DI UNA EPIGRAFE GIA’ IN AGRO DI SCAMPITELLA LUCCIUS RUPILIANUS CHI ERA COSTUI? Prof. Rocco De Paola

DI UNA EPIGRAFE
GIA’ IN AGRO DI SCAMPITELLA
LUCCIUS RUPILIANUS
CHI ERA COSTUI?


A cura del Prof. Rocco De Paola
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     In agro di Scampitella insiste un territorio denominato “re Cchiàne ri Luccio”(1). Il toponimo deriva, con molta probabilità, dal nome riportato in un’epigrafe, rinvenuta in quella zona e da tempo scomparsa ma che è, per nostra fortuna, documentata in CIL, vol. IX, al n° 1407.


     L’iscrizione fu segnalata nel 1875 all’Istituto, allora diretto da Theodor Mommsen(2), dal colto canonico trevicano Andrea Calabrese, il quale, a sua volta, l’aveva appresa da un amico non identificato. L’antica pietra su cui era incisa l’epigrafe si trovava in una località detta del Torricello(3), “nel mulino del sig. Lisi nel muro di prospetto”, come si legge a pagina 121 del “Corpus inscriptionum latinarum”.
     Doveva trattarsi, con tutta probabilità, del coperchio di una sepoltura, come si deduce chiaramente dall’iscrizione, ed è possibile inferire che appartenesse alla tipologia della cosiddetta “arca lucana”, abbastanza comune nel nostro territorio.


     Pietre del tutto simili, a baule, sono state ritrovate in passato a Vallata, sia in paese(4) sia in località Serro Martino(5), e a Vallesaccarda, alla Taverna delle Noci(6). Poiché di quella lapide si sono perse le tracce, non è possibile sapere altro, oltre la scritta, delle caratteristiche morfologiche del manufatto e della tipologia delle lettere, che avrebbero potuto fornire indizi preziosi tramite i quali sarebbe stato possibile determinare l’eventuale datazione della epigrafe. Possiamo solo ricavare qualche informazione, comunque utile, mediante l’analisi del testo che qui si riporta:
    
D . M
LUCCIO RUPI
LIANO OVIA(7)
PATRI . B . M . P . S

     Le lettere “B. M.” dell’ultimo rigo possono essere intese, secondo un formulario abbastanza diffuso, come “bene merenti” oppure come “bonae memoriae”. Le ultime due lettere, invece, potrebbero interpretarsi come “posuit” o, per estensione, “ponendum (hoc sepulcrum n.d.r.) statuit”, ma il significato non cambia sostanzialmente. Altrimenti si potrebbe intendere “pecunia sua”(8), nel caso in cui la figlia Ovia, come sembra plausibile, avesse provveduto a sue spese a far erigere la tomba al padre. Questa la semplice traduzione: “AGLI DEI MANI - A LUCCIO RUPILIANO - OVIA AL PADRE BENEMERITO (oppure, meno bene, ALLA FELICE MEMORIA) POSE”. Come e quando la lapide sia stata inglobata nella muratura del mulino di Lisi, pur rimanendo lo specchio epigrafico in vista, e quindi leggibile, non è dato sapere. Possiamo solo immaginare che essa non dovesse distare molto da quell’opificio, essendo improbabile che sia stata traslata da un luogo più remoto. D’altronde, nei muri di quel mulino era stata utilizzata almeno un’altra pietra tombale, con epigrafe, segnalata sempre da Calabrese, dedicata a Fonteio Marcellino da parte della madre Ianuaria(9). Questo ci induce a ritenere che in quei pressi vi possa essere stato un luogo adibito alla tumulazione dei morti, quando ormai la cremazione, che avveniva in luoghi predisposti allo scopo, denominati “ustrina”, per influenza delle religioni orientali e del Cristianesimo, non era quasi più praticata(10). La sigla del primo rigo D.M. (Dîs Manibus) “comincia ad essere usata verso la metà del I secolo d. C. e si spegne alla fine del III o sulle soglie del IV secolo”(11). Il defunto è citato solo con il “nomen” e il “cognomen”, manca il “praenomen”, dovuto al fatto che, con la fine della repubblica e l’avvento dell’impero, esso cadde in disuso, ritenendosi che fosse ormai un semplice orpello(12). Questa usanza si consolida e diventa predominante al tempo degli Antonini (138 – 192), per cui dal II secolo d. C. nelle epigrafi sempre più raramente si osserva l’antica consuetudine di riportare tutte e tre le denominazioni, più eventuali “agnomina”(13). Altra particolarità interessante, inferibile dalla forma del nome del defunto, è che esso si trova al caso dativo, intendendosi, in tal modo, assimilarlo agli Dei Mani(14). Nelle epigrafi più antiche il nome del morto era al nominativo, successivamente fu riportato al genitivo, in raccordo con l’ “adprecatio” Dîs Manibus, e quindi, come si è detto, esso si trova al dativo per la motivazione addotta. Naturalmente, si notano delle differenziazioni anche marcate in aree culturali diverse, dovute soprattutto a peculiarità locali, ma la tendenza generale è quella segnalata. La tribù di appartenenza non è indicata. Ciò potrebbe significare che il defunto fosse un “peregrinus” o un “libertus”, oppure che il monumento funebre sia stato edificato in un periodo storico successivo alla “Constitutio Antoniniana”. L’editto dell’imperatore Caracalla (212 d. C.) estendeva la cittadinanza romana indistintamente a tutti gli abitanti dell’impero per cui l’indicazione della tribù, che rappresentava un elemento distintivo dei cittadini romani rispetto a quanti non godevano di quel diritto, divenne superflua, e fu segnalata sempre più raramente nelle epigrafi, fino a scomparire del tutto con l’impero di Diocleziano(15).
     Il nomen (o cognomen) Luccius è attestato in numerose località, soprattutto in Italia centrale e meridionale(16). In particolare la sua presenza è documentata in Campania, in diverse città, come Pompei(17), Capua, Pozzuoli, Cuma, Benevento, a Sulmona, negli Abruzzi, a Lucera(18), in Puglia. Inoltre, testimonianze di una “gens Luccia” sono state rinvenute ad Ascoli Piceno e nei pressi di Orte e di Cassino, nel Lazio. Persino dalla lontana Croazia proviene una attestazione del nome Luccius, riportato in forma di graffito sul paranuca di un elmo(19). Quanto alla origine del nome non vi sono certezze. Potrebbe trattarsi di una derivazione dal nomen Lucius, con raddoppiamento della lettera “c”, e, quindi, di qui Luccius, tuttavia diversi linguisti considerano i due nomi del tutto distinti. Si potrebbe anche ipotizzare una genesi derivante dalla fauna ittica, dal nome dell’omonimo pesce, cosa, comunque, non molto probabile(20). Sta di fatto che il nome Luccius, o, nella forma arcaica, Lucceius(21) o addirittura Luccaeus(22), è largamente presente in età imperiale(23). Nelle sue diverse varianti compare in decine di epigrafi in località dell’Apulia come Aeclanum, Canosa, Lucera, Ascoli Satriano ed altre, tra cui anche Trevicum, della cui epigrafe stiamo in questa sede discorrendo. Nel Samnium si hanno attestazioni, tra gli altri centri, ad Isernia, a Bovianum Vetus, dove sono ancora visibili imponenti rovine, tra cui un santuario italico ed un teatro, e a Saepinum(24), che tuttora conserva interessanti edifici e l’assetto urbanistico della città antica. In Campania, oltre le località già menzionate, quel nome gentilizio è presente ad Abellinum, che sorgeva nel territorio della odierna Atripalda, a Capua, ad Ercolano, a Nola(25).
     Il “cognomen Rupilianus” del nostro personaggio non vanta altrettante documentazioni nei testi che riportano le antiche epigrafi, ma comunque le citazioni sono abbastanza numerose per poterne tentare una qualche possibile identificazione. Spesso i cognomi traevano la loro origine dal territorio o dalla località da cui proveniva la famiglia(26), o, viceversa, l’onomastico gentilizio del casato era utilizzato in funzione di toponimo fondiario(27). Sarebbe, pertanto, ovvio ritenere che la genesi della “gens Rupiliana” possa derivare dal nome di una località o di un paese, tuttavia non facilmente identificabile. Un Gaio Rupiliano forse apparteneva alla classe senatoria già nel IV secolo a. C.(28). Fronto Aemilianus Calpurnius Rupilianus era un legatus della Legio II Augusta in età severiana(29). Un omonimo Cornelius Aemilianus Calpurnius Rufilianus(sic!), “vir clarissimus ”, era parimenti un legato(30). Anche a Trevico una epigrafe di CIL, IX, 6279 ricorda un Agrio Rufiliano(31). Ad una Giunia Rupiliana ed al coniuge Giunio Rupilio è intestata l’ epigrafe di un monumento fatto erigere dagli eredi Quinto Rupilio e Pal(?) Rupiliano Argentario(32). Pare che si trattasse di una famiglia i cui componenti ebbero una vita ben longeva se la donna menzionata nell’epitaffio sarebbe vissuta ben centocinque anni ed il coniuge si sarebbe arrestato appena prima di varcare la soglia del secolo! Da notare il curioso intreccio dei “cognomina” Rupilio e Rupiliano che, forse, farebbe supporre una comune ascendenza(33).
     Il monumento funebre di Luccio Rupiliano, stando alla dedica, sarebbe stato fatto edificare dalla figlia del defunto di nome Ovia, senza ulteriore denominazione. Appare strano che la donna non sia designata con il gentilizio del padre, al femminile, come era nella consuetudine(34). Si può ipotizzare che Ovia possa derivare da quello di un “patronus”, che avrebbe affrancato la donna dallo stato servile, o da quello del marito. Quest’ultima congettura appare poco probabile, in quanto, generalmente, il patronimico della moglie era seguito dal nome del coniuge al genitivo, con l’ellisse di “uxor”, al duplice scopo di evidenziarne l’origine nobiliare ed esaltarne il matrimonio con un illustre personaggio(35). D’altra parte non si capirebbe come i due individui, legati da parentela così stretta, non abbiano condiviso la stessa sorte al servizio del medesimo “dominus”. Il fatto poi che nella epigrafe siano riportati solo il nomen ed il cognomen di Luccio Rupiliano farebbe tendenzialmente escludere che si possa trattare di un liberto, poiché questi, in epoca imperiale, recava tre nomi esattamente come un qualsiasi libero cittadino. Lo schiavo, all’atto dell’affrancamento, assumeva come praenomen e come nomen quelli dell’ex padrone, conservando come agnomen il nome che gli era attribuito prima(36). Da una analisi puntuale delle epigrafi riportate in CIL(37) il nome Ovius, di probabile derivazione dall’osco “Vviis”(38), appare numerose volte accompagnato dalla “l”, segno incontrovertibile che si trattava di individui affrancati, in quanto quella lettera stava per “libertus”. La ovvia conclusione, e non sembri un gioco di parole, sarebbe quella di attribuire alla donna, la cui pietas filiale la spinge a dedicare una epigrafe al defunto padre, lo status di liberta. Tale situazione giuridica andrebbe attribuita, per ragioni di logica conseguenza, anche al padre di lei, nonostante le riserve già evidenziate. Se tale ipotesi fosse nel giusto, troverebbe conferma anche la supposizione che la forma del coperchio del sarcofago sarebbe stato del tipo della “cupa”, ossia a baule(39). La “cupa”, altrimenti denominata “arca lucana”, della quale si hanno numerose attestazioni in Daunia(40), era quella preferita da una particolare classe sociale, formata da schiavi, liberti e militari. La massima diffusione di tale tipologia di sarcofago si ha nel II e nel III secolo d.C. Dal complesso dei riferimenti citati e dalle considerazioni fatte nel corso di questo modesto lavoro è possibile dedurre che la datazione della epigrafe, oggetto del nostro studio, possa essere compresa tra il II e il III secolo d. C. Quanto ai due personaggi in essa citati, oltre a quello che è emerso in ordine alle rispettive denominazioni, non è possibile congetturare chi essi fossero, da dove provenissero e quando sarebbero approdati nelle nostre contrade. Altri e più valenti studiosi potrebbero cimentarsi onde sciogliere l’arcano intorno a questi due misteriosi individui che, in un tempo remoto, andarono ad insediarsi, per necessità o per libera scelta, in quella contrada di Scampitella, lasciando traccia di sé nella vetusta epigrafe conservataci provvidamente dal canonico Andrea Calabrese, cui va tributato il nostro doveroso omaggio, con imperitura riconoscenza.
    

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1) Euplio Giannetta, Pagus, anno IV, n°1, giugno 2006, pag. 5. Nella stessa pagina sono riportati altri due toponimi in qualche modo collegati con quello, ossia “re Cchiàne (ri) lu Muline” e “li Piluni”, sorgente che quella alimentava il mulino di Lisi, menzionato in CIL, vol. IX, pag. 121, oggi non più esistente.
2) Corpus inscriptionum latinarum, IX, n° 1407, pag. 121, “Prope Trevicum contrada Scampitello (sic) ...Andreas Calabrese canonicus trevicensis misit Instituto a. 1875 acceptam ab amico”.
3) Che la località si trovasse “nel Torricello” lo si evince dalla nota premessa all’epigrafe successiva di CIL, IX, n°1408, scoperta nel medesimo mulino di Lisi.
4) Don Arturo Saponara, Vestigia di Roma in Vallata e nel suo territorio, Tip. Pergola, Avellino, 1957. Ora in www.Vallata.org
5) Vedi a questo proposito il mio articolo: “Sulle tracce della storia. Cippo funerario di età imperiale torna alla luce. Fortunosamente recuperato dopo oltre mezzo secolo di oblio”, ora in www.Vallata.org sez.articoli
6) CIL, IX, n° 1406, pag. 121, “columna formae lucanae”. L’epigrafe fu segnalata da Calabrese.
7) In nota al n° 1407 di CIL, pag. 121, si legge su segnalazione dello stesso Calabrese: “aut OVIA aut ‘QVIAIV’”. Evidentemente vi erano delle difficoltà di interpretazione, forse a causa di qualche erasione sulla superficie della lapide.
8) Giancarlo Susini, Epigrafia romana, Jouvence, Roma, 1997, pag. 220.
9) CIL, IX, n° 1408, pag. 121. L’epigrafe fu segnalata da Calabrese.
10) Rodolfo Lanciani, Pagan and Christian Rome, Ed, Houghton, Boston and New York, 1892, pag. 256.
11) Giancarlo Susini, op. cit., pag. 101.
12) Orazio Marucchi, Epigrafia Cristiana: trattato elementare, Ulrico Hoepli, Milano, 1910, pag. 2.
13) A mo’ d’esempio: Lucius (praenomen) Cornelius (nomen) Scipio (cognomen) “Africanus”( agnomen).
14) Giancarlo Susini, op. cit., pag. 101.
15) René Cagnat, Cours d’épigraphie latine, troisième édition, Paris, A. Fontemoing editeur, 1898, pag. 60.
16) Comune di Bacoli. “Il significato dei cognomi bacolesi” alla voce “Lucci”.
17) In CIL X, 1036 è riportata l’epigrafe “M(arco) Alleio Luccio Libellae patri edili / IIvir(o) praefecto quinq(uennali)” La sua tomba è riprodotta in una incisione in acquaforte in “Pompei la fortuna visiva, archivio di immagini e testi”, Porta Ercolana, via Dei Sepolcri. In “Pompeis difficile est: studies in the political life of imperial Pompei” di James L. Franklin, University of Michigan press, 2001, a pag. 45 si legge “A.D. 31-32 (Luccius) N. Erennius Celsus duovir”.
18) Giuliano Volpe, Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardo antica, Edipuglia, 1996, pag. 506. “La gens Luccia è ben attestata a Lucera da una serie di epigrafi databili tra il I e il III secolo (d. C. , n.d.r.)”.
19) “Roma victrix, Armamentarium romanum cassideae et galeae”. Un elmo in bronzo proveniente dal fiume Sava, nei pressi di Sisak, e conservato nel museo di Haguenau, presenta sul paranuca una scritta graffita con il nome del proprietario “Varro” della centuria “Lucci” (di Luccio).
20) Comune di Bacoli. Il significato dei cognomi ecc., cit.
21) A Lacedonia è documentato un M. Lucceius, CIL, IX, 6257. Segnalata dal solito canonico Calabrese, all’epoca rettore del locale seminario, la lapide, di grandi dimensioni e con “cifre” cubitali, riporta l’epigrafe seguente: “M . LVCCEIUS . C . F / IIIIVIR. AED . pot . PISCINAM(m) / PURGANDAM . ET . LORICAM / IMPONENDAM . DE . URBANORUM / OPEREIS . COERAVIT”. Calabrese spiegava, in una nota premessa al testo, che, ritrovata spezzata in quattro parti, la lapide giacque per diverso tempo davanti alla Chiesa di S. Maria, per poi essere acquistata da un facoltoso cittadino. Finalmente, essa fu “rinnovata” da un certo Palmese canonico. Secondo una nota in calce al testo, l’epigrafe è interessante in quanto conferma che i cittadini potevano essere adibiti in lavori di pubblico interesse agli ordini degli edili. A Corfinium una epigrafe è dedicata a C. Lucceio Vetedino morto alla tenera età di anni cinque e giorni diciotto. CIL IX, 6409.
22) Aemilius Hübner, Questiones onomatologicae, Bonn,1854, pag. 24.
23) Lucceius / Luccius in CIL IX, 1617; 1823; 1866. Lucceus in CIL IX, 2031. Luccaeus, CIL, IX, 2134.
24) CIL, vol. IX.
25) CIL vol. X.
26) Aemilius Hübner, op. cit., pag. 6 “Dei nomi in anus”. Lo studioso li crede derivati dai luoghi del Lazio e dei dintorni di Roma e appartenenti a stranieri trapiantati nella città, per cui sarebbero stati denominati con il nome del rispettivo paese, ad es. Albanus, Bovillanus, che poi sarebbe stato utilizzato come gentilizio di quelle famiglie.
27) G. Susini, op. cit., pag. 110. “Si pensi agli infiniti toponimi fondiari, per lo più in –anus, derivati da gentilizi e anche da cognomina di “domini” (e anche di fattori, vilici, actores, conductores, ecc.): così Agnano, Corneliano, Metegliano, ecc.”.
28) “Roma-Ravenna, Civil Servant”.
29) CIL VII, 98 “Inscriptiones Britanniae Latinae”.
30) Idem, ibidem: “Iovi . O .M. Dolicheno et / Iunoni. C. . Aemilianus / Calpurnius/ Rufilianus v.c. lEg/Augustorum / monitu..
31) CIL, IX, 6279, “Trevico in aedibus Cuoco, D.M / AGRIO . RV / FILIANO / LVSIA . QVI / TA . CON . B . M . P Andreas Calabrese canonicus Trevicensis misit a. 1876”.
32) G. B. Doni e A. F. Gorio, Inscriptiones antiquae nunc primum editae notisque illustratae, Florentiae, anno CI?I?CCXXXI, per Io. C. Tartinium, pag. 321. “Ivniae.Rvpilianae/ felicissimae/ vix.ann.CV/et .Ivnio.Rvpilio/Coniv.Cariss./ Vix. Ann. XCIX/ Q. Rvpilivs . Q. f. Pal/ Rvpilianvs. Ar/gentar. Her.Fec/ In. Fr. XII. In Ag. P. XX.
33) La “gens Rupilia” fu una delle più cospicue famiglie di Roma se annoverava, tra le alte magistrature, un consolato con Publio Rupilio, console nel 132 a. C., che si distinse per l’efferatezza con cui perseguì familiari e seguaci del defunto tribuno Tiberio Gracco, noto anche per la “lex Rupilia”, con la quale riorganizzò l’amministrazione della Sicilia, durante il suo proconsolato, l’anno successivo (Grande Dizionario Enciclopedico UTET, XVI, pag. 409). Un altro P. Rupilio Re di Preneste, in carica allora da pretore, fu proscritto dai triumviri e trovò rifugio presso il tirannicida Bruto (Appendix Lexici totius latinitatis, a cura di Forcellini – Furlanetto, de littera R, pag. 210 alla voce Rupilia). Orazio (Satira I,7,1) lo definisce sprezzantemente “pus atque venenum”, un bubbone velenoso (ivi).
34) “Il nome di una donna ingenua era costituito dal gentilizio paterno al femminile…” Dott.ssa Sara Faccini, Università degli Studi di Ferrara, Insegnamento: Fonti antiche. Modulo: Epigrafia latina. a.a. 2011-2012.
35) René Cagnat, op. cit., pag.64.
36) Idem, ibidem, pag. 79 e seg.
37) CIL, VI, Inscriptiones urbis Romae latinae, parte VI ,“Indices nominum”, riporta L. Ovius L.l. Anteros (ossia Lucio Ovio Anteros liberto di Lucio Ovio) e L. Ovius L.l. Apollonius (Lucio Ovio Apollonio liberto di Lucio Ovio). Delle scritte relative a “Ovia”, sette sembrano essere riferite a donne “ingenuae”, mentre una riguarda una liberta che ha ottenuto l’affrancamento da parte di una donna, come dimostra la sigla “?” [ G(aiae) l(ibertus) o l(iberta)]. In CIL, IX, Inscriptiones Calabriae, Apuliae, Samnii, Sabinorum, Piceni latinae, degli “Ovius” riportati ben cinque su otto sono liberti, di cui uno affrancato da una donna, segnalato dalla sigla “?”. Quanto alle “Ovia”, una epigrafe di Aesernia (CIL IX, 2658) riporta “Oviae C. lib(ertae) Vitali, mentre a Venusia (CIL IX, 548) si ha l’attestazione di una Ovia Pyrallis. A Roccasicura (CIL IX, 2788), presso Bovianum Vetus, ad Ovia Marcia, vissuta appena sei anni e tre giorni, posero un monumento funebre gli infelicissimi genitori Ovius Cerialis e Lusia Ianuaria.Nel volume X di CIL Inscriptiones Bruttiorum Lucaniae, Campaniae, Siciliae, Sardiniae Latinae, su tredici Ovii menzionati ben sei vi figurano come liberti. Stranamente non compare nessuna Ovia.
38) Di un mitico Ovio Paccio parla Tito Livio (Ab Urbe Condita, X,38) ma la sua storicità è messa in dubbio da E. T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Einaudi, 1995, pag. 198. Su un ciottolo rinvenuto nella zona di Histonium, nell’area Frentana, ora al museo di Chieti, si legge: “lvvkis vvis”, ossia Lucius Ovius. (Dal sito www.sanniti.info).
39) Giulia Baratta, Alcune osservazioni sulla genesi e la diffusione delle “cupae”, in Atti del Convegno di studio di Rabat, 2004.
40) Giuliano Volpe, La Daunia della romanizzazione. Paesaggio agrario, produzione, scambi. Edipuglia, 1990.

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