- Racconti - A cura del Prof Severino Ragazzo

Racconti
Terza Parte

A cura del Prof Severino Ragazzo.
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Teste: Ragazzo Severino con rielaborazione di “Zi’ Mimì” Paglia e pubblicazione nel libro “lampami tre”.

Don Francesco e le ciliegie

    Oltre all'ufficio sacerdotale, don Francesco dedicava parte del suo tempo libero a vigilare la sua proprietà e all'insegnamento della religione nella scuola media di Vallata. E qui, in periodo di scrutini ed esami, che capitavano per la metà di giugno, gli alunni portavano a turno, un panierino di ciliegie per farle assaggiare ai professori.
    Don Francesco, dopo averne assaporato alcune, concludeva immancabilmente col giudizio:
    "....Ma re ceràsa mèje so' ‘n’ òta cosa!"(Ma le mie ciliegie sono un'altra cosa!)
    I professori, indispettiti per tanta presunzione dell'assaggiatore, decisero di combinargli un tiro mancino.
    A prima sera andarono a cogliere un paniere di ciliegie dal miglior albero del suo frutteto, in contrada “La Cerza re Netta” affidandolo alla complicità di un alunno per portarlo a scuola.
    Don Francesco, da intenditore, dovette ammettere che quelle ciliegie avevano la bontà delle sue.
    Nella sua mente però si fece strada un dubbio che senz'altro meritava di essere dissolto. Così, la mattina seguente, dopo la messa mattutina, smise l'abito talare e s'incamminò alla volta del suo frutteto, ove ebbe la conferma al suo sospetto.
    Tenne per sé questa scoperta che però pure doveva venire alla luce e l'occasione l'ebbe quando, in processione con il parroco rientrava in chiesa dopo il giro solito del paese, in onore di San Vito martire.
    Qui trovò, di primo impatto, il motivo di scaricare il suo veleno contro il professore Nufrio Vitantonio, maggiore indiziato.
    Incrociatolo, sebbene avesse già iniziato la litania del Santo: “....E per tutti i tuoi martiri” s'interruppe per apostrofargli: "Totonn' Saccò: sapèvene bòne re ceràsa mèje?" (Totonn' Saccon' -è il soprannome- erano buone le mie ciliegie?)
    Il parroco vicino a lui, di botto fermò il passo, indirizzandogli un'occhiataccia. Don Francesco, ripresosi in fretta, terminò la litania: "Prèha a Dio, pi’ nùje pietà!"

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Teste: Ragazzo Severino con rielaborazione di “Zi’ Mimì” Paglia e pubblicazione nel libro “lampami tre”

“ru lòtt’” (il latte)

    Intorno agli anni '60 la vendita del latte avveniva per iniziativa privata, nei paesi della Baronia, da parte di chi possedeva mucche e capre.
    Il venditore partiva dalla masseria, di prima mattina, dopo la mungitura e, reggendo il contenitore del latte con una mano e con l'altra i vari misurini, si recava nelle case del paese ove aveva abituale appuntamento.
    E fu con questo equipaggiamento che Eugenio Ragazzo, soprannominato “lu Mancín”', piccolo allevatore di bovini, s'incrociò con don Francesco, in via XX Settembre a Vallata.
    Questi, in maniera confidenziale e sempre in buona vena di scherzare, in risposta al buon giorno:
    "Eugè quant'acqua mitt' rind' a ‘su lòtt'?" (Eugenio, quanta acqua metti in questo latte?)
    Non si fece attendere la contro risposta:
    "Don Francì e tu cu’ ‘su piss' piss' a quanta gent' fàje fess'?" (Don Francesco, e tu con il tuo "piss piss" quanta gente prendi in giro?)

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Testi : R. Gallicchio e S. Ragazzo

Lu ciùccio, lu padròn’ e la pilèja re re frasche ca ‘nduppòvene” (L’asino, il padrone e i rami che davano fastidio )

    Fino agli anni 60’ del secolo scorso, in mancanza dei mezzi meccanici di oggi, gli animali da soma: asini, muli, cavalli e buoi erano vitali per le più diverse attività del contadino (trasporto, aratura, traino…), tanto che la povertà di allora si esprimeva pure in chi non aveva nemmeno un asino di sua proprietà come oggi per chi non può permettersi di avere una automobile.
    Gli animali sopra elencati venivano dal padrone addomesticati (una vera e propria scuola ) per eseguire ordini particolari.
    Pensiamo al bue o all’asino o al mulo o al cavallo che nella coppia “lu parìcch'” doveva mantenere la linea del solco dell’aratura, o i medesimi che nella pesatura sull’ aia dovevano girare in tondo o in tondo far girare la macina del frantoio o del mulino o mantenere il centro della strada lungo il camminamento o come il cavallo “ri Seppitill” che dalla stalla posta vicino alla Croce all’inizio di via Rivellino, da solo doveva attraversare tutta la Piazza, andare a bere alla Fontana e fare ritorno.
    Quando gli animali non rispondevano più ai comandi, il padrone arrivava a pensare le cose più strane fino ad immaginare associazioni intellettive da parte delle bestie senza capire che essi sono degli esseri inferiori.
    E fu il caso del mulo chiamato “Ciccìllo” che nella carovana, seppure ultimo, aveva l’abilità di sorpassare tutti gli altri e poi una volta messosi davanti, rallentava sensibilmente la corsa delle altre bestie .
    Non vi dico “li murt’ e li stramurt”, “re parocculòte “ e “re ‘ncinàte” che subiva per costringerlo a muoversi più velocemente.
    O fu il caso della festa dei lavoratori, il 1° maggio del 1976, quando la camera del lavoro di Vallata organizzò, tra le tante attrazioni, la corsa degli asini.
    Uno di questi asini fece cadere il conducente e questi per ricompensa gli menò una bella vergata così esclamando :“Pure òscje ca è festa, me fàje fà ‘na brutta fiùra “.
    Così successe che durante il ventennio (1923-1943) alcuni vallatesi dovevano andare a Guardia dei Lombardi per macinare i cereali, dato che nel paese non funzionava bene il servizio di “mulinatura “( eppure storicamente Vallata portava il vanto di numerosi mulini – vedi catasto onciario e napoleonico ).
    A squadre di quattro o cinque persone con i carichi sui rispettivi animali (asini o muli ) partivano la sera per far ritorno alla mattina.
    Volle che un asino se ne andava sempre lungo il ciglio della strada (“supòla supòla “) e il conducente a cavallo era spesso esposto ai colpi dei rami (“re frasche”) degli alberi che si estendevano sulla strada medesima.
    Al ritorno dal macinare il padrone dell’animale non ce la fece più a sopportare la cosa e pensando, per paradosso, che la bestia lo facesse a posta onde costringerlo a scendere e alleggerirsi il peso, prese una verga (“nu palo”) robusta che rabbiosamente aveva divelta, “scjuppòta” da una vigna là in vicinanza e gli assestò un colpo talmente forte che il povero asino tramortì a terra e in quel momento così esclamò: “ a sinzi tu me fùtte, ma a forza no !” (a intelligenza tu mi superi ma a forza no ).
    E così scrissero: “lu ciùccio lu ‘nchjanàva lu ciràse e li cane s’abbuttòvene re la risa” ! (l’asino saliva sul ciliegio e i cani si saziavano di risate )

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Teste: Antonio Vito Saporito

lu criatùre e l'acqua ri lu pìscilo ri mìzz'” (il ragazzino e l'acqua del cannolo di mezzo)

    Nella società contadina fino agli anni sessanta del secolo scorso le stagioni e i mesi erano segnati da lavorazioni ben determinate.
    Alla fine di giugno, nei luoghi a valle del paese, si cominciava a mietere e i mietitori si prodigavano a che il tutto fosse svolto con regolarità e quasi con sacralità (ancora non erano arrivate le mietitrebbie che poi alleggeriranno di molto la fatica del contadino).
    Così successe che una mattina, un anziano mietitore, vedendo un ragazzino (“lu criatùre”) che giocava a perditempo, pensò bene di occuparlo comandandolo ad andare a riempire, alla fontana là vicino, l'acqua “cu lu cècine” (recipiente particolare ).
    La fontana era costituita di tre “pìscile(cannoli) , lu pìscelo ri mìzze e 'n' òte dùje, uno a 'nu l'òto e 'n'àto a l'òtu l'òto” (il cannolo di mezzo e altri due uno da un lato e l'altro dall'altro).
    Il ragazzino fece il compito che gli era stato assegnato, andò alla fonte, riempì il recipiente e ritornò dal mietitore.
    Costui, prima di bere, chiese al minore se l'avesse riempito al cannolo di mezzo ma avendo avuto risposta negativa, gettò l'acqua a terra e con tono severo gli ordinò di nuovo di andarla a riempire solo a quello specifico.
    Il ragazzino tornò alla fontana e mentre camminava, piangendo, incontrò un anziano che gli chiese il perché del suo lamento ed avuta spiegazione del motivo, il vecchio così lo consigliò: “senti ragazzino, fai come ti dico io, riempi l'acqua allo stesso modo, solo che lascia “ lu cècine” un po vuoto e poi lo finisci di riempire con la tua pipì”.
    E così fece il ragazzo, tornò dal mietitore e gli offrì l'acqua raccolta.
    Il mietitore bevendo con avidità, questa volta, tutto soddisfatto così esclamò:“bravo ragazzino, questa è proprio l'acqua del cannolo di mezzo: buona, fresca ed anche un po frizzantina!”
    A questo punto il minore scoppiò in una bella risata e tra sé e sé disse:“èja pròpie vère ca nun se pòte èsse' currette cu' nisciuno” (E' proprio vero che non si può essere corretto con nessuno).

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Teste: Antonio Vito Saporito

stàje sempe 'nu mòtt' c'accìre a 'n' òtu mòtt'” (un matto che uccide un altro matto)

    Molti sono i proverbi relativi alla persona che presenta un handicap mentale come ad esempio: “cu' lu mòtt' àja fà lu pòtt'” (con il matto devi fare il patto), “lu mòtt' t'accìr'”(il matto ti uccide) ecc...
    I vallatesi poi sono stati blasonati con l'epiteto di “matti” anche se diceva Franco Basaglia, il propugnatore della chiusura dei manicomi in Italia, a mo di ragionamento filosofico, che in ogni persona c'è un po di “mattùma”(demenza o irrazionalità), certo in chi di più e in chi di meno, ad ogni latitudine ed ad ogni altitudine.
    D'altronde anche i nuscani vengono definiti matti, non di meno sono confortevoli gli epiteti nella Baronia di Vico :“cicàti” di Carife, “secacòrne”di Castel Baronia, “peparulòri” di San Nicola, “mangia patàne” di Trevico e Vallesaccarda ecc...
    Avvenne così che un giorno un matto fece la pipì nella tasca di un ragazzino il quale piangendo chiedeva al padre protezione e vendetta.
    Il genitore tranquillizzò il figlioletto e gli consigliò di lasciar perdere come se non fosse successo niente anzi gli mise in mano cinque lire (una bella somma negli anni cinquanta del secolo scorso) e gli ordinò di portarle al matto così da ringraziarlo.
    Dopo un po di tempo sempre lo stesso matto urinò questa volta nella tasca di un altro matto, ma quest'ultimo l'offesa non se la tenne, prese “'nu 'ncìne”(un bastone nodoso) e tanto lo riempì “ri 'ncinàte”(di bastonate) che lo lasciò tramortito a terra.
    Il ragazzo, che aveva assistito alla scena, corse subito dal padre a raccontare l'accaduto.
    Il padre, in risposta al figlio, così esclamò: “àje vìste, fìglju mìje, stàje sempe 'nu mòtt' c'accìr' a ' 'n'òtu mòtt'!”( hai visto, figlio mio, c'è sempre un matto che uccide un altro matto).

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Teste: Gallo Emilio (nato a Vallata in via Annunziata nel 1948, è emigrato negli Stati uniti nel 1966, vive ad Elizabeht dove trascorre la terza età. E' così affezionato al paese natale tanto da aver comprato una casa e da trascorrere ogni anno quasi tutta la stagione estiva. E' affabile con tutti e sembra di non aver mai lasciato il paese osservando come è ben inserito in esso. Lascia meravigliato l'ascoltatore per le sue capacità espressive e recitative, che sono il frutto anche di una memoria ferrea che gli permette di ricordare poesie imparate fin dalla scuola elementare. Suoi sono i tre racconti che riportiamo qui di seguito).

San Pietro, Gesù e la persona che osserva l'albero di fichi maturi

    San Pietro vede una persona che osserva i fichi maturi sull'albero e non stende la mano per coglierli e si meraviglia perché costui non soddisfa il desiderio che è invece un peccato di gola di tutte le persone.
    Poi l'apostolo prediletto di Gesù vede una donna prominente e gli gira la per la un cattivo pensiero per la mente.
    Si confida con Gesù e questi così gli risponde: “vedi Pietro, quella bella donna è riservata in sposa proprio alla persona che non desidera raccogliere i fichi.”
    Al che San Pietro, riflettendo tra sé e sé pensa: “ma còme, lu Patatèrno r'àje ru pòne a chi nun tène rìnt'”!(ma come, il Padreterno da il pane a chi non ha denti! ).

zi prèvete e lu pastore” (zio prete e il pastore)

    Il parroco del paese pretende che un pastore, almeno a Pasqua, vada a confessarsi in chiesa (fino a qualche decennio fa i genitori inculcavano ai figli a frequentare le funzioni religiose specie alla domenica e nelle feste comandate).
    Il pastore, in risposta, fa capire che non intende farlo perché ritiene di non avere nessun peccato da dichiarare.
    Comunque il prete tanto insiste che convince il pastore a confessarsi facendogli credere di avere il potere di scomodare dal cielo perfino un angelo.
    Lo stesso fa distendere a terra il pastore, poi solleva con una corda il sacrestano vestito da angelo, lo fa discendere e così il sacrestano confessa il pastore.
    In confessione il pastore racconta che se due peccati proprio ha commesso questi sono uno di tenersi la moglie del sacrestano e l'altro di tenersi la madre del prete.
    Il giorno dopo il parroco chiede al sacrestano il resoconto della confessione del pastore e il sacrestano: “zi' prè', ru vulìte pròpie sapè'? Quìre àve rìtte ca ìjo so' 'nu curnùte e tu si 'nu fìglje re puttòne!”(zio prete lo volete proprio sapere? Quello ha detto che io sono un cornuto e tu sei un figlio di puttana!”)

la madre superiora e l'analisi delle urine

    La madre superiora del convento chiede alla domestica di portare ad analizzare le proprie urine.
    Se non che i risultati delle urine vengono scambiati ed il medico accerta che la superiora è in cinta.
    Questa tutta meravigliata così' sbotta: “vuoi vedere che il continuo contatto con le candele mi ha fatto effetto?”

Ron Pèppe e Z' Aùst'” (Giuseppe Tanga e Augusto Cataldo)

    Due amanti dalla battuta facile e sferzante e a volte anche irriguardosa verso la persona che sta loro di fronte.
    Un giorno z'Aùst' (un maestro che gli alunni ricordano essere un personaggio particolare fino agli anni 60') per stuzzicare e sfottere a don Pèppe così lo apostrofa:”vìre, ron Pè', ca tìne la vrachetta spuntòta e l'uccellino si n'è vulòte!”(vedi, don Pèppe, che tieni la chiusura dei pantaloni aperta e l'uccellino se ne è volato!)
    Di rimando ron Pèppe, con la sua verve e capacità di improvvisare: “càro z'Aust', a mè si n'è vulòte ma a tè àve ra tant' tìmpe ca è mùrt' e non vòla chiù!”(caro zio Augusto, a me se ne è volato, ma a te è da tanto tempo che è morto e non vola più).

ron Pèppe” e le sue vicissitudini

    “Ron Pèppe” negli anni 40' e 50' del secolo scorso era un personaggio a Vallata che aveva particolari vedute diverse anche dal fratello Rocco come durante una campagna elettorale nella quale egli, essendo di sinistra, ospita il candidato Giorgio Amendola al piano di sotto della propria abitazione e il fratello democristiano l'onorevole Fiorentino Sullo al piano di sopra o come sempre in una elezione interrompe in piazza il comizio di un candidato gridando ad alta voce che “le sue parole sono tutte bugie” e per questa interruzione viene prelevato dagli agenti di pubblica sicurezza, portato in caserma e trattenuto per un bel po per essere interrogato.
    Ron Pèppe non rinuncia nemmeno a fare commenti o apprezzamenti su chi che sia come quando in una bella giornata di sole si affaccia al balcone la cognata con la gonna svolazzante ed egli avendo intravisto qualcosa nella sottoveste così esclama :“a la faccia ri chi saffaccia”!

Z'Abbèle Stirracchio” (Zio Abele Stridacchio).

    E' un personaggio a Vallata degli anni 50' e 60'.
    Ama lo sfottò e riesce di volta in volta a mettere alla berlina le persone che incontra.
    Fa parte di una tradizione familiare di artigiani che trattano con le armi, costruiscono utensili i più vari in ferro, in rame, in stagno, in legno come chiavi, trottole, cannoncini per polvere da sparo ecc..(dovevano possedere dei tornii rudimentali con i quali facevano lavori di fino).
    Lo scrivente ricorda come a volte, furtivamente, all'insaputa del genitore, sottraeva la chiave della porta e la portava a “Z'Abbele” per farsi dare in cambio o “nu ruzzidd” (una trottola) o “nu cannùle” .
    Si narra che un suo antenato al tempo del brigantaggio coniò delle monete false (“li rucòte”) per favorire il riscatto di un sequestrato di Vallata e che erano così perfettamente identiche che i briganti se ne accorsero solo quando queste incominciarono ad arrugginire.

La compravendita della cenere

    Per ridicolizzare un poco gli ingenui carifani (ricordiamo che fino a quel periodo c'era una forte rivalità tra paese e paese) “Z'Abbele” decide di andare a Carife e fa spargere la voce che egli si fa compratore della cenere per una ignota azienda industriale che ne farebbe uso.
    Così contratta con singoli cittadini carifani, nel giorno prestabilito, l'acquisto di sacchetti di cenere che però deve essere pura e prodotta dalla combustione di un solo tipo di legna, per esempio o tutta di quercia o tutta di castagno senza alcuna promiscuità.
    Prima di acquistare, mette sul palmo della mano un po' di cenere estratta dal sacchetto e con una cannuccia fa finta di annusare e poi soffiando fa volare la cenere in faccia al venditore quasi da accecarlo.
    Nella prima giornata, acquistandone alcuni sacchetti ed altri scartandoli, riesce a convincere diverse persone della bontà dell'iniziativa.
    Ma nel secondo giorno della settimana successiva, avendo i carifani riflettuto della beffa messa in atto, ed avendo intenzione di dargli una bella lezione, il nostro Z'Abbele si guarda bene dal presentarsi, immaginando la reazione da parte delle persone derise e umiliate.

Il bandista e la vendita del flauto o prima cornetta.

    Fino agli anni 60', anche a Vallata, la banda era l'unico mezzo per presentare i pezzi musicali al pubblico e una festa non era tale se non avesse la sua presenza.
    La banda allietava di giorno il paese, spostandosi per ogni dove, andando pure nelle frazioni per raccogliere le offerte per il santo festeggiato, si esibiva durante la processione con pezzi religiosi appropriati e di sera su un palcoscenico caratteristico a forma rotonda con cupola in alto intratteneva la gente eseguendo i classici della musica operistica (Verdi, Rossini....)-Ricordiamo che fino agli anni 50' anche Vallata aveva una sua banda che traeva le sue origini negli anni 20'.
    Accadde che un anno, Z'Abbele, volle fare un tiro mancino ad un musicista.
    Si avvicinò ad costui e fece capire che a casa sua possedeva uno strumento, una cornetta nuova di zecca e che intendeva disfarsene dietro un modesto compenso.
    Il bandista andò alla sua abitazione, entrò e quando chiese di vedere lo strumento, Z'Abbele serio serio gli disse, con la mano rivolta verso il basso e all'altezza della congiunzione delle gambe:“embè! E mò famme verè se sàje sunò pur' a quisto!”
    Non vi dico “li murt' e li stramurt'” del suonatore, avendo capito la trappola in cui era caduto.

Il guaritore dell'ernia a Carife

    Z'Abbele, che a Carife era quasi di casa, un giorno pensò di fare un altro scherzo ai carifani, mettendo in giro la voce che egli era procuratore di un medico guaritore di ernie.
    A quei tempi, non essendoci strutture sanitarie appropriate, molti ricorrevano a specie di “maghi” pur di risolvere o alleggerire la malattia (a Vallata è storica l'opera di Rocco Cirillo alias “zompa cardillo” nell'arte musicale, che effettua la cosiddetta passata delle persone, in una quercia giovane tagliata verticalmente a metà, il giorno dell'ultimo sabato di aprile festa dell'Incoronata).
    E così Z'Abbele fissò l'appuntamento con circa 20 persone, la domenica, dinanzi alla chiesa madre di Carife subito dopo la messa cantata.
    Gli interessati si fecero trovare tutti e Z'abbele accompagnato da un amico finto guaritore così' esclamò alla presenza di tutti quelli che uscivano dalla chiesa:“popolo di Carife, vedete, se non sapevate quanti vostri paesani tengono l'ernia, eccoli qua, ve li presento tutti quanti!”

L'acquisto degli occhiali e lo scopo nascosto

    Z'Abbele, pur non avendo una cultura scolastica elevata, si dava anche aria di intellettuale e comprava il giornale per dimostrare che anch'egli era un valido lettore.
    Ma un giorno pensò di comprare un paio di occhiali (allora non c'erano negozi di ottica ma venivano nel paese degli ambulanti che li vendevano tenendoli in apposite valigette).
    La mattina Z'Abbele inforcava gli occhiali e faceva finta di leggere il quotidiano.
    Ad un osservatore attento che l'aveva scoperto con il giornale capovolto, Z'Abbele così rispose:“Ebbè! E che me r'àggia accattàt' a fà l'acchijàle si nun pozze legge' pur' a la smersa?”( Ebbene! E che me le sono comprate a fare gli occhiali se non posso leggere anche al contrario?)

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Testi: Rosario Gallicchio e Severino Ragazzo

Patetta Francesco
    Un personaggio semplice, con la battuta di spirito pronta ad ogni occasione, fino agli anni 60' del secolo scorso ricavava da vivere riuscendo a svolgere qualsiasi attività che gli capitava andando alla giornata (da manovale, bracciante, spaccalegna ecc...).

Dialogo con la moglie

    Per un periodo, essendo disoccupato e avendo difficoltà a trovare un lavoro, confidò alla moglie (nascondendo l'intenzione provocatoria) la volontà di emigrare a Roma nella capitale pensando così di trovare lì una occupazione.
    Ma anticipò alla moglie che se anche là non avesse trovato niente da fare, l'ultima soluzione sarebbe stata quella di gettarsi sotto il primo treno che passava.
    Al che la moglie, seria seria, rispose al marito :“Francè', quera ca rìci tu, nun è furtuna mìja!”( Francesco, quello che dici tu non è fortuna mia!).
    Il marito,ascoltata la risposta, prese una cinta e la voleva fare “lèvra lèvra (nera nera di botte) esclamando: “a l'ànema re chi te murt' e tu quèra scisse truvònne, ca ìjo me luvòsse ra 'nànze a tè?”(per l'anima dei morti e tu quello andresti trovando che io mi tolga davanti a te ?)

Gesù è uno o centouno?

    Si era soliti durante l'anno, da parte dei cittadini di Vallata devoti dei santi, della Madonna, partire in pellegrinaggio e andare a visitare il santuario prescelto: la Madonna dell'Incoronata di Foggia l'ultimo sabato di aprile, la Madonna della Mattinella ad Andretta l'ultimo sabato di maggio, San Michele Arcangelo, Santa Felicita, San Gerardo Maiella a Capossele, Mamma schiavona a Montevergine, in alcuni casi a piedi ed in altri in traino e poi su mezzi meccanici come camion adattati all'occasione come se fossero pulman.
    Fu così che anche Francesco Patetta in comitiva si recò a fare visita alla Madonna dell'Incoronata.
    Ancora oggi, intorno al santuario ci sono bancarelle che vendono leccornie, souvenir ecc...
    All'interno del santuario c'era uno spaccio che era gestito direttamente dalle suore e il nostro Francesco incominciò a sbirciare gli oggetti in vendita, alla fine fissò l'occhio su una serie di Crocifissi in legno stilizzati di grandezza che variavano fra di loro dal più grande al più piccolo.
    Francesco restò meravigliato e facendo l'ingenuo così domandò:“zi monacè', ma còme, lu Signòre nùstr' Gesù Cristo èja ùnu o cinteùno, ràte ca vùje lu vinnìte ri tanta manère?
    Ma la monaca di rimando :“caro devoto, ma come non sapete che la legge di Dio è una cosa e la legge economica degli uomini è un'altra?”

una vicenda autobiografica

    Negli anni 60' lo scrivente ebbe modo di conoscere Francesco il quale venne a giornata a mietere una partita di foraggio, un tipo di fieno chiamato “la lupinella” di cui andavano ghiotti gli animali specie le mucche.
    Era l'inizio di giugno quando il medesimo, studente all'Università di Napoli, lasciava la preparazione degli esami per alcuni giorni e veniva ad aiutare il genitore per la raccolta del “combustibile” per gli animali che doveva servire per tutto l'anno.
    E fu così che il primo giorno, il genitore Eugenio, lo scrivente e Francesco Patetta in fila indiana “cu' 'nu faliciòne” sempre affilato iniziarono a mietere il campo.
    A metà giornata, dopo la merenda “ri lu mizzijùrn'” l'aiutante Francesco chiamò in disparte lo scrivente e così lo consigliò:“ sìnt' sturuntìll', tu se fàje cum'a pàtete, nun arrìv'a la fìne re la jurnòta; fàje cum'a mè, lu faliciòne tìnile a cùrte e mìte 'nànze 'na fàscija chiù strètta”(senti studentello, tu se imiti tuo padre, non arrivi alla fine della giornata; fai come me, il falcione portalo a corto e mieti davanti una fascia più stretta).
    Il suo consiglio si dimostrò utile perché l'interessato riuscì a portare a termine il lavoro anche nei giorni successivi e aver così ricambiato il genitore che lo sosteneva negli studi.
“mast' e Franch'” (mastro Francesco)


“e che va port' co' ciùccio?”( e che ve la porto con l'asino?)

    Un simpatico imprenditore edile, venuto da Solofra coniugato con una vallatese, fu anche rappresentante di una certa politica, candidandosi perfino al parlamento.
    E fu così che in una campagna elettorale, negli anni 70', andando a chiedere il voto ai cittadini vallatesi, pensando di utilizzare il voto di scambio, domandava di che avessero bisogno per le loro necessità e in una frazione gli fecero osservare che il loro problema principale era l'acqua (l'acquedotto fu inaugurato il 12/11/1955 ma solo dal 1960 la rete fu estesa al centro urbano).
    Il candidato, acccertatosi che in vicinanza mancava la condotta idrica e che per collegarsi occorrevano diversi chilometri di tubazioni, rispose candidamente:“e che pìnzate ca l'acqua và port' co ciùccio ? ( e che pensate che l'acqua ve la porto con l'asino?).

“scummigliàt'e case, c'accussì avìte chiù luce”(scoprite le case perché così avrete più luce)

    Sempre in occasione di elezioni, “mast' e Franch'” aveva l'abitudine di chiedere agli elettori della campagna di che necessitavano.
    E in una frazione posero il problema della mancanza della corrente elettrica (a Vallata i primi impianti furono realizzati intorno agli anni 1934/1935 e fino agli anni 70' ci sono state frazioni ancora sfornite di questo servizio).
    “Mast' e Frach'”, pensando che i contadini fossero talmente ingenui così rispose:“nun c'è prublema, scummigliàt' 'e case, 'o sòle trase meglije 'a rinde e accussì avìte chiù luce”(non c'è problema, scoprite le case , così il sole entra meglio di dendro e così avrete più luce).

“a stu paèse l'àlbere cumpàjene ra 'nu jùrn'a 'n'àte”(in questo paese gli alberi compaiono da un giorno all'altro)

    Un giorno “mast' e Franch'” fece un incidente con l'automobile, forse per aver alzato un po il gomito e andò a sbattere su un albero che fiancheggiava la strada.
    Ripresosi dall'impatto violento della botta, così esclamò con accento solofrano:“ma còme, jère matina st'àlbere nun c'era! ma a 'stu pajèse l'àlbere cumpàjene ra 'nu jùrn' a 'n'ate?”(ma come, ieri mattina quest'albero non cera! Ma in questo paese gli alberi compaiono da un giorno all'altro?)

“ìjo o sàccio ma nun t' o 'ddìco”( io lo so ma non te lo dico)

    Era il periodo del post-terremoto del 62'.
    Vallata ebbe molti finanziamenti per la ricostruzione pur non essendoci stato alcun morto e “mast' e Franch'” prese in appalto un'abitazione di campagna.
    La padrona contadina che aveva beni di animali, di frutta e di verdure in quantità, era un po “canèrcia”, avara e mai che durante tutto il periodo della ricostruzione avesse offerto agli operali una qualche cosa da poter così dimostrare un po di gentilezza e generosità.
    Fu così che un giorno, mentre la padrona era assente, i dipendenti di “mast' e Franch' catturarono una pollastra, la uccisero, la spennarono, la fecero allo spiedo e se la mangiarono facendo poi scomparire qualsiasi traccia.
    Quando alla sera la padrona tornò, si mise a contare tutte le galline, accortasi che ne mancava una, chiese al mastro se per caso ne sapesse qualcosa.
    “Mast' e Franch'” candidamente rispose:“padrò(na): ijo o sàccio ma nun t'o 'ddìco”.(padrona: io lo so ma non te lo dico).

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Teste: Severino Ragazzo

“e a terra carìve cum'a 'nu pìre” (e a terra cadde come una pera)
una “lectio” magistrale del prof. Vito Antonio Nufrio sulla Divina Commedia


    Lo scrivente nell'anno 1963 si preparava per sostenere l'esame di stato presso il liceo-ginnasio “Pier Paolo Parzanese” di Ariano Irpino, da privatista, avendo svolto il ginnasio superiore in un istituto religioso non parificato ed avendo bisogno di un tutor privato, scelse di farsi sostenere dal compianto professore Nufrio che già da allora lo riteneva il suo migliore “maestro”.
    E fu durante le lezioni che il professore impartiva anche a studenti del liceo che lo scrivente assistette ad una “lectio” magistrale sulla Divina Commedia relativa alla perdita da parte di Dante Alighieri della visione di Beatrice, per un altro studente della scuola statale che aveva bisogno di un recupero di italiano per la parte relativa alla letteratura.
    Il professore spiegò, in tutti i modi possibili, l'evento ma lo studente sembrava avere difficoltà nella comprensione del testo.
    Al che “Totonno” non ce la fece più e dovendo in tutti i modi soddisfare il compito difficile di far capire scientificamente l'argomento per una gratificazione sua personale di docente e quella del discente, senza più preamboli ricorse ad una analogia presa in prestito dalla biologia, utilizzando il vernacolo vallatese e dicendo la frase:“e a terra carìve cum'a 'nu pìre” (e a terra cadde come una pera).
    Lo scrivente pur se assisteva alla lezione impartita ad un altro studente, ebbe modo successivamente di riflettere sulla profondità del paragone nell'aver associato la perdita della visione di Beatrice da parte del sommo poeta a quella di chi assiste alla caduta subitanea, improvvisa e anche con l'effetto deflagrante di una pera a terra quando questa è ultra matura.
    Sia questo racconto dello scrivente un modo semplice per ricordare il caro Antonio, che aldilà del giudizio controverso sull'impegno nella vita civile a Vallata, resta sempre il dotto, il migliore nel campo dell'insegnamento delle lettere, della storia e della filosofia che il nostro paese abbia avuto negli ultimi cinquanta anni.

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