AQUILONIA - Italo

AQUILONIA :
Il commovente destino di:
Luigi Tommasiello, detto : “P’sidd”

      Nel cuore della vecchia sacra terra d’Irpinia.
      Ai piedi di quel sancito motto “aut vincere aut mori” si consumò il sacrificio di un giovane nell’esecrabile cattiva coscienza di chi nella calunnia esegui la “sua condanna”.

      Dalle lontane suonate di confuse tarantelle, in un contado, nel semplice spiazzo di un “aia”, residui di insidiose “puche “ancora aleggiavano al fresco vento autunnale; con esse gli ultimi commenti di una tragedia in patetici racconti di mortificate genti, non trovano pace.
      In quel di “Car’vunara”, ( Aquilonia.) un piccolo paesino, alle falde del vicino Vulture in un contesto di isolato naturale scenario, con l’imponente castello della vicina Monteverde, si armonizzano musicati romantici canti di uccelli tra le fresche ombrose utili piante, per poi ripetersi d’eco per tutta la valle in ancor più utili salubri vertigini a respirar d’aria in cosi gioviale natura.
      Le utili copiose piogge alimentano una fiumana, che, facendo prezioso l’incavo di provvida diga si perdono lungo tutto il percorso dell’ormai storico e glorioso Ofanto.
      Solo l’alterno volteggiare di sparuti corvi col loro compito, gracchiando, scivolavano con fugaci ombre sul bacino, rendendo con evidenti messaggi le lugubre apprensioni.
      Forse.. nemmeno l’eroico “Annibale” nell’attraversare questi accidentati, serpentari cammini, non seppe interpretare quelle ombre. E alle strazianti grida di immani battaglie si vide sempre più spinto verso i confini dell’Adriatico, ove, pateticamente, si adiva a illuse glorie.
      In quella suggestiva scritta di mosaico stemma “aut vincere aut mori” che tanto avvalora queste genti. Nell’impeto di antiche Romane battaglie, prestigioso rendeva quel poggio, che come baluardo indicava l’utile osservare sin verso tutta la distesa a salvaguardia dei propri presidi. Qui in una metafora di allusive concezioni, è facile trovare motivi di letterarie creazioni, senza sciupare il fascino naturale, che, oltre a caratterizzare l’evidente piacevole tristezza, rende palpabile quella parvenza di condizioni vitali in una dimensione di assurdo declino. Solo nel coraggioso impegno di premiate inventive, rassegnati contadini,caparbi imponevano sfida a quella ostile natura.
      Minuta la stazione ferroviaria. I binari: tristi , neri , bagnati da fredda brina, solitari. Rendono difficile l’idea di come uscire da quella caligine che tante volte mortifica la stessa valle. E, come una porta , che si apre verso l’utile evoluta civiltà, nell’ isterica ansia, ognun s’apprestava a voler auspicato successo, incamminandosi per estenuanti ferrosi trambusti, alla volta di altre mete sin verso le lontane terre latine in una mortificante costrizione emigratoria. Troppe volte, dalla stessa, l’umile postino a dorso di mulo, a saper difficile compito, portava “Dispacci Postali” inerpicandosi per quell’astioso cammino, intraprendendo la strada del ritorno, nei tanti impervi, inclementi inverni.
      Nel naturale evolversi della piana tettonica, dovuta a sedimenti vulcanici, più volte i fenomeni tellurici, esasperavano in drammatiche conseguenze le precarie costruzioni, che, non ultimo: nell’immediato millenovecentotrenta, volle un’immane ecatombe distruggendo l’intero Paese, con conseguenti migliaia di vittime.
      A volte la stessa “Natura”, non sempre esprime meritata comprensione, e rendendosi scioccamente capricciosa, esprime delitti ai danni di chi nell’evocare la sua sacralità con capace consapevolezza consuma il suo dolore in un dignitoso silenzio.
      A ridosso di quel triste scenario, in un nuovo insediamento, l’intelligente proporsi di una concertata urbanistica, esorcizza le ultime ombre di quella ormai passata tragedia. E solo le antiche spoglie di quelle strutture, quasi come monoliti, vogliono durezza nel sapersi perpetuare ai posteri nel dovuto rispetto. Non tanto ai conclamati lutti, quanto alla cosciente caducità, che, se non strutturati in convinti ricordi, non possono imporre valori quale valida arma, all’utile insegnamento.

Qui: la storia di uno sfortunato giovane, già figlio di quelle immani sciagure.

      Un giovane temprato nell’avversità della vita . Quel poco di vita che il destino gli aveva dato.
      Quel tanto che gli era consentito capire, vivere, sfruttare. Nato in un contesto sociale dettate dalle più difficili sostanze economiche; nella sudditanza di equivoche logiche di povertà, di ignoranza, pregiudizi, cattiverie e non meno: di sature congetture di invidia e di calunnie.
      Luigi Tommasiello, forse di tutti quelli aspetti non ne intuiva molto. Forse non capiva. O forse più semplicemente non gli interessava. Voleva solo vivere la sua vita. Quella vita capita a modo suo nella semplice consapevolezza delle sue logiche, dei suoi desideri, delle sue speranze.
      Giggino era buono, mai intollerante, sempre disponibile, pronto ad ogni prodigarsi per l’altrui aiuto.
      Capace a farsi volere bene. A farsi considerare. A sapere rispettare e farsi rispettare, in un’impegnata costruttiva e preziosa amicizia.
      La natura, tante volte, ti coinvolge in una saputa ingenuità e ti costringe a quella istintiva bontà scaturita dalla stessa indole; ma, che altrettante volte, non ti aiuta a saper evitare l’altrui insidiose cattiverie, con tutte le sue drammatiche conseguenze.
      Era riuscito a sposarsi, “p’sidd’”, a trovarsi una compagna che felicemente lo accudiva, gli stava vicino, gli voleva bene. Una compagna che riempiva la sua vita, che lo appagava nelle più semplici attenzioni quotidiane; che sognava su quell’unico stesso cuscino.
      Le esigue sostanze, improntate nella più semplice convivenza di nutriti affetti, di comprensione e chissà forse anche di sofferti sacrifici. In un armonia di reciproche gestualità all’impronta del naturale volersi bene, di cercarsi in quella sacra istintiva dimensione, chiamata “amore”.
      Luigi “p’sidd” si alzava sempre di buon’ora, assolveva con competente capacita ciò che tutt’intorno gli fosse d’obbligo: le galline, il maiale, l’orto e quant’altro. E finalmente, al risveglio della compagna, in un gesto di naturale carezza si congedava, alla volta della vicina campagna. Ove ben più duri compiti lo vedevano impegnato.
      I giorni trascorrevano felici. I celati sussieghi della compagna, tante volte, suggerivano ansie di un’ auspicata prole, che… purtroppo gli fu negata. «Pov’ r’ p’sidd’: ke d’sgrazia»

      Negli anni cinquanta, purtroppo, altre tragedie hanno sconvolto quella naturale pacifica povertà; che, nel pur non volere altre pretese, cercava nella quotidiana esistenza solo quel tanto che necessitava a poter vivere serenamente.
      Nell’estate di quell’anno, nel trascorrere giorni afosi dovute alle canicole estive, la mattina presto era la ragione più indicata per alzarsi e intraprendere le varie attività.
      Il rauco canto di galli alle prese di insistenti contese, rendevano sempre più azzurre le prime luci dell’alba, che nello spirito di intrapreso buonumore ognuno armato del suo semplice fardello si avviava a quelle fatiche in un auspicato guadagno.
      Erano tempi di mietitura. Un giovane, forte baldanzoso ostinato alle sue convinzioni, prodigo, di buon’ora si avviava con festino passo a unirsi a quel drappello; che in un percorso itinerante, già dettato da antichi tratturi, conduceva verso le torride Apulie, onde prestar manodopera come mietitori. E in un’insieme di allegre gestualità in cordiali saluti, s’avviavano verso quelle afose pianure.
      Il sole era già alto, quando ai primi contatti di caporali del lavoro, ognuno si proponeva con orgoglio per la possanza fisica, a voler compiti sempre più munifici.
      Il giovane “p’sidd’” forte di quelle caratteristiche non disdegnava alcuna difficoltà, e sapendosi oltre che rude, coriaceo e spartano, inficiava con orgoglio i suoi compagni, che nell’inutile competere, grugnivano con malcelata invidia.
      Le albe successive, si incalzavano sempre più a volenterose fatiche. E ognuno al meritato successo del giorno prima, veniva successivamente premiato con altri ingaggi.
      Il tempo di tutta la mietitura durò parecchi giorni, e il giovane “Luigi” sempre armato di buona volontà continuava il suo lavoro con quella semplice arguzia che irritava e dava fastidio ai suoi compagni. E pur essendo molto versatile, nel recitare le sue angosce per la mancanza della propria moglie : «sola, giovane e innamorata; costretta a dover consumare le notti nell’attesa del ritorno del proprio marito». Si sentiva amareggiato.
      Nella compiaciuta allegria, dettata spesso da ipocrita euforia, il povero “p’sidd”” si trovava più volte a sentir curiose allusioni, di chi, con eccessiva confidenza, cercava di canzonarlo; irretendo la sua ormai manifesta sensibilità a quel bene cosi legittimato.
      I giorni erano sempre più lunghi e faticosi, e Gigino, la sera molto dopo il tramonto, essendo stanco, preferiva adagiarsi lungo l’incavo dei solchi, e dopo aver consumato frugali pasti, a volte donati dai stessi padroni, si concedeva pure qualche abbondante bevuta di buon vino, per poi adagiarsi e cercare sollievo in una meritata dormita, e l’indomani trovarsi pronto all’assolvere quell’importante compito, senza subire le inutili invettive.
      La pioggia, di tanto in tanto si concedeva; quasi a voler premiare quei condannati.
      Si lasciava alle spontanee gratitudini, a pretendere merito a quelle naturali funzioni.
      Luigi “pisidd’”, aveva faticato molto. Il suo sguardo per tutto il tempo lo volgeva a Nord-Est verso quei rilievi, la dove serenamente, in un ovattato adombrato scenario l’aspettava la sua compagna. E senza mai pretendere riposo, sapeva nel giusto il felice ritorno a casa.
      Le successive conclusioni di quel periodo d’impegno al sacrificato lavoro, finalmente volgeva alla fine. I balli, le abbondanti bevute, l’ insistiti isterici salti al forsennato ritmo di sfiatati organetti, scatenavano orgiastiche danze alla luce delle più istintive ragioni.
      Ognuno, appagato di quel tanto che aveva guadagnato, si abbandonava a fantasiosi progetti.
      E nel far confronti con altri alle covate idee, spesso nell’arroganza e presunzione dei più ignoranti scaturiva la provocazione.
      “P’sidd’” aveva più volte evitato la provocazione e lo scontro…. ma quella sera in un clima di arroventata invidia, qualcuno in un volontario deliberato insulto l’ha apostrofato dandogli oltre che dell’ingenuo, anche del cornuto, ribadendo per l’ennesima volta che l’aver trascurato la moglie al paese; ove altri (a loro dire) a sua insaputa, ne avrebbero approfittato. Accusandolo di aver preferito le aride steppe per esigui guadagni, alla doverosa compagnia di donna giovane fresca e prosperosa in un inganno di voluto abbandono.
      Il poveretto, arroventato dall’ insane calunnie, non ebbe più riposo. Si rifugiò in un ostinato silenzio, e cercava nella forza d’animo la più semplice delle ragioni: non poteva una cosi affezionata consorte lasciarsi tediare dai più assurdi inganni per poi cedere alle più ignobili tentazioni. Quelle calunnie, dettate da menti diaboliche, ebbero una delle più assurde conseguenze: esplosero nella più aberrante e agghiacciante tragedia.

      Il mortificato, solitario cammino del ritorno, fu più difficile di quanto lo era stato l’avvio.
      La sua ignoranza e incapacità di valutazione lo portò alla più forviante delle convinzioni.
      Passo dopo passo, in una flemma di stancata esasperazione, “p’sidd” raggiunse le immediate vicinanze del suo paese. Non volle fare subito ritorno a casa. Si aggirava come una bestia ferita, in preda al delirio del suo dolore. Volle dapprima recarsi ai piedi di quella Cappella del Santo Patrono, prostrandosi implorava il preteso conforto.
      In un impeto di disperata invocazione, chiedeva il perché a quel Santo, e non potendo aver risposta, si ripete tante volte nei tradizionali tre giri, cercando aiuto, a che, gli assurdi propositi di quegli ostinati pensieri non mai avessero avuto ragione. Stanco, sconfitto, spossato volle adagiarsi all’ombra della secolare quercia. Ove, anche gli uccelli nel moinare di alterni cinguettii si tacitarono. E nel loro istinto, con l’avvertire presagio speravano di lenir in utile conforto.
      Le ultime ombre rosse infuocavano l’orizzonte, lo scenario incupiva sempre più quel poveretto, che, come l’animale colpito, in una delirante disperazione, peregrinava tutt’intorno.
      La notte fu lunga, triste e drammatica, e non ebbe più certezza del come la propria coscienza non avesse che a tradirlo.
      All’indomani, con l’espressione stravolta, in un grugnire incomprensibile, faceva ritorno a casa. E di quella assurda pazzia, nessun provvidenziale incontro lo fermò.
      Apri la porta con drammatica sequenza. All’incontrare la propria compagna ,che in una innocente espressione, stupita, non ebbe modo neanche di meravigliarsi. Solo un terrificante urlo esplose in tutto il vicinato, che già il povero Luigi brandiva con il colmo della ferocia la micidiale falce, e in ripetuti colpi volle sgozzarla. Povera compagna. Con il ripetersi del rotolare il suo capo lontano sul pavimento, persino gli occhi, in terrificante espressione, non ebbero il tempo di chiedere il perché di tanta drammatica, violenta sciagura.
      Non appagato, in preda alla furiosa confusione inseguì un gallo, e mozzatogli la testa la espose appesa al davanzale d’ingresso, quasi a voler esorcizzare quella iattura, indirizzò il preciso messaggio agli effimeri calunniatori. Nelle robotiche sequenze, raccolse la fune, e nell’accertarsi che potesse essere solida allo scopo, la legò al soffitto. Sistemato lo scanno, con calcolata misura lasciò che la corda pendolasse per l’ultimo atto.
      Finito lo scempio, in uno stato di assoluta incoscienza, per alcuni momenti volle ricomporsi.
      Con lucida determinata follia varcò l’ingresso della camera da letto, ove, ben altri sogni aveva allietato le illuse speranze. Recatosi presso l’umile armadio, con presagita convinzione funesta, prese lo stesso abito che in altre occasioni più felici gli era servito a più gioviali funzioni. Lo indossò. Assicurandosi di un aspetto impeccabile annodò la cravatta. Un ultimo sguardo allo specchio. E nell’immagine riflessa, quasi a voler dar consegne alla propria anima, con assorta dignitosa convinzione, si recò a quel cappio. Ove: sistemato il collo, con voluto ultimo scatto al traballante scanno, si lasciò pendolare.
      Gli occhi sbarrati, il corpo pendolante,la testa della povera compagna in una pozza di sangue con lo sguardo spalancato rivolto al cielo; l’orripilante recita di una gallina nell’apprestarsi a consumare in lauto pasto quei rivoli di sangue ormai coagulati; furono la repellente scena, che così inverosimilmente in un raccapriccio terrificante, apparve ai primi soccorritori.
      Una coraggiosa mano in un slancio di dettata umana pietà,seppe coraggio a voler chiudere quelle palpebre, che come un sipario si calò su quell’ultimo drammatico atto di insulsa follia.
      Moriva Luigi Tommasiello, detto “p’sidd’” negl’ultimi giorni di quella torrida estate.
      I cupi rintocchi, tristi e lenti di stanca campana trascinati dal vento, giungevano sin verso i limiti di quelle assurde coscienze che nel tormentato peregrinare, recitavano pentimenti in fiumi di lacrime.
      E negli stessi ripetuti giri all’ombra di quella quercia ammantata in auspicate tremule speranze, non adiva a probabili perdoni.
      Nell’eloquio di patetico silenzio che avvolgeva l’intero paese, solo la triste roboante omelia di stanca rauca voce di un anziano parroco,non poteva commuovere più di quanto potesse la realtà stessa. Un folto seguito, volle rendere omaggio a quei giovani feretri.
      Nel suggestivo silenzio che suggeriva mortificanti commozioni, nemmeno gli innocenti giuochi di confusi schiamazzi del vicino asilo potevano ragioni a quel preteso meritato vivere felice.
      Le salme furono tumulate in un angolo all’ombra di più umani cipressi, rallegrate in uno stretto cammino da timide, tremule variopinte viole.
      La semplice croce con data di riferimento, dava testimonianza a che potesse ricordare quelle sfortunate “Creature”.

      Alla luce di tanta vergognosa, diabolica, meschina incoscienza: solo chi peregrinando per quei paraggi con mortificato mesto cordoglio, può voler ancora l’utile umana pietà. E nel religioso proporsi di fare doveroso omaggio a quelle “anime” con umili preghiere, spero che floreali gesta possano almeno in parte riparare, “ a quel torto “in un rispettoso, dignitoso silenzio”.

      “Un giovane Parroco, al secolo:Don angelo Colicchio, nel perpetuare in misericordiose preghiere, si rievoca ancora negli acclarati sermoni l’utile richiamo a quegli esecrati eventi il fermo monito a rispettare le leggi e la suprema volontà di “Dio” Che nella Sua infinita misericordia abbi pietà delle loro anime”

      Con mesto devoto rispetto, io Vallatese, nella concreta convinzione di fare omaggio con tanta ragione chiamata pietà, esprimo in doverosa preghiera l’utile cordoglio per quegli animi cosi bisognosi dell’infinita misericordia di “DIO”

                     Aquilonia: anni 1950 circa, i fatti. 1964-1965-1966, 1967: testimonianze edotte dall’amico “Giovanni Verderosa”.
Partecipe in solidale umana pietà …
                       l’immancabile amico di tante avventure “Aldo Pelosi”

Italo Antonio Di Donato

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