- Racconti - A cura del Prof Severino Ragazzo

Racconti
Quinta Parte

A cura del Prof Severino Ragazzo.
__________________________________________

(teste: Rocco Palmisano)
don Peppe e Z'Aùst' in un dialogo nella barberia.

    Don Peppe(Giuseppe Tanga) e Z'Aùst'(Augusto Cataldo) erano due personaggi che a volte "se sfruculijàvene"(si sfottevano) amichevolmente, essendo ambedue dalla battuta facile.
    Un giorno presso la barberia di Bartolomeo Palmisano sulla quale ancora oggi è rimasta la scritta 'salone', in via Porta del Piano, don Peppe in vena di scherzare disse a Z'Aùst': "Z' Aù', se me ràje 'na còsa re sòld' te ràch' a sènte la terza parte re lu discorso ca te fàzz' a lu funerale tùje!" ( zio Augusto, se mi dai una cosa di soldi ti faccio ascoltare la terza parte del discorso che farò al tuo funerale ).
    Z'Aùst', la per la, abbozzò e non rispose.
    Senonché a morire per primo fu don Peppe e nella stessa barberia di Bartolomeo un giorno Z'Aùst' così si confidò: "àje vist', varivìre, quire ron Peppe lu vuleva fà a me lu discors' e vuleva pùre èsse' pahàto, ìje, invece, ce l'àggje fatto prima e pùre gratis!" (hai visto, barbiere, quello don Peppe voleva fare a me il discorso e voleva pure essere pagato, io, invece, ce lo fatto prima e pure gratis).

don Peppe e la sua andata alla trasmissione "lascia o raddoppia"

    don Peppe seguiva l'evolversi del sistema delle comunicazioni in Italia; negli anni cinquanta del secolo scorso comparve la televisione che pian piano andrà a soppiantare la radio.
    A Vallata i primi televisori li possedevano pochissime persone.
    Una trasmissione che ben presto ebbe successo fu quella di "lascia o raddoppia" presentata dal famoso Mike Buongiorno nell' unico contenitore di 'mamma RAI'.
    Don Peppe, sempre estroso, pensò di presentarsi al provino e ad una domanda del presentatore rispose: "a prescindere se io sarò ammesso o non, mi dovete fare un piacere di ricordare che i capelli me li ha fatti il barbiere Bartolomeo del mio paese ed i baffi li sa curare così perché tiene la laurea in baffologia".

Don Peppe e lo sfottò col medico curante

    don Peppe si trovò a vivere per un breve periodo presso la sorella a Foggia dove prese l'influenza e la germana pensò di far venire il medico suo di famiglia per farlo visitare ed eventualmente assegnargli una cura.
    Don Peppe che era abituato a scherzare con tutti, volle provarci anche con il medico.
    Sfidò costui ad andare in un'altra stanza, ad assumere qualsiasi atteggiamento ed egli avrebbe indovinato la postura che avesse assunto là dentro.
    Il dottore, ingenuamente, eseguì l'ordine e dalla stanza chiese a don Peppe come era disposto e questi così rispose: "dottò'!, ve ru dico ma nun ve la pigliàt' a male, stàte pròpije cùmm' a 'nu càzz' !". (dottore, ve lo dico ma non la prendete a male, state proprio come un cazzo!).
    Il dottore non la prese però tanto bene; dovette la sorella spiegare che il fratello era un macchiettista nato e che a turno se la prendeva con tutti quelli che gli capitavano a tiro.

__________________________________________


(teste: Severino Ragazzo)
Don Francesco Del Sordi e "lu sputòzz' ra 'ncimm' a lu balcòne"

    Don Francesco abitava in via Fontana in una casa ad un piano terra ed un primo piano.
    Al risveglio, alla mattina, il sacerdote aveva l'abitudine di affacciarsi al balcone e a volte per spurgare la gola emetteva qualche sputacchio accoppiandolo a un tipico suono gutturale.
    Al piano terra, sottostante al balcone e prospiciente la strada di via Fontana, teneva un negozio di frutta e verdura "Seppitiello" che ad una certa ora esponeva una parte della mercanzia anche all'esterno per meglio rendere visibili i prodotti alla clientela.
    Capitava spesso che qualche cliente assisteva alla scena di Don Francesco cosi che il fruttivendolo si preoccupò di perdere la clientela ed un giorno, non sopportando più il gesto, rimproverò il pio sacerdote.
    Questi, di rimando, così gli rispose: "e che càzzo, mo' vùje verè' ca cu' 'nu sputòzz' ri lu mìje, s'arruìna tutta la frutta tòja ?" (e che diamine, adesso vuoi vedere che con un mio sputo si rovina tutta la frutta tua?).
    Era questa una grande dote di Don Francesco che con una battuta ad effetto stemperava una polemica che poteva avere dei contorni anche drammatici.

Don Francesco e il disappunto per la costruzione del palazzo comunale

    Don Francesco, dalla sua lunga balconata in via Fontana, aveva una bella veduta panoramica arrivando ad osservare perfino la contrada Padula dove possedeva il proprio terreno a cui era molto affezionato, prima che alla fine degli anni sessanta del secolo scorso cominciassero i lavori di costruzione del palazzo del municipio di Vallata proprio dinanzi alla sua abitazione.
    E via via che si sopraelevava la struttura, il nostro sacerdote notava ridursi la visione, al punto che quando fu completato il tetto del manufatto non ce la fece più e così sbottò: "ànno mèsso stù' càzzo quò 'nànz' e mo' nun vèco chiù la terra mìja!"(hanno messo questa cosa qui davanti e adesso non vedo più la terra mia!).
    Chissà che avrebbe detto il nostro reverendo, oggi, se guardando il panorama avesse osservato le pale eoliche che si elevano dappertutto, forse avrebbe esclamato: "ebbè! e che ci vulìte fà: a ijèri a me e òscje a vùje!" (ebbene, e che ci volete fare: ieri a me e oggi a voi !).

__________________________________________


(teste: Rocco De Paola)
Don Francesco, il professore Nufrio e "l'ùva spìna ca era stata pumpòta"

    Don Francesco e il professore Nufrio, oltre ad essere colleghi di insegnamento erano portati a volte a scambiarsi battute e farsi qualche dispetto.
    E' notorio l'interesse del nostro sacerdote per la campagna dove andava a distrarsi nelle ore fuori dagli impegni ecclesiastici e scolastici.
    Il professore Vito Antonio Nufrio, già dagli anni 60' brillante intellettuale e uomo di cultura, tutto concentrato nell'insegnamento, non disdegnava qualche volta di osservare il mondo agricolo e le attività che in esso si svolgevano.
    Lo scrivente ricorda con piacere come fino a qualche mese prima della sua dipartita veniva insieme a cogliere fichi, qualche cicorietta o finocchio selvatico e assaggiare qualche prodotto dell'orto.
    E fu così che il nostro "Totonno" per fare un dispetto a Don Francesco si recò insieme ad amici nella campagna del sacerdote in quello di Padula per vedere di raccogliere furtivamente qualche primizia.
    Ed avendo adocchiato una bella pianta di "ùva spina" ne raccolse una quantità tale da lasciarne poco o nulla al proprietario.
    Il nostro sacerdote, accortosi in ritardo del furto perpetuato ed avendo, subito, pensato all'opera del professore e compagni, disse tra se e se: "Ohi Maronna mìja e mo' chi ci ru vàje a dìce a lu prufussore ca l'uva ìje l'avèva pumpòta? Vùje verè ca le vene nu male re panza?" (o Madonna mia e adesso chi ce lo va a dire al professore che l 'uva io l'avevo pompata? Vuoi vedere che gli viene un un male di pancia?).
    Il giorno dopo, a scuola, il reverendo vide che Antonio era tutto tranquillo e non ritenne di fare alcun commento.
    "E accussì: cìttu tu e cìtt' ìje!" (E così zitto tu e zitto anch'io).

__________________________________________


(teste: Ernesto Vella)
"Rocch' Tozz'" (Rocco Palmisano) e la banda del paese

    Anche a Vallata è esistita una banda musicale a partire dagli anni 30' del secolo scorso ed in essa le persone prevalenti erano gli artigiani che durante il tempo libero imparavano a suonare la musica e andando in giro per le feste padronali dei paesi vicini arrotondavano anche il reddito.
    Uno dei bandisti era Rocch' Tozz' che suonava una particolare tromba.
    Quando la banda andava a suonare in una festa, li "màst' re festa'" per tutta la giornata prima della processione portavano i bandisti in giro per tutte le parti pur di raccogliere l'obolo per il santo.
    E fu così che in una festa che si svolgeva prevalentemente in campagna i musicisti dovettero attraversare quasi tutte le frazioni del paese.
    Il nostro Rocco non ce la faceva più, tanto era stata la fatica nel camminare e nel suonare, che in un momento di rabbia così sbottò: "Ih che fèsta fànne stì cafùni!" ( guarda che festa disgraziata fanno questi cafoni!).
    Ma successivamente ogni musicista fu ospitato in casa di un contadino e dopo aver mangiato bene e ben bevuto il nostro Rocco non potette esimersi dal felicitarsi e questa volta esclamò: "e chìste sò' fèst'!"(e queste sono feste!).
    Che dire! Come cambia l'umore di una persona a seconda il contesto in cui si trova! Prima la festa era brutta perché defaticante poi era diventata piacevole per la ospitalità ricevuta dalle persone.

__________________________________________


(teste: Erminio D'Addesa)
"Rocch' Tozz'" e il trascorso nella trattoria del ristorante

    Rocco abitava in via xx settembre dove esisteva anche una trattoria-ristorante.
    Il proprietario della trattoria cercò di invogliare Rocco a mangiare e prima lo invitò a un bel piatto di maccheroni, poi a una bistecca da cuocere veloce veloce, poi a due braciole che erano già pronte ma il nostro musicista rispondeva sempre di no ad ogni offerta.
    Alla fine il proprietario non avendo cosa inventarsi da offrire per il continuo rifiuto così sbottò: "e quèst' e nò! E quest' àt' e nò! E che t'àggija còce stà càpe re càzze?" (e questo no! e quest'altro no! , che ti debbo cuocere questa capocchia di testa?).

__________________________________________


(teste: Ernesto Vella)
"Nun desidera Filicìdd'!"( Non desidera il piccolo Felice!)

    Filicìdd' era un personaggio particolare.
    Filicidd' sembrava sempre fare ritrosia dinanzi al mangiare offerto dagli altri.
    Successe così che una mattina la sorella aveva preparato una grande "spasetta ri trijdd'" da portare in campagna per dare da mangiare ai mietitori che erano al lavoro nel proprio terreno.
    La germana invitò il fratello a mangiare un po' di maccheroni ma Filicidd' fece subito finta di non desiderarne, ma appena che ella si distrasse un po', forse per accudire gli animali da cortile, Filicidd' si gettò sopra la spasetta e in un batter d'occhio si mangiò voracemente tutto il contenuto e poi velocemente e di nascosto si allontanò.
    La sorella poveretta dovette di nuovo rifare il mangiare, impastare la farina, fare i maccheroni, cucinarli e poi poter partire per la campagna e mentre camminava ripeteva sempre tra se e se: "ah! Nun desìdera Filicidd'!...Nun desìdera Filicidd'!", tanto che questo è diventato anche un detto molto conosciuto nel paese.

__________________________________________


(teste: l'avv. Nicola Cicchetti)
Rocco Schiavina e Nicola Musino "li rùje màste cusutùre"

    Tutti e due bravi sarti del paese, il primo è stato citato dallo scrivente per il noto telegramma inviato alla famiglia in veste di bandista della banda locale nella quale suonava la grancassa e il secondo anche per la fortuna del figlio in America che si è affermato nel settore del tessile.
    Rocco e Nicola riuscivano a volte a lavorare insieme nella stessa bottega, cosa rara per la maggior parte degli artigiani un po' gelosi del loro mestiere.
    E fu così che un giorno capitò che dovettero confezionare un vestito ad una persona di una certa influenza nel paese che pretendeva che il prodotto fosse fatto su misura precisa e ad opera d'arte.
    I due maestri del taglio e cucito fecero distendere orizzontalmente la persona sulla "buffetta" (il tavolo da lavoro) e presero minuziosamente le dovute misure.
    Il committente meravigliato di tanto scrupolo così sbottò: "ma vùje state facenne 'nu vestìte pe' 'na pirsòna c'àdda campà o pe' uno c'àdda murì'?"(ma voi state facendo un vestito per una persona che deve campare o per uno che deve morire?).

Rocco Schiavina e la padrona di casapadrona di casa

    Era pratica, tanto tempo fa, che il sarto si recasse in casa della persona che chiedeva la confezione di un vestito e lì restasse per giorni facendo indumenti a tutta la famiglia.
    E fu così che Rocco andò a fare il sarto a giornata nella casa di una famiglia di Vallata e la padrona lo assillava continuamente di domande e di richieste.
    Ad un certo punto della giornata "lu cusetòre" non ce la fece più e per sottrarsi alla pressione continua disse alla padrona: "padrò': ràteme na scala ca vòglije fà 'nu servizije". (padrona: datemi una scala che voglio fare un servizio)
    "E che vulìte fà" - risse la padrona"( e che volete fare - disse la padrona).
    Di rimando: "vòglije scì 'ncimm'a l'ìrmici a riturnò la casa, sùl' 'acccussì me pòzze luvò ra 'nanz'a te!" (voglio andare sopra agli imbrici a riparare la casa solo così mi posso togliere davanti a te).
    "Ma còmme - rispunnìve la padrona - ìje nun sapèva ca 'nu cusutòre faceva pure lu muratòre!"(Ma come - rispose la padrona - io non sapevo che un sarto facesse pure il muratore!).

__________________________________________


(teste: Rocco Palmisano)
Ròcch' r'Abbèle Stirràcch' (Rocco di Abele Stridacchio) ed Epilùccio li Còffoli ( Euplio Colicchio).

    Rocco era figlio di Abele Stridacchio e tale padre tale figlio per la verve e le capacità umoristiche.
    Euplio Colicchio, chiamato a mo di sfottò 'li Còffoli', barbiere da giovane, subì una malattia che lo costringeva a camminare con il bastone.
    Lo scrivente ha avuto modo di verificare la forte memoria che costui aveva nel ricordare i numeri di targa delle automobili anche a distanza di decenni dall'acquisto e dalla rottamazione.
    A Vallata lo sfottò tra costui e le altre persone era reciproco ed Euplio doveva difendersi facendo funzionare il bastone per cui a volte le dava e a volte le riceveva.
    Fù così che Euplio per un diverbio dovette ricoverarsi in ospedale e quì entrò in gioco Rocco Stridacchio che, telefonando alla struttura sanitaria, chiese notizie del ricoverato con il soprannome solito.
    La centralinista riferì nella sala se fosse ricoverato un certo 'Còffoli', pensando che questo fosse un cognome.
    Quando Euplio si sentì chiamare in quel modo così sbottò: "mannàggija chi te mùrt' e stramùrt', pure quò m'avìva venè a 'zulutò?" (mannaggia ai morti dei tuoi morti, pure qui mi dovevi venire ad insultare?).

__________________________________________


(teste: Rosata Giuseppina)
"Ròcch' r' Abbèle Stirràcch' e lo sfottò cu' Ciriàco lu Babbarò" (Rocco di Abele Stridacchio e lo sfottò con Ciriaco Rosa)

    Rocco insieme ad altri lavoratori dell'edilizia della coop "Nuova Florida" di Vallata andò a costruire una casa a Carife.
    Tra i lavoratori c'era un onesto manovale che lo chiamavano con un soprannome un po' strano: " lu Babbarò".
    E fu così che una mattina la padrona della casa in costruendo volle fare una gentilezza invitando gli operai a prendersi un caffè.
    In quel momento Rocco chiamando gli altri chiese anche di Ciriaco e lo apostrofò col soprannome anzidetto.
    A quel punto anche la padrona incuriosita per il soprannome, volle chiamarlo allo stesso modo.
    Quando tornarono al lavoro, lontano dalle orecchie indiscrete della padrona, Ciriaco cosi sbottò contro a Rocco: "chi te mùrt' e stramùrt'! Pure quò a Carife m'avìva fà canòsce cu lu scangennòme?" (all'anima dei tuoi morti! pure qua a Carife mi dovevi far conoscere con il soprannome?).

__________________________________________


(teste: Rocco Palmisano)
"Giuannòne" (Giovanni Battista Zamarra)

    Un personaggio che a Vallata ha fatto dire di se, per aver ricercato una mole di documenti che sono serviti a Don Gerardo De Paola per scrivere il libro "Rassegna storica...."
    Funzionario di Stato, nel suo tempo libero si dedicava alla ricerca di documenti, visitando diverse biblioteche d'Italia.
    Ha scritto, anche se in numero limitato di copie, la storia dell'albero genealogico degli Zamarra.
    Giovanni detto "Giuannòne" forse per l'alta stazza fisica, abitava vicinissimo alla chiesa Madre di San Bartolomeo e al giovedì era solito andare a fare la spesa al mercato, portandosi con se una carriola dove sistemava i prodotti acquistati (oggi si usano i carrelli al supermercato).
    E fu così che un giorno, avendo fatto le provviste le più varie quasi per tutta la settimana, in un negozio di frutta aveva dimenticato la busta contenente il pesce acquistato in pescheria.
    Tornato a casa, si accorse della mancanza del prodotto e pensò di telefonare al fruttivendolo così dicendo: "sìnte, avìsse truvuòto, pi' caso, lu pèsce mìjo?".
    Dall'altra parte del telefono la risposta molto colorita: "ma và a fà 'ncùlo! E che me n'àggija fà ri lu pèsce tùje, quònne lu mìjo m'avàst' e me supèrchja?".
    Ecco cosa succede quando l'articolazione della frase è monca e si rischia di stravolgere l'intero contenuto!.

__________________________________________


(teste: Minieri Gerardo)
"Màst' Giòrgio e la storia del ciliegio"

    Vallata ha avuto una bella storia di artigianato, nel nostro caso si tratta di un falegname, ma come non ricordare la tradizione dei sarti, degli scalpellini, dei calzolai, dei muratori ecc...
    Giorgio era un esempio di quegli artigiani del legno che oggi non se ne trovano più; figlio 'ri Zì Peppe re Giorgio', ricordato in paese anche come suonatore di mandola (oggi è Giuseppe La Vecchia che continua il mestiere del nonno e del padre).
    Aveva Giorgio anche la passione per la campagna e quando poteva, libero dall'incombenza della falegnameria, era nella terra che passava il tempo (curando la vigna, l'orto, gli alberi da frutta).
    Fino agli anni 70' i ragazzi, per lo sfizio di assaggiare un frutto, erano capaci pure di rubarli al proprietario.
    A màst' Giorgio in quello di Padula avevano messo di mira ogni anno un albero di ciliege.
    Giorgio così pensò di intimorire i ragazzi scrivendo su un tabellone affisso all'albero: "nun mangijàte re ceràsa picché sò' stàte pumpòte!" (non mangiate le ciliege perché sono state pompate).
    I ragazzi non curanti fecero il solito saccheggio e a mo di ironia aggiunsero sotto: "mast' Giò, sapèvene bòna lu stesse!"
    Vorreste sapere la fine?
    Ebbene l'anno successivo màst' Giorgio, forse consigliato dal genero, tagliò l'albero e in cuor suo dovette dire: "quònne nun ce ne stànne pe' me, nun ce ne stànne pe' nisciùno!" (quando non ce ne sono per me, non ce ne sono per nessuno!).

__________________________________________


(teste: Anna in Perrotti)
"Zì prè (vete): tècchet' la trippa mija!"( Zio prete: tieniti la trippa mia!)

    Un prete di un paese che non si dice, durante le prediche che faceva ai fedeli era solito spesso e volentieri fustigare i costumi riferendosi all'attaccamento delle persone all'aspetto della vita materiale e non a quella spirituale, per cui dal pulpito diceva ripetutamente: "pinzàte sùl' a la trìppa...pinzàte sùl' a la trìppa.."
    Un giorno un fedele che aveva sentito il rimprovero e che quella mattina aveva comprato una trippa dal macellaio, avvertito il richiamo della coscienza, prese la carne e la portò in chiesa e la consegnò al religioso dicendo: "Zì prè(vete)!:"tècchete la trippa mija e accussì te sàzije pùre tu!".
    Ecco cosa succede nella lingua italiana ma anche dialettale quando si attivano i sinonimi.
    Il prete per trippa intendeva l'interesse materiale e il fedele solo quella parte dello stomaco dell'animale che viene cucinato.

__________________________________________


(teste: Severino Ragazzo)
Il prete donnaiolo e la sua spiegazione

    Si racconta che un prete di un paese che non si dice, aveva l'abitudine di andare dietro alle gonne delle donne.
    Ed un fedele del paese, constatato il fatto di persona, un giorno in confessione gli disse: "a vùje prìviti ca facìte stè cose, ve l'avèssera taglià' lu ...còso!" (a voi preti che fate queste cose, ve lo dovrebbero tagliare il coso).
    Il prete non si scompose affatto e con molta naturalezza gli rispose: "e pòi chi re vàje a 'coglije re pecurelle smarrite?"

Il prete e il cappello

    Un prete andava spesso con il cappello in testa.
    Un devoto un giorno gli disse: "Zì prè(ete)! Virìte ca lu cappìdde stàje stùrte!"(zio prete, vedete che il cappello sta storto!).
    Il prete di rimando: "oi Zì! Accussì àdda scì!" (o zio, così deve andare!).

__________________________________________


(teste: Rosario Gallicchio)
"Lu Mùpo Zappòne e lu bigliètto"

    Era un personaggio notissimo a Vallata fino agli anni 80' del secolo scorso, ottimo falegname e richiesto moltissimo dai muratori specie per la realizzazione di capriate ai tetti delle case.
    L'unica diversità dagli altri era che madre natura l'aveva fatto muto per cui doveva usare la lingua dei gesti per farsi ascoltare e capire, ma purtroppo qualche volta la lingua si confondeva per cui da un significato ne veniva fuori un altro.
    Fu così che un giorno il nostro doveva comprare un biglietto di pullman per andare a San Giovanni Rotondo e verso la signora che era addetta alla biglietteria faceva gesto con le mani dapprima di una cosa tonda e poi il braccio col pugno chiuso, a mo di stantuffo, lo portava avanti e indietro orizzontalmente per far capire che voleva il biglietto per la località di San Giovanni e che fosse anche di andata e ritorno.
    La signora addetta al rilascio del biglietto, non conoscendo il difetto fisico, pensò che l'acquirente le volesse fare uno sfottò bello e buono, intendendo il tondo l'organo sessuale femminile e il braccio che andava avanti e indietro come l'organo maschile.
    Non ci pensò due volte e sferrò un pugno in fronte al nostro paesano così dicendo: "e no! E mo l'àija furnì ri sfòtte!" (e no! E adesso la devi finire di sfottere).

"Lu Mùpo Zappòne e lu ceràse 'nànz'a la casa"

    Davanti alla propria abitazione all'Ina Casa dove il nostro gestiva insieme alla moglie 'Zì Clelia' un bar, c'era un ciliegio che quando il frutto era maturo attirava la curiosità dei ragazzi e a volte anche dei giocatori della sua stessa clientela.
    Immancabilmente ogni anno, al momento della raccolta del frutto, l'albero veniva aggredito e saccheggiato.
    Il nostro sopportò per un po' di tempo il fatto ma un giorno non ce la fece più e presentatosi davanti ai giovani fece capire a gesti che dovevano finirla di raccogliere, altrimenti sarebbe ricorso perfino alla legge, dai carabinieri e farli arrestare, facendo il gesto delle mani legate di chi viene incatenato.
    I ragazzi non vollero accettare il rimprovero e la minaccia e che pensarono di fare?
    Di notte tempo legarono l'albero ad una certa altezza con dei tiranti di diversa direzione e segarono la pianta alla base facendo mantenere in piedi il tutto.
    La mattina seguente il nostro, affacciatosi all'esterno dell'abitazione, vide le foglie e le ciliege 'ammosciàte' e non riusciva a spiegarsi il fatto, fino a quando appoggiatosi al tronco, questo si inclinò ed allora si accorse dell'accaduto.
    Non si può descrivere ancora oggi il disappunto del proprietario e la contentezza dei ragazzi che poco distanti, assistevano quietamente alla scena.
    Cosa dire: il proprietario aveva esagerato a minacciare i giovani in quel modo invocando perfino la legge, ma i giovani allo stesso modo non dovevano ricorrere a quella soluzione estrema, avrebbero potuto 'sfrasckirijàrlo' per intero come anni prima lo scrivente insieme ad amici avevano fatto "ri lu ceràse re ron Francìsch".

__________________________________________


(teste: Severino Ragazzo)
Quando si confondono le lingue ("quònn' se cunfùnnene re lèngh'")

    Un vallatese si fidanza con una bisaccese; e stando in casa, mentre i due fidanzati parlano tra di loro del più e del meno, la matrigna che ha messo il granone ad essiccare sul copertone nello spazio antistante l'abitazione, chiede alla figliastra: "figliò', pìgli lu cìst', c'àggija accòglije ru granurìnije". ( figliola, prendi il cesto perché debbo raccogliere il granturco).
    Il fidanzato vallatese che ha capito la richiesta, sollecita la patner a muoversi così dicendo: "uagnà'! àlza la còsc(ina)".
    La ragazza pensando che il fidanzato stia scherzando quasi invitandola ad sollevare la gamba, meravigliata dice: "ma còme, nu ru vìre ca la còscia mìja stàije già 'nant' a te?". (ma come, non vedi che la mia coscia sta già davanti a te?).
    Allora la matrigna che è vallatese di origine, avendo sentito il dialogo, così rimprovera la figliastra: "oi fàtua fàtua, nu' ru sàje che a Vaddata lu cìstu lu chiàmene la còscina?" (oi ingenua, non lo sai che a Vallata il cesto lo chiamano la 'còscina'?).
    Questo racconto vuole far capire la specificità di ogni dialetto e quando si vuole imparare un poco il dialetto di un altro paese si rischiano le incomprensioni più comuni; a volte la cadenza varia tra zone diverse dello stesso paese.
    Molti dialetti sono strutturati come vere e proprie lingue e per imparare un poco a parlarli, più difficile a scriverli, bisogna un poco conoscerli.
    Per fortuna che oggi tutti parlano la lingua nazionale grazie al livello di crescita della cultura nella gente, ma con la globalizzazione si deve fare i conti con l'inglese che ha preso il sopravvento; si è un po' tutti diventati di nuovo analfabeti di ritorno specie quando non ci sarebbe la stretta necessità di usarlo e quando i media fanno a gara a introdurre continuamente termini inglesi nella lingua nazionale, facendo diventare quest' ultima una nuova torre di Babele.
    Ridateci il nostro italiano! Fateci rigustare qualche bel dialetto che si trova ancora nel nostro paese, con tutto il rispetto per le altre lingue!

__________________________________________

Pagina Precedente Home