Frumento amaro - Italo

Questo mio modesto racconto vuol'essere un omaggio a tutte le ragazze del mio paese chiamata Vallata.
che nell'indimenticata forsennata gioventù ho vissuto i più bei momenti di pazzia tra le braccia di una stupenda ragazza che nella più semplice naturale agreste dedizione mi volle fare omaggio.
Grazie Johanna

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Vallata, tempo di trebbiatura:

“Frumento amaro”

In uno spiazzo adorno la cappella di S. Vito in un minuto alto-piano, all’ombra di severa cuspide, dall’arrivo di lenti cigolanti carri, crescente era il nugolo di dorati superbi covoni.
Nell’aleggiar di pesanti fasci di spighe con voluti adunchi arpioni il saper d’equilibrio le costruenti vette.
Menava caldo il vento Africano da sud-ovest in un trasporto di accecante polvere tra lo sferragliare in assordante trambusto di vecchia trebbia, che nel far girare le veloci insidiose pulegge, con lo scudisciante nastro faceva luccicante il cocente sole.
Fra l’entusiasmo e le varie concitazioni per contendersi la migliore posizione, una giovane ragazza, avvenente, prosperosa, competente e simpaticamente arrogante, orgogliosa si imponeva con il suo voluminoso carro. Col venire dall’infuocata campagna della valle Ufita, con impeto e maliziosa versatilità si faceva notare, proponendosi con sagge soluzioni.
Io giovanetto vagabondando ero li, un po’ per curiosità e un po’ per raccogliere residui di grano, mi soffermai a notare cotanta agreste, superba bellezza.
Johanna…. il suo nome:
Coriacea dalla aggressiva voluttuosa forma in vaporosa madida pelle ti scatenavi su robuste nerborute gambe agitando la testa da succinta bandana rossa, racchiudendo la cespugliosa capigliatura “rosso–tiziano”.
Come indomito guerriero lanciavi “mannelli” alla volta di crescenti torri.
Gli accesi toni di infuocate gote esaltavano le tue procaci forme e nell’impugnar l’insidiosa forca; severo il monito a sguardi maliziosi.
Compiaciuta ti sentivi osservata, e non disdegnando pose provocatorie esprimevi taciute intenzioni per piacevoli richiami, a che con ingenua simpatia lasciavi a libere interpretazioni.
Io,con poco più di tre lustri non certo distratto, simulavo l’approccio in una recita di utile collaborazione e in attesa di qualche ragione ero li con finta trasognata distrazione a capire il tuo linguaggio.
In naturale “foya” con ripetuti muti riferimenti esprimevi l’accenno d’invito al voglioso incontro. E dall’infuocato sguardo come lame incrociate scaturiva lo scintillio dell’intesa.

E già più tardi alle prime frescure, finanche il Sole, stanco, si coricava dietro gli evidenti rilievi, adombrando ogni cosa in una capita comprensione, onde potermi dare l’opportuna occasione di quel prezioso ingaggio.
Finalmente calava la quiete. Dal serale raccolto bivacco in frugale pasto, al voler con lento monotono passo, ti allontanasti in una recita di voluta solitudine, e all’ombra di quei costruiti giganti mi spingesti nei stretti insidiosi budelli in un labirinto di tortuose pareti. Nella certezza di celata funzione, ti scatenasti con selvaggia violenza. Senza alcuna premessa, e aggredito non capii più nulla, lasciandomi in un prologo di piacevoli, fantasiosi sviluppi.

Cosi ebbe inizio la più bella battaglia “corpo a corpo” tra due giovani in balia a naturali, istintivi, incoscienti desideri.

Fra gli angusti spazi fustigata dalle appuntite “gregne” in affannosi sospiri con violenta veemenza, mi afferrasti, e tra le labbra carnose e i turgidi seni sfogavi la sofferta bramosia, che, al culmine dell’urlante goduria nello sguardo alle stelle con occhi socchiusi mi donasti la tua infuocata natura.
Ti librasti con gioioso lamento nel consacrar quel dono. Attorcigliandoci nei brandelli delle tue vesti, ti scatenasti nelle più audaci fantasie d’amore.
Nei soffocati sospiri, gioiosa e dolorante, librasti l’urlo al cielo consacrando quel voluto sacrificio della tanto pudica imene. Io frastornato in ripetuti schioccanti baci ti facevo interminabile quella rorida acrèdìna goduria. Drogato dalla tua travolgente lussuria, sconvolto in un onirico paradisiaco rotolarmi, non seppi più coscienza a quelle ripetute infuocate esigenze. Avviluppandomi in unico fuso abbraccio, con si tanta ragione, lasciai al naturale istinto il quietarsi di tutte le sacre evoluzioni.
Terminata la prima e inaspettata piacevole fase, continuammo a frequentarci.
I ripetuti successivi incontri non facevano giustizia alla prima piaciuta esplosione, ma che con più saggia pacatezza davano più gusto a un più lungo estensivo rapporto nel saper consumare con più coscienza quei piacevoli pasti d’amore.
Notti d’amore, furie scatenate dall’incontrollabile giovanile ardore.
Sette furono le piacevoli notti in una fase ascendente di romantici splendori, e ai primi tenui calanti pallori tanta la fatica di quella adolescente pazzia.
Con rapida impressione capii che tutto finiva senza il consapevole abuso di quell’onirico occasionale destino.
L’esiguo numero dei covoni non davano più riparo. Si concludevano gli ultimi giorni di quella piacevole confusione.

La luna già in calo, non ingrigiva più l’erba con i suoi romantici aloni. Lentamente finiva la stagione della trebbiatura, e con essa anche l’estate. Il vento d’autunno spazzava ogni cosa creando nuclei accumulati qua e la per poi lasciare alle successive tempeste il compito ripulire tutta l’aia. Liberato quel lieve pendio ove io ragazzo con i compagni di scuola giocavamo a rotolarci i in un piacevole “rok’la-rok’la cicinidd”

Finiva l’estate, ed altre ancora… Di te non seppi più sorte.
Finchè un di in un turbinio di abeti dalle tempestose cime a dorso di una giumenta ti intravidi per le piane di Oscata e come una amazzone in balia al vento mi sfuggisti fra le isteriche risate, lasciandomi in trepidanti agitazioni vittima di quell’indimenticabile meraviglioso inganno. Ora capisco quel vecchio saggio: “lascia al tempo le sue ragioni, e ti renderà nel giusto il significato dei valori, senza che mai nella realtà, quantunque sogni ti turbino più di tanto”.
Ora solo pale al vento in monotono fruscio echeggiano in tutta la dorsale, nel vano lento prosieguo l’utile monito a non illudersi invano. Non più insidiose “puke”. Non più arsure nelle canicole da quel sole infuocato,non più covoni col naturale rifugio di quelle emozioni. Ora solo nostalgici ricordi nelle più esasperate inutili evocazioni, senza più certezza che madre natura possa ancor miracolo.
Perdonami amata creatura.

Quanto sublime e’ il goder d’amor se di donna sai di meritar il piacevole dolore

Grazie Johanna…..

Amittit merito proprium qui alienum adpetit.
Ha quel che merita chi perde il proprio per arraffare l'altrui
“Fedro”

Vallata: Agosto-Settembre 1962

Italo Antonio Di Donato

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