garantire loro una vita migliore fatta di minori sacrifici e con il non malcelato intento di affermare una sorta di riscatto rispetto a quei gruppi sociali che da sempre avevano sfruttato e forse tuttora sfruttano le nostre comunità. Con il passar del tempo e lo si è detto già precedentemente i mestieri si sono estinti, gli artigiani non ci sono più, le botteghe sono chiuse. A Vallata, il mio paese, aveva resistito il mestiere del falegname, con varie imprese artigiane attive , fatto probabilmente collegato alla ricostruzione post terremoto dell’80 ma poi quasi all’unisono “hanno chiuso bottega”, quasi una parola d’ordine e così non c’è più chi ti aggiusta una finestra, un mobile e bisogna passare al fai da te. La stessa situazione si registra da un po’ di tempo per il calzolaio. Mestiere totalmente finito da molto tanto che si è costretti ormai all’acquisto di scarpe “usa e getta” perché non c’è nessun calzolaio che ti possa sistemare i tacchi o risuolare le scarpe.
    Il calzolaio che nei paesi delle zone interne dell’Irpinia è da considerarsi un mestiere finito mentre si registra la presenza nei centri più popolosi e nelle città ed infatti è più facile trovarlo nei grossi agglomerati urbani…….. ricordo di averne visti vari ad Avellino ed anche in alcune città del nord che ho visitato ultimamente.
    Un mestiere difficile quello del calzolaio di un tempo come d'altronde tutti gli altri. I calzolai una volta “creavano” le scarpe con una procedura veramente laboriosa specialmente per quelle di campagna con l’utilizzo della vacchetta (ricordo ancora l’odore di concia fresca che a volte emanava); il calzolaio per prima cosa prendeva le misure del piede utilizzando una striscia di carta ripiegata, generalmente un foglio di giornale, alta un paio di centimetri dove incideva le varie lunghezze con il trincetto (……. una lama di acciaio affilatissima senza manico e larga un paio di centimetri). Le misure andavano dall’alluce al tallone, quindi si passava alla larghezza delle dita, all’altezza del collo del piede e della circonferenza sopra la caviglia. A questo punto procedeva passando alla scelta della forma di legno per il piede e spesso si utilizzavano degli spessori di cuoio per raggiungere con precisione la misura che sostanzialmente veniva personalizzata per ovviare ad eventuali difetti e/o calli . Quindi il calzolaio passava a ritagliare i pezzi di vacchetta nel caso delle scarpe di campagna. E questo era un momento particolare in quanto il calzolaio doveva calibrare bene il taglio dei pezzi per riservare quella più resistente alla parte posteriore della scarpa mentre quella meno pregiata andava alla parte anteriore. Il taglio dei pezzi avveniva utilizzando dei modelli di carta appositamente preparati e studiando con attenzione la vacchetta …. si era solito dire: “cento volte misura ed una taglia”..….(.....massima che è bene applicar nella vita di tutti i giorni). Una volta ricavati i pezzi si passava all’assemblaggio degli stessi con la cucitura. Per questa operazione si ricavava il filo per le cuciture dallo spago di canapa che era confezionato a rotoli (…..mi ricordo le marche “Cavallo”…. “Cervo”) accoppiando più fili di spago per ottenere un filo più robusto e la lunghezza dello stesso era misurata a bracciate. Una volta accoppiati i diversi fili di spago li si avvolgeva facendo ruotare una estremità sulla coscia con la mano. Il filo così ottenuto veniva amalgamato con la pece ed alle due estremità dello spago venivano ancorate setole di maiale utilizzando come collante la stessa pece. La pece era comprata a pezzi e per renderla funzionale veniva messa in un piccolo contenitore metallico e quindi sciolta ed ammorbidita sul fuoco del camino o sulla fiamma del fornello a gas mentre le setole erano generalmente regalate dai clienti contadini che le recuperavano al momento di ammazzare il maiale. Il calzolaio procedeva all’assemblaggio dei pezzi ritagliati per ottenere la tomaia cucendo la pelle a due fili: uno dall’interno e l’altro dall’esterno (a dent’ e for’). Procedeva perforando la pelle con la lesina (l’assuglja) unta nella sugna (’nzogna”) posizionato in un angolino del deschetto (lu bancaridd era suddiviso in scomparti piccoli nella parte adiacente al perimetro) ed inserendo, come si diceva prima, i fili dello spago nel foro praticato, uno da dentro ed uno da fuori. Molte volte il calzolaio usava due tipi di lesina: una con l’asticella metallica piena e l’altra con una scanalatura interna all’asticella dove far passare agevolmente gli spaghi guidati dalle setole. Per la parte inferiore della scarpa il calzolaio usava il cuoio che aveva appositamente tenuto a mollo per renderlo più morbido e più lavorabile. Poi imbroccava la tomaia sulla forma di legno e la si univa alla prima suola (la chiandella), quella più interna e più morbida con dei chiodi a spillo. A quel punto si portava ad unico livello la tomaia con la prima suola usando il trincetto. A questo punto sistemava il giretto (lu guardiuncill’) che era una strisciolina di cuoio larga un paio di centimetri, precedentemente ammorbidita nell’acqua, che circondava la parte inferiore della scarpa fra le prime due suole. Cuciva il giretto con del filo robusto costituito vari fili di spago e per fare questo il calzolaio si proteggeva la mano sinistra con il “guardamano” (un pezzo di cuoio largo quanto il palmo della mano con due occhielli finali che si incrociavano sul pollice) mentre per trarre il filo con la mano destra usava avvolgerlo intorno al manico della lesina. Con questa cucitura si portava ad unità contemporaneamente la tomaia, il giretto e la prima suola (la chiandella). Quindi riempiva lo spazio tra il giretto e la suola utilizzando i residui di pellame di scarto e poi applicava la suola ricavata dal cuoio migliore , più resistente e più doppio dopo averla tenuta a bagno per varie ore a volte un giorno. La suola infine veniva applicata al resto della scarpa che già prendeva corpo cucendola al giretto.
    A quel punto si passava alla fase di rifinizione della scarpa tagliando i bordi della suola e del tacco con il trincetto, levigando (affinando) i contorni con la raspa e con un pezzetto di vetro tagliante e quindi lucidando i tacchi e la suola sfregandoli con il bisegolo o bussetto ( uno speciale strumento di legno a forma di parallelepipedo con due piccole scanalature alle estremità).
    Le scarpe, dopo un po’ di ore, venivano “sformate”con “il tiraforme” (arnese ad uncino utilizzato per tirare la forma di legno dalla scarpa) ed unte di grasso o colorate con l’anilina nera o marrone. (nel caso di confezionamento di scarpe con le tomaie di pelle si utilizzava anche un bordatore (lu per’ r’ purc’) che dopo esser stato riscaldato su una fonte di calore serviva a sciogliere la cera d’api per impermeabilizzare ed ad abbellire i tacchi e le suole). Il calzolaio procedeva a fare gli occhielli sulla tomaia con una apposita pinza perforante e realizzava i lacci delle scarpe di campagna ricavandoli da un pezzo di vacchetta ritagliata in forma rotondeggiante dalla quale avviava ad incidere, con il trincetto, una spirale. Il laccio di vacchetta così ottenuto era il “corregilo” (lu c’r’sciul’). Le scarpe per le ultime rifiniture venivano infilate nella forma del piede di ferro e si passava a costruire il tacco assemblando strisce di cuoio di scarto per la parte intermezzata e riservando la parte migliore per l’esterno. Per garantire una minore usura della scarpa e quindi una maggiore durata delle stesse si applicavano le bullette v’tarell’ e grapp’tell (a seconda dei casi) alle suole con corredo di salvatacchi e salvapunti (piastre di ferro sagomate applicate con i chiodi ai tacchi ed alla punta delle scarpe nella parte calpestante….
    Il calzolaio per lavorare utilizzava il deschetto (bancaridd’) munito di almeno un cassetto dove riporre un po’ di attrezzature ed era solito proteggersi con un grembiule (la vandijra). Lavorava su una sedia bassa davanti al deschetto in modo da tenere le gambe piegate ad angolo retto per potervi poggiare con stabilità i vari attrezzi. Per riscaldarsi durante il periodo invernale veniva posto un braciere con i carboni sotto il deschetto e nelle adiacenze dello stesso era sistemato un mastello pieno d’acqua necessaria ad ammorbidire il cuoio da lavorare. Nel periodo autunnale e comunque pre-invernale il calzolaio si recava, a seguito di una sorta di prenotazione, a svolgere il proprio lavoro nelle campagne, nelle masserie, per confezionare la scarpe nuove ai componenti della famiglia e per risistemare le vecchie. L’attrezzatura necessaria per lavorare veniva ritirata, di buon mattino, dal contadino cliente presso l’abitazione del calzolaio utilizzando per il trasporto un mulo od un asino. Il calzolaio insieme alla sua equipe (oggi diremmo così) camminando a piedi ed in maniera lesta era solito giungere prima del sorgere dell’alba presso la masseria del cliente.
    Il calzolaio, come molti artigiani, svolgeva il proprio lavoro insieme a qualche componente della propria famiglia generalmente un figlio ed a vari apprendisti e spesso nelle masserie, a fine giornata e nonostante il lavoro e la stanchezza, non mancava un momento di allegria e di divertimento con balli e canti ,al suono di un organetto che nelle campagne, un tempo, non mancava mai.
    Tanti i ricordi che affiorano nella mia mente di nipote e di figlio di calzolaio…. le martellate sulle dita mentre raddrizzavo certi appositi chiodi, lunghi e sottili, usati per imbroccare la tomaia al sottopiede di cuoio od alla forma di legno (…..si riciclavano i chiodi per risparmiare) …… la paura del guardamano o del giretto bagnato (lu guardiuncill) che mio padre, come deterrente, minacciava di usare al compimento di qualche mia eventuale marachella …..…. allora si cresceva al motto…. “mazz’ e panell’ fann’ li fegl’ bell’” e non c’era Telefono azzurro che tenesse ……. altri tempi.
    Oltre a mio nonno Erminio ed a mio padre Vito il ricordo va a tanti altri calzolai, molti non ci sono più, …. Antonio Petralia, Gerardo e Mario Di Spirito, Peppino Crincoli, Carmine Monaco, Armando Muscaritolo, Leopoldo e Gerardo Muscaritolo, Gerardo Forgione, Rocco Palmisano, Vito Rocco Perrotti, Gerardo Crincoli, Rocco Perrotti, Gerardo Saporito, Francesco Gallo, Angelo Giannetta, Aurelio La Vecchia …… quelli che appunto ricordo io ma erano tanti, veramente tanti …… per un mestiere che ora non c’è più.
    P.S. : A proposito di artigiani …..un ricordo va a Mimì Rappucci, elettricista di Carife, che prematuramente ci ha lasciato qualche giorno fa. Una persona perbene ed un artigiano di gran livello, laborioso, puntuale e bravo, con un’alta concezione dell’etica del lavoro “…..gli sia lieve la terra”.


    Vallata, lì 03 Febbraio 2013

Dott. Erminio D’Addesa

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