Vallata misconosciuta. Sorgive di acqua purissima in via Chianchione. Distilla dalle falde di Santa Maria. Prof. Rocco De Paola

Vallata misconosciuta.
Sorgive di acqua purissima in via Chianchione.
Distilla dalle falde di Santa Maria.


A cura del Prof. Rocco De Paola
__________________________________________

         “Chiare, fresche et dolci acque”. Potrebbe essere proprio questo celeberrimo verso iniziale della famosa canzone di Francesco Petrarca l’incipit per introdurre l’argomento di cui andiamo a dissertare. Non si tratta, certo, delle fonti del Clitunno, luogo mitico dell’immaginario collettivo, ispiratore di alati versi, ma la suggestione che ne scaturisce è altrettanto coinvolgente ed intensa.
         Dalle pendici della collina su cui insiste la chiesa di Santa Maria, svettante sulla cima con le agili ed eleganti guglie gotiche delle sue torrette laterali, stilla un’acqua limpidissima che viene intercettata, poco più a valle, in pozzetti poco profondi. Questo prodigio quotidiano si verifica nella zona periferica del centro storico, in via Chianchione, dove, in cavità ricavate a forza di braccia nella dura puddinga, il prezioso liquido va ad alimentare delle vaschette di raccolta, scavate anch’esse nel conglomerato roccioso. Quelle grotte, più prosaicamente, nel passato servivano da stalle per gli animali, ed avevano la duplice funzione di preservarli da delitti di abigeato e di concorrere a tenere calde le abitazioni costruite nella parte antistante che dava sulla strada. Esse, forse, in età remote,furono utilizzate anche come abitazioni, o, in tempi più prossimi, come sicuro rifugio della popolazione, in drammatici momenti della nostra storia.
         Uno di quegli spechi è fortunosamente sopravvissuto alle distruzioni conseguite al terremo del 1980, quando le demolizioni indiscriminate e le abnormi aspettative suscitate dal miraggio della ricostruzione obnubilarono ed ottenebrarono i lumi dell’intelletto e produssero lo scempio incalcolabile di un patrimonio edilizio che, se fosse stato preservato, forse poteva rappresentare un prezioso volano per la nostra asfittica economia. Ad onor del vero, il peccato originario va ricercato nella scellerata decisione, adottata dopo il terremoto del 1962, di abbandonare il vecchio nucleo abitativo per consentire la ricostruzione a valle. Le conseguenze della diaspora furono la desertificazione ed il drammatico calo demografico nel centro, e nelle diverse periferie si venne a determinare l’orrendo caos urbanistico di un paese smembrato in tanti tronconi, con irrimediabile disgregazione del tessuto sociale.
         Dei guasti vandalici seguiti all’apocalittico sisma del 1980, che diedero il colpo di grazia al centro storico, fui correo,in modo del tutto inconsapevole, per ignoranza dell’importanza della conservazione di scorci caratteristici e di tipologie urbanistiche peculiari del natio borgo. Con profonda contrizione ed umiltà,ora cerco, nel limite del possibile, di porre qualche rimedio, mediante l’impegno in prima persona e con i miei contributi di ricerca e di studio, tesi a recuperare, almeno, alla memoria collettiva qualche testimonianza del passato più e meno remoto.
         Parte del rione di Santa Maria, che rappresentò il suggestivo scenario per uno dei primi presepi viventi, organizzato, in modo magistrale ed insuperato,da Mauro Stanco, scomparve, inghiottito dalle ruspe e, con i caratteristici vicoli e con le casette a “dimensione umana” di quella che, una volta, era la solidale e comunitaria “civiltà porta a porta” (non quella di Vespa, beninteso!) furono devastate le tante cavità che si addentravano fin nel cuore della collina, per decine di metri, che vennero spesso colmate con i detriti delle abitazioni, o murate con massicce pareti di cemento armato.
         Forse, se oggi le autorità preposte si dimostrassero sensibili al recupero, sia pur parziale, di quel prezioso patrimonio, un lembo superstite dell’antico tessuto urbanistico, specie in prossimità della Chiesa Madre,potrebbe ancora essere oggetto di salvaguardia e restauro ed essere destinato ad albergo diffuso, come già avviene brillantemente nell’antico borgo di Calitri. Anche una parte delle vecchie cavità, con gli opportuni interventi, potrebbe essere restituita alla fruizione della collettività e, nel contempo, divenire un’attrattiva turistica o potrebbe essere utilizzata per la stagionatura di formaggi e salumi, come accade, ad esempio, in taluni paesi del Cilento, qualificando e promuovendo, in tal modo, prodotti tipici della nostra terra. Un analogo discorso di valorizzazione turistica andrebbe fatto per altri numerosi “pertugi” che, secondo molteplici testimonianze, attraversavano l’antico agglomerato urbano, intersecandosi in tutte le direzioni.
         Un toponimo, rammentatomi dal prof. Severino Ragazzo, le “grotte di Ciullo”, ancora esistente, fa riferimento a tutta una serie di grotte, anfratti, spelonche, cunicoli che interessava il costone ad est del vecchio abitato, nella parte sottostante di via Levante, ad iniziare da via Mastro Prospero fin verso la collina di San Vito ed oltre, giù, in direzione della località denominata Visca che, come mi ha spiegato l’amico Severino, deriverebbe la sua denominazione dalla abbondanza delle acque che vi sgorgano. Il territorio di Vallata si presenta come una vera e propria groviera, dovuta al lavoro paziente di tanti nostri antenati nel perforare ed escavare lo strato roccioso su cui era stato edificato il primitivo nucleo urbano.
         Ricordo ancora distintamente l’enorme orifizio di uno di quegli antri del centro storico che sboccava proprio nel forno di proprietà avita, in piazza Annunziata. Perennemente immerso in impenetrabili tenebre, si incuneava in profondità in meandri e ricettacoli sotto le abitazioni soprastanti e veniva,allora, utilizzato come deposito della paglia usata per alimentare la camera di combustione del forno, dove veniva cotto un pane fragrante che impregnava l’aria di inebrianti effluvi. Quel terrifico meato sembrava,alla mia fantasia di bambino,il vestibolo che dava adito all’inferno e mai ho osato oltrepassarne i penetrali, avventurandomi nelle sue viscere. Ora è occultato da una spessa muratura, dopo lo stravolgimento urbanistico di quella storica piazza.
         E’ comune intenzione di un gruppo di amici, interessati e sensibili alle problematiche attinenti la storia pregressa del nostro paese, procedere alla esplorazione di qualche cunicolo ancora pervio, per una ricognizione “de visu” e per capire come siano stati utilizzati quegli antri nel corso dei secoli.
         La piccola grotta, da cui ha preso l’abbrivio il mio discorso e ne costituisce l’oggetto centrale, si trova in via Chianchione ed è di proprietà del compianto Franceschino Bove. Essa ci fornisce un’idea di come dovevano presentarsi le numerose cavità che c’erano una volta, talune, per la verità,ancora esistenti. Non è molto vasta, ma è oltremodo accogliente e confortevole. Quando vi sono entrato, pochi giorni orsono, guidato nella visita da Angelo Bove, ho immediatamente avvertito una gradevole sensazione di tepore, nonostante la rigida temperatura esterna. Mi spiegava il cortese anfitrione che il microclima interno si mantiene sempre costante, caldo d’inverno e fresco d’estate. Meraviglia della natura!
         Ed ecco, proprio al centro del vano ipogeo, addossato alla parete di fondo, un pozzetto che intercetta le stille di acqua grondanti attraverso le interconnessioni dei ciottoli. Uno specchio cristallino, appena increspato in superficie dal continuo affluire del liquido, consente di spingere lo sguardo fin sul fondo dell’invaso, e la cosa sorprendente è che il livello si mantiene sempre invariato. Evidentemente l’acqua, per misteriosi e reconditi recessi, rifluisce nelle riposte latebre del terreno sottostante, in modo tale da non raggiungere mai l’orlo, traboccando all’interno del piccolo locale. Di certo, nei tempi andati, quando si conviveva soprattutto con gli animali da soma, quell’acqua è servita ad abbeverare asini, muli o cavalli, dopo diuturne giornate di spossante lavoro. A quei muti e preziosi coadiutori nell’alleviare la fatica dell’uomo andrebbe innalzato un monumento a perpetuo ricordo!
         Al disvelamento di questi aspetti poco noti del nostro paese mi ha indotto,ancora una volta, l’impareggiabile prof. Severino Ragazzo, il quale, tempo fa, mi aveva fatto cenno di quella fonte inopinata. Al valente collega,che ha fornito, inoltre, minute informazioni sulle “grotte di Ciullo” e sulla etimologia di Visca, nonché delle foto di quello speco,va, dunque, tutta la mia sincera riconoscenza.
         E’ mia somma speranza che quanto andiamo riscoprendo, con impegno e con contributi sinergici, possa servire a destare l’interesse e la passione in numerosi giovani, ai quali trasmettere idealmente la teda virtuale della nostra cultura demopsicologica e della storia pregressa del nostro paese, tendendo alla sempre più compiuta riscoperta di aspetti inconsueti e di costumi di vita,profondamente diversi,dei nostri antenati e delle loro, a volte penose o drammatiche, vicissitudini individuali e collettive.
         A conclusione di questo modesto contributo, è doveroso un sentito ringraziamento a Fabrizio Bove, figlio di Angelo, che mi ha fornito preziose notizie ed il materiale fotografico.

Immagini fornite da Fabrizio Bove


Immagini fornite dal prof. Severino Ragazzo

__________________________________________

Pagina Precedente Home