Kumba-Kaim - Un Vallatese… un personaggio - Italo

«Kumba-Kaim»

Un Vallatese… un personaggio

    Da Vallata…. Propositi di un noleggiatore

    Era una fredda notte d’inverno.
    L’ondeggiare di traballanti lampade facevano giochi d’ombre sulla spoglia piazza, che agitate da capricciosi venti in un risveglio di acuti rintocchi della chiesa dei morti rendevano cupa e triste quella notte d’inverno.
    Il silenzio, rotto da paurosi rimbombi, si alternava con freddi fischi e fragori.
    Gli accecanti lampi, squarciano le tenebre sotto un cielo cupo e minaccioso.
    Il rintronare di una dispettosa ondulata lamiera strappata ai suoi precari sostegni, si rotolava giù per l’antica “acqua del medico” facendo insonne e paurosa l’interminabile notte.
    La piazza soffocata da gelida brina subiva il continuo gioco dalle gigantesche ombre proiettate dagli stessi monumenti. Il primo, a rispetto dei caduti della prima guerra mondiale, l’altro a ricordo di altri eventi religiosi.
    I momenti di pausa, nei vari intrighi, sembravano attimi di tregua fra i due giganti che in ripetuti duelli scatenati dalla stessa furia, volevano fantasiose allegoriche battaglie.
    Dalle strade limitrofe reduci di altri covi-bettole, (M’nuccia Sant’ll-r’ senzap’nsir’-r’Fragn’t’-Fonz’ la ross’) per la tarda notte, si apprestavano con passo incerto gli ultimi avventori alla ricerca di opportuna composizione ed evitare che la forza stessa del vento, li costringesse a rasentare i vari muri sotto l’insidia di tegole mal ferme.
    Dalla confusa mente per i postumi di vertiginose sbronze, l’euforica danza dava per l’incosciente barcollare una sfida alle stesse battaglie. Nel trambusto di urla (rumori, lampi e tuoni) tra fantasiose fanfare in cimento, con il coraggio della paura si spingevano a assurde sfide a quei giganti. I timori all’incalzare del furioso temporale, in una consapevole impari lotta con gli stessi, facevano di questi coriacei guerrieri vittime di “Dei” castigatori che, nel brandire corone quali scudi e croci, come enormi spade dettavano sonore punizioni a gli incoscienti fastidiosi ubriaconi.
    Nelle assurde paure cercavano frenetico scampo nei più opportuni ripari pur accettando le rovinose tegole che li rendevano sfigurate maschere nell’evidente insanguinato aspetto.
    Senza poter intuire che il capriccio di una dispettosa lampada, potesse cosi scatenare la loro istintiva fantasia, ereditata da antiche battaglie consumate all’epoca dei Piemontesi lungo la strada, che a triste ricordo viene indicata “kiankione” in un subconscio di ribellione dalle ataviche paure.
    Le leggende che in seguito alimentavano la stessa rabbia, svanivano al mattino successivo.
    E si arrendevano più all’atroce mal di testa che non alle evidenti lancinanti ferite delle dispettose tegole.
    Rinsavendo con più opportuni propositi cercavano espiazione e comprensione dei labili ricordi senza la benché minima certezza.
    Altri rintocchi andavano riducendosi man mano sin verso i primi confusi bagliori.
    Col tacitare degli eventi nell’esecrata piazza, altre ombre si animavano all’incontro della vecchia corriera, soggette alle speranze del quietarsi degli avversi elementi.
    Le tenue luci che con magico invito apparivano in confortevole richiamo, indicavano il punto di incontro-ristoro nei vicini provvidi locali di caffè, in un clima già saturo di suffraganti vapori di anisetta e altri alcolici, alleviandosi dai brividi di pungente freddo.
    Inebriati dalla patetica euforia. I miserevoli ospiti, in isterici sfregarsi di mani, si confidavano alla luce dei propri programmi l’auspicio di un più clemente clima, onde poter affrontare mortificanti viaggi alla volta di Avellino, Benevento, Napoli, ecc.
    La sconfortante attesa, non tanto per l’alzata mattiniera, ma per l’incerta venuta della precaria e vecchia corriera, si faceva sempre più evidente.
    In aggiunta ai preoccupati avventori, emergeva pure chi con fare concitato, cercava di raccontare con gestuale delirio l’esperienza vissuta qualche ora prima nell’affrontare quell’ombre giganti, fomentando suo malgrado, nei presenti, curiose preoccupanti e inaspettate iatture.
    Qui la tragedia si accentuava di più, allorché, per gli immediati effetti dei bicchieri tracannati, si avvertivano i primi sconnessi riferimenti ai già ansiosi propositi per le costrette escursioni.
    Facendosi una ragione, data la necessità, ognuno cercava di forviare i riferimenti, incrociando e gestuando con fare osceno.
    Intanto, data l’occasione, si ripeteva l’arrivo in modo studiato di un altro cliente, che con già collaudato recitare, saluti e cordialità, si proponeva in qualità di presunto provvidenziale tassinaro; non foss’altro se non per esorcizzare quella snervante incongruente attesa.
    Con esperta mimica, faceva invito a chi volesse seguirlo alla volta del capoluogo. Nella capace cordialità e benevolenza, sfruttando gli aspetti più simpatici della già conosciuta recita, rassicurandoli, cercava comprensione e solidarietà; specie quando, nei suoi racconti, allietava durante il viaggio con favole di innocente scaltrezza, infarcite in simpatiche inventive su avventure in terra di Puglia. Riferiva i tristi tempi dell’immediato dopo guerra ove la necessità lo vedeva contrabbandiere di derrate e alimenti più svariati, in un coacervo di rischio, coraggio e spavalderia, e non sempre aveva successo ai posti di blocco, ove militi, e a volte gli stessi contrabbandieri predoni, lo vedevano costretto alle più assurde congetture di recita. E nella speranza di vedere nella sua immagine la preziosa capacità, si giovava di quel prestigio per aumentare l’interesse dei viaggiatori a una più numerica presenza ai suoi auspicati viaggi.
    La trattativa, tante volte, era caratterizzata da curiosi avvenimenti; vuoi per i racconti o per l’esuberante euforia, fatto sta’ che, per ogni proporre, diventava sempre esiguo il numero che giustificasse il viaggio stesso. E in una sempre più convinta ragione di prudente valutare gli inconvenienti, non sempre il tassinaro meritava successo. Vero è ché in altre precedenti occasioni, non riuscendo nei suoi intenti, si concertava con altri tassinari di Carife o Castel-Baronia–S. Nicola, a l’incontro sulla toppa di S. Sossio Baronia, ove cumulare in un’unica tratta tutti i passeggeri, costringendoli a mortificanti viaggi stretti nello stretto abitacolo.
    Fermo restando che, al probabile incontro di pattuglie di polizia, si necessitava il patetico giustificare l’esubero dei passeggeri stessi, con l’appartenere a un unico parentado, poiché costretti a partecipare molte volte a dei funerali lontani dalle proprie origini. E nella scarsa comprensione dei Militi, scaturiva tante volte la comica del danno e della beffa.
    Al paese era chiamato con un sopranome curioso “Kumba-Kaim” in molti casi benevolmente considerato, tanto più che, in molte occasioni si prestava ad accompagnare i giovani la sera, d’estate, nei paesi limitrofi a vivere una serata in armonia in occasioni di feste patronali. I tanti giovani nell’allora spensieratezza si giovavano nell’accostare questo “scang’ nnom’” detto in maniera Vallatese, come sinonimo di allegra protervia capacità di arroganza, strafottenza, piacevole indignazione.
    Era l’inverno del 1964. La neve si concedeva sempre più abbondante. Il freddo gelido e le continue notti di penetrante umidità nebbiose,tristemente piovigginose, ci mortificava a tal punto, che seppur la benché minima occasione di evadere per paesi limitrofi, era buona per farci sentire meno annoiati, meno isterici, e la figura di “Kumba-Kaimm” serviva più da mascotte che non da autista per la sua simpatica, versatile, logorroica, innocua dabbenaggine.
    Gli anni continuavano a ripetersi. Niente sembrava cambiare.
    Solo con l’avvento della costruzione dell’autostrada A-16 Napoli–Bari, ci portò a un temporaneo cambiamento. Nacquero tanti cantieri di lavoro. Persino chi per tanti anni aveva lavorato all’estero.. fece ritorno, e nella fiduciosa consapevolezza di un benessere economico, ognuno cercava finalmente conforto in grembo alla propria famiglia. In seguito con il ripetersi di vicissitudini lavorative, vollero farci grazia nella sua natura i provvidenziali “Terremoti del 1962-68-1980”. Qui le cose cambiarono. Forse un po’ anche a rilento, … ma cambiarono….
    A quel tempo, nel lontano 1964 era duro vivere. Il continuo peregrinare di “Kumba−Kaim” alla ricerca di probabili clienti da trasportare lo vedeva invincibile. Ossessionato da quella voglia di vivere si riproponeva continuamente per ogni dove, bastava chiamarlo per andare a partite di calcio, matrimoni, a qualsiasi competizione sportiva, a qualunque festa patronale. Era sempre lì pronto con ogni disponibilità… Era la sua vita!!!
    La curiosa origine del suo soprannome venne dalle lontane terre neo-latine; cioè dalle falde della cordigliera delle Ande.
    Stranamente il nome, ovvero soprannome, gli fu coniato da un nostro compaesano (Boukekk’ye) di ritorno dalla lontana Argentina subito dopo la seconda guerra mondiale. Dopo parecchi anni vissuti in Sudamerica, e un po’ dappertutto, si decise di far ritorno in Italia, e sapendo del proprio genitore prossimo a morire, nell’estremo convinto desiderio del fargli omaggio, volle doveroso almeno un ultimo saluto. Arrivò a Napoli con una nave a dir poco sgangherata, dopo una ventina (o forse più) di giorni di navigazione si vide sbarcare nel porto Partenopeo, in una confusione di bagagli, facchini, carrozzelle, e un continuo andirivieni di gente e avventori occasionali che offrivano servizi tra i più disparati. Il povero paesano Vallatese non sapeva come muoversi senza la preoccupazione di essere derubato o quanto meno truffato. Il suo istinto ormai collaudato alle più improbabili circostanze, vissute in una terra difficile e inospitale, gli avevano indurito l’animo, forgiato il carattere e la mancata facile fiducia nel concedersi al prossimo, gli avevano assicurata la sopravvivenza.
    L’incontro in quel porto di Napoli non fu certo casuale in quanto i suoi parenti gli avevano garantito l’invio di una macchina da Vallata per prelevarlo. Michele, autista dell’auto altrettanto malandata, si aggirava in tutto il porto, e non sapendo come rintracciare il compaesano, volle inventarsi un curioso stratagemma. Con uno straccio bianco (altro non aveva) agitato su un’asta rimediata da una porta in abbandono in un angolo, lo sventolava all’ingresso del molo con su scritto da provvidenziale carbone “Bukekk’ye ra Vaddat’” un messaggio alquanto strano, ma che non sfuggì al paesano, il quale incontratolo lo apostrofò: −ueee ,paisà!!! “tu kaim ???” cumbor’mey’e!!!− che in dialetto kiciuwa della lingua sud-Americana significa: l’autista delle strade sconnesse lungo le ripe insidiose della cordigliera…. Niente di più azzeccato. E così da allora “kumba Mikel, fu chiamato Kumba-Kaim”.
    In uno di quei mattini, che ormai si ripetevano da tempo, Kumba- kaim in concorrenza all’autobus di linea si ripropose ai vari viaggiatori, e visto gli scarsi risultati per le varie reticenze, con un po’ di fantasia dopo aver sistemati alcuni clienti, pregandoli di pazientare, sbirciò tutt’intorno alla ricerca di qualche ritardatario; e fra i vari barlumi di un’alba grigio-scura intravide un’ombra che sembrava indeciso vicino al Monumento ai Caduti.
    La figura esigua non sembrava aver alcuna ragione di muoversi, e Kaim, con garbata maniera, invitò il probabile passeggero a una sollecita decisione: “Me’ kke’ ffai ddo’ t’ni vin’ a av’llin’ o no!!??”. Il poveretto avvolto in una mantella scura e lercia (vecchio ricordo della prima guerra mondiale) con un cappello tanto mortificato dall’eccessivo uso, dava l’impressione di un vecchio brigante dalle guance infossate, e dalla rabbiosa espressione con una pipa che a mala pena si reggeva tra le gengiva di una bocca orfana di denti ormai da tempo. Le ciglia cespugliose e i baffi ruvidi appuntiti, non certo recitavano cordialità. Alla mancata risposta, il Kaim, con fare arrogante e deciso, ripeté con insistenza l’invito : ouhh!! Kumbò…’ kke’ e’ a’ fa’, vin’attenn’ kumme’…ià!! Ka’ s’ no’ facemm’ tard’. Mouv’t’!!.e scé o no’ a Av’llin’!?. Il poveretto, già asmatico per un enfisema polmonare cronico, tra un soffio e l’altro stringendo con rabbiosa ansia quella lunga pipa ormai priva di qualsiasi fumo, riconosceva l’arroganza di quel primo gemito, e girandosi con fare seccato, rispondeva ironicamente: e pov’r’ kr’t’n’…!!! ma ? quol’ Av’ll’n’???
    Con fare deciso ricompose l’umile mantella e avvolgendola in una rassegnata espressione si allontanò sbuffando.
    Il povero −Kumba-Kaim’− riconosciutolo, ando’ in stizza, e con rabbioso rimprovero redarguì’ l’incauto genitore: “mma!!?? Kke-kke’- ffai ddo’?! uuumm??! - Nun sind’ ka’ fac’ fredd’- uuum!!?? - Kam’n’ arr’t’r’t’-…uuuum!!!
    Va ‘t’ kourk’!! nu’ r’ bb’r’ ka’ t’ so’ r’mast’ sul’ li bbaff’!! - ma tu word’ stu n’dumm’ …a la v’kkiai’e ancor’ ka’ vai’ pascenn’ !!! E con esasperati gesti continuando a mortificare il povero berretto, che aveva il patetico compito di sopportare le sue rabbiose invettive, faceva ritorno alla sua macchina.
    Purtroppo qui … l’amara sorpresa nel vedere l’assenza dei clienti. Che, per il prolungato tempo perso e con il sopraggiungere della corriera, avevano deciso di prenderla per un più sicuro viaggio.
    Al culmine della sua sventura, il povero Kuma-Kaim volle esplodere nelle più accentuate malversazioni:
    «e bba-ffa-nk’ul’!!!! vaffank’ul’ vui’e e tutt’ li misarab’l’ r’ stù paes’ r’ matt’…!!! E s’ p’ disgrazia vostr’Avit’ abb’sugn’ r’ me’…. V’ fazz’ v’re’ ki e’ kumba kaim!!!! »
    Con aria rassegnata il poveretto si accingeva alla volta di quella fioca luce del locale “r’ M’nuccia- Sant’ll” a lui familiare. E nel cercare di soffocare la sua rabbia, sperava che qualcuno comprensivo condividesse le sue ragioni, e… hai visto mai, volesse pagare da bere.
    Nel servirsi, rimuginando assurde e incomprensibili prose, s’accorgeva dell’avvicinarsi con occhi stralunati quell’isterico narratore del gigante castigatore, che in un fare da tremulo bevitore cercava di convincere il povero Kumba-Kaim, il quale, irretito per l’ennesima volta, riesplose con rabbiose grida : “ooouuuh!!! krist’…. !!! Nun e’pouss’bb’le… s’ la matin, , truv’ sul’… matt… m’briak’… e p’zzentun’!!! kr’st’ ramm’ forz’…salv’m’n’ almen’ un’”− e come un collaudato esorcista si scatenava in una gestualità sempre più frenetica e concitata in un delirio di grugnite recite.
    Qui’ in una convinta ragione di salaci deduzioni, voglio convincermi che: vivere, soffrire, sopportare e aiutare, non vuol essere un caso. Subire è anche dover perdonare. Ma che di già in ognuno di noi nella più semplice consapevolezza il merito sta più nel voler capire che non nel saper punire!!!
    E dunque.. a te, Kumba-Kaim… Oltre a saper far ridere con patetica umanità, sai rendere preziosa la tua filosofica ingenuità.
    Sopratutto rallegrando nella tua episodica dialettica gestuale, priva di ipocrite pretese, sai rendere utile la tua pagina, forse un po’ scorbutica, ma certamente simpatica. E a tuo modo, con velata discrezione di mal cortese, rendi testimone, la storia di questa mortificata cultura, chiamata : “cultura Vallatese”.
    Vallata, nei lunghi tristi inverni 1950-1970.

Italo Antonio Di Donato

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