- DUE SATIRE A CONFRONTO SCRITTE NEL 1945 DA DUE BELLE PENNE DI LETTERATI VALLATESI: PIETRO TARCHINI E TOMMASO MARIO PAVESE - A cura del Prof Severino Ragazzo

DUE SATIRE A CONFRONTO
SCRITTE NEL 1945 DA DUE BELLE PENNE
DI LETTERATI VALLATESI:
PIETRO TARCHINI E TOMMASO MARIO PAVESE.

A cura del Prof. Severino Ragazzo.

       Premessa: si parlava che Tommaso Mario Pavese avesse scritto una risposta in versi alla satira di Pietro Tarchini dal titolo “Leggerissimo scherzo poetico sul veglione del carnevale 1945 a Vallata”, ma solo dopo 70 anni, in casa della famiglia Gerundo (che si ringrazia piacevolmente ) è stato rinvenuto il documento originale del manoscritto dal titolo “Risposta al “volo”... di un corvo spennacchiato”.
       Ai fini di gustare meglio i due contenuti ripubblichiamo la satira di Pietro in versione tipografica diversa poi quella di Tommaso in forma di caratteri di stampa curata dallo scrivente e di manoscritto. In questo secondo lavoro letterario vengono citati “Maso” e “Beppe”( nelle persone rispettive di Tommaso Pavese e Giuseppe Tanga) che nella satira del Tarchini vengono dipinti in maniera negativa.


“Leggerissimo scherzo poetico sul veglione del carnevale 1945 a Vallata”


A Vallata, sorgi, o Musa,
da gran tempo ormai sfiorita !
Prendi su la cornamusa,
ti ritorni in sé la vita !
Nella sala del veglione,
entra in casta discrezione !

Da De Paola il dottore,
la gran sala è preparata,
per il ballo, la serata
de l’orgiastico furore
tutti avanti, senza stento,
solo a lire cinquecento !

Converravvi del paese
la migliore aristocrazia,
gente nova che fa spesa
barattando mercanzia:
tutti in casa del compare
don Giovanni dulcamare.

Intervengono all’invito
le donzelle sdolcinate,
le zitelle stagionate,
alla pesca del marito,
gli studenti lascivetti
che pregustano di letti.

Quatto quatto, in foggia strana,
mentre l’aria è fatta bruna,
ed il cielo è senza luna,
esce Maso dalla tana:
fresco, ardito nell’aspetto
gli sorride il cor nel petto.

Eleganze ! Io non ci bado
me ne frego di etichetta
specialmente ora che vado
al veglione; in tanta fretta,
pur che giunga in tempo e presto,
non mi importa tutto il resto…!


Vagheggiando, in sua speranza,
seni e gambe (o rei pensieri )
delle dame nella danza
allacciate ai cavalieri,
sotto i baffi ride e spera
di trovarsi una mogliera.

Oh, l’acerba delusione !
Oh, funesto crudo caso !
Ne la sala del veglione
solo solo è lì Tommaso !
Solo solo è lì Tommaso
con un palmo e più di naso !

E l’affabile Giovanni
premuroso a grandi gesti,
tra le sedie e i vuoti scranni
prega Maso che si resti.
Gusteremo noi frattanto
di Caruso il dolce canto !

Ma il poeta indispettito
che i bei sogni vede infranti,
si diparte dal convito,
disdegnando dischi e canto.
Quatto quatto, bello bello,
fa ritorno nell’ostello.

Non più cibi, non più danze !
Solo il tetro, crudo aspetto
delle squallide sue stanze,
gli riflette il suo dispetto.
Fin i gusci nel camino
gli sussurran “poverino”!

Nel suo letto alfin l’ oblio
di Morfeo pace gli infonde…
Ma cos’è quel folgorio
quel baccan che lo confonde ?...
Egli sogna, ( che mistero )
il veglione proprio al vero !

   


Dall’ estroso ritmo acceso
furoreggia la quadriglia.
“ En avant ! “ tutti un’ intesa
“ et grand scen “ che parapiglia
“ Rond a druà “ che svolazzio
di gonnelle e che vocìo !

E fra tutti i zerbinotti
vagheggini e cicisbei
fra gli eroi dei salottini
dei festin, dei giubilei,
tra quei facili papà
sempre immemori di età.

C’ è quel Ciccio letterato
col suo crin bianco al vento,
nella danza spensierato :
Federico in sentimento
che fa mostra ancor di più
d’una eterna gioventù.

Cardarelli pure quivi ?
( Il suo nome fu Schiavina )
mastro in aghi e lavativi.
E non manca Corradino,
il defunto ormai di già
vice grande podestà.

Chi sarà quel damerino
rotondetto, assai conteso
che, quantunque sì pinguino,
non ha statica, né peso !
Un rampollo fortunato
lustro e vanto del casato.

Vedrem forse alti prodigi
se avrà crisma di dottore !
Suonerà fino a Parigi
la sua fama d’ inventore
aprirà una nuova via
la futura terapia.

Il liquor di sublimato
per frenar l’emorragia;

decozione di stronziato
per corregger la miopia,
il vaccino per la scabbia,
la pomata per la rabbia.

Le ventuno, che fervore
all’ingresso è apparso il conte !
S’ empie l’aria di fragore,
brillan mille luci in fronte,
fin il vino gli scintilla
nella vivida pupilla.

Splende in lui l’ ultima moda
del corrente carnevale:
gli si attaglia il tait a coda,
la cravatta occasionale:
ma disdetta ! Per un callo
ha le scarpe color giallo !

Spira un’aria di milioni
dal magnanimo irto petto :
duchi, principi e baroni
sono polve al suo cospetto :
e gli brilla come stella
la regale caramella.

Matematico profondo !
Sa i triangoli quadrati,
sa il quadrato essere rotondo
e gli isosceli a due lati:
sa di musica e di balli
di concerti e di cavalli.

Grande astronomo per Giove !
Sia di giorno che di sera
sa se nevica o se piove
degno più di Barbanera :
parla il turco ed il francese
il latino e il cinese.

E’ geografo valente !
Ha salpato i meridiani,
girato ogni continente,
visto i popoli più strani:

   


spinto s’è fino a Pechino
su nell’alto… Rivellino.

Già fu medico in bolletta,
ginecologo sfacciato,
oggi re della vacchetta,
della suola e del “cardato” ,
direttore d’ istituti,
dove tutti van perduti.

V’è la Dora dolce aurata :
per amor del Vittorino
tutta quanta consumata.
V’è quel fatuo Vincenzino,
che sul petto da leone
verde ostenta il suo maglione :

Quella maglia benedetta
che costò fatica e pena
e la Lina e la Marietta
sferruzzarono con lena,
per placar l’ aspro furore
del lascivo cacciatore.

Beltà gotiche sbiadite
( son zitelle, madri o spose ? )
muovonsi agili, spedite
nelle vesti assai pompose :
sfoggian vezzi e rarità
della loro mondanità.

Ecco luci d’ albe estive,
le sirene d’altri miti !
Son le Grazie redivive,
son le Veneri Afroditi !
Nina e Gemma, due sorelle,
più fulgenti delle stelle.

S’abbandona mollemente
Sui bei ritmi della danza
una vaga adolescente,
tutta fascino e fragranza :
senza dubbio, la regina
del veglione è Faustina.


Va lo stuolo ora affamato
a gustare la colazione;
al buffet, tutto agghindato
tronfio s’erge lo Scascione.
Lì succede un votta votta
peggio ancor di Piedigrotta.

Mordon pane avidamente,
con la scarsa imbottitura !
C’è qualcun che si risente
per l’avuta fregatura.
I cannoli, che sapore !
Ma v’è l’acqua nel licore !

L’ ammiraglio naufragato,
senza prua e senza poppa,
con un gesto indelicato,
s’impossessa d’una coppa:
pria d’offrirla alla damina,
alle labbra l’avvicina.

Dammi il calice, per Bacco !
Con chi credi di trattare ?
Tu non sai che son bislacco,
di spedirti pronto al mare,
e nell’acqua là salata
troverai la tua …fregata.

Disse Beppe ! E il nappo pieno
a lui strappa sul momento
e furente di veleno,
scaraventa al pavimento.

…………………………
Al fragor del reo bicchiere,
balza Maso all’origliere .

 

(Pietro Tarchini)

   

Risposta al “volo”... di un corvo spennacchiato


Canta, o Musa, del gran Maso
il furor salito al naso,
narra tu del mattacchione
la terribile tenzone,
che tremar fé genti a mille
più che d'Ettore e d'Achille.

Quatto, quatto in foggia strana,
mentre l'aria è fatta bruna,
con la luna o senza luna
esce Maso dalla tana;
unto, sozzo il suo berretto,
strabisunto il suo colletto.

L'una e l'altra sua ciabatta
non ha lacci: è d'umor nero,
se ne va sopra pensiero,
e perfino l'aria imbratta.
Cosa mai rivolge in mente
quel volgare, vile insolente?

Avrà forse lì segreta
una copia originale
dello scherzo che il poeta
celebrò nel carnevale?
D'uno scherzo schietto, ameno,
senza fiele né veleno!

Tosto va dal farmacista,
truce, torvo ed in cipiglio
e domanda a lui se esista
lo “stronziato” nello stiglio.
Ma Galeno monta giù:
“Stronzio”, sì, ma stronzo tu !

Ecco corre all'Istituto,
per narrare l'accaduto,
balza dritto in direzione,
mal dicendo quel veglione:
“Beppe, sai, ci ha sfottuti,
pronti all'armi o siam perduti.


E' impossibile la vita,
la mia pace, il mio decoro,
la mia calma si n'è ita.
Per le vie si grida in coro:
“Ron Tumà, che, quera sera,
la trovasti una mugliera ?”

(Beppe)
“Fé tremar già Pier Capponi,
Carlo ottavo e le sue masse,
noi daremo fiato ai tromboni,
ai tamburi, alle grancasse,
scuoterem coi nostri versi
cosmi interi ed universi”.

(Maso)
“Fin i morti violeremo
che han riposo in camposanto,
nessun più rispetteremo,
nel funereo nostro canto,
non si ride, no, a spese
del divin Mario Pavese !”

(Beppe)
D'improvviso il conte ha un lampo
nel cervel ora ispirato:
“O gran Maso non c'è scampo,
tetro incalza già il tuo fato,
la giustizia sempiterna
batte già alla tua caverna.

Molte colpe, molti errori
ha la nera tua coscienza,
la divina Provvidenza
ha mandato già i cantori:
ti faranno i funerali
con quei distici immortali.

Gente inerme tribolasti
con l'insipido tuo canto,
una vergine rovinasti,
non lo senti più quel pianto?

   


Non l'ascolti in ogni sera,
degno avanzo di galera?

Corri a casa in tutta fretta
e prepara la vendetta.
Penza ardito sul pitale
la risposta originale.
Manda strali e fulmin fuori
agli anonimi scrittori !”

Ecco Maso, a testa cionca
se ne torna alla spelonca
e nell'antro semivuoto
le caraffe appese al muro,
bottiglini, “Scritti vari”
inferiori ai sillabari,
gusci d'uova nel camino
or gli gridano “cretino “!.

Nulla più io qui discerno !
Fuori demoni d'inferno,
date vita e ispirazione
alla grande mia tenzone,
carme sommo, deve uscire,


pur se debbo più ammattire.

Dissi: strizza il cervitano,
solo echeggia il deretano.

(Nemesi)
Saprà questo un buon latino
e fa il goffo poetino,
se prurito ancora avrà,
d'insolenze e scemità,
di triviale volgarità,
pan pei denti troverà.
Bolle già nel pentolone
una gran composizione
che si intitola “Maseide”
degna invero dell' Eneide,
opre e gesta canterà,
stramberie e varietà
d'un aborto di natura
dalla culla a sepoltura.

 

(Tommaso Mario Pavese)



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