- IL BRIGANTAGGIO A VALLATA e nella Baronia di Vico. - A cura del Prof Severino Ragazzo

IL BRIGANTAGGIO A VALLATA
e nella Baronia di Vico.

A cura del Prof Severino Ragazzo.
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    Un contributo al dibattito in occasione delle celebrazioni del 150° dell’ unità d’Italia ovvero dell’annessione ed occupazione da parte dei Savoia e della nascita del sottosviluppo del Sud.

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    Trascrivo in italiano il documento del registro dei defunti, XV, 26, dell’archivio parrocchiale di Vallata in cui sono elencati i nomi dei sette briganti, cinque di Trevico e due di Vallata che furono uccisi dietro la cappella di San Vito ad opera della Guardia Nazionale locale in concorso col distaccamento dell’esercito di stanza a Vallata:
   
    “L’anno del signore 1861, il giorno 17 novembre a Vallata.
    In questo giorno, condannati a morte, uccisi con un colpo di arma da fuoco, perirono i seguenti così elencati.
    1) Alfonso Cerullo, di anni 27……di Vallata
    2) Vito Marino, di anni 27……di Vallata
    3) Euplio Laezza, di anni 35….di Trevico
    4) Francesco Pagliarulo, di anni 34…di Trevico
    5) Antonio La Ferrara, di anni 27…di Trevico
    6) Giovanni Ragazzo, di anni 26…di Trevico
    7) Antonio Cardinale, di anni 25…di Trevico
    Questi tutti furono serviti del solo sacramento della penitenza e i loro corpi furono sepolti nel cimitero; presenti Michele Pavese e Nicola Domenico La Quaglia. L’arciprete curato Ciriaco Cataldo.”(1)

   
    Vallata, pur avendo una discreta presenza di briganti(2), non ha avuto una banda locale autonoma, ma i singoli briganti li troviamo militare nelle bande che agiscono nel territorio: questa del Cerrone, trevicano che eredita parte della precedente di Boschi, poi la banda Sacchitiello di cui fa parte il vallatese Angelo Colicchio che preso sarà il 29 novembre del 1862 fucilato. Si può supporre che il Colicchio abbia sotto di se una minibanda.
   
    Riporto qui le dichiarazioni del pentito Cerrone il capobanda, fatte a Vallata il 12/12/1861, pubblicate sulla rivista “Cronache ufitane”(3) :
   
    “Quando mi divisi con i compagni Domenico Zingariello, Euplio Laezza, Alfonso Cerullo, Vito Marino, Pasquale Travisano, Giovanni Cornacchia, Francesco Mariconda, Giovanni Ragazzo, Francesco Pagliarulo, Antonio Cardinale ed altri ignoti a me di paesi vicini, dal capo brigante Agostino Sacchitiello, dal bosco di Castiglione venimmo in questa volta, verso la metà del mese di ottobre ultimo; presso il Formicoso ci dividemmo: io, Zingariello, Laezza, Ragazzo, Pagliarulo, Cardinale, Cerullo, Marino, Travisano, Cornacchia, Mariconda, con Antonio La Ferrara, Vito Colella, ci portammo verso le contrade di Trevico, mentre tutti gli altri compagni, almeno al numero 25 e più, si avviarono per le contrade di Sant’Agata, Candela, Accadia, Monteleone.
    Rimanemmo nel numero di 13, mentre altri 11 malfattori, anche dei paesi vicini a Monteleone, Sant’Agata e Candela, dopo aver sostenuto uno scontro con la forza nelle vicinanze di Candela, nella masseria Polino, vi rimasero feriti tre e gli altri fuggiti (…).
    Ristretti nel numero di 11 percorremmo le masserie di Trevico pernottando nella masseria di Laezza, di Cardinale, Cerullo, Marino,ed il Mariconda in quella di Ciriaco Cardinale, nella contrada Vasoria. Lo Zingariello, poi, ed il Pagliarulo, nella pagliaia di Francesco Solimine, nella contrada Montemauro, il Ragazzo nella casa del suocero Antonio Pagliarulo, in contrada Vallesaccarda, Vito Colella nella masseria di Michele Ragazzo fu Salvatore, mentre io e La Ferrara nelle nostre case rispettive.
    La dimora fatta dai compagni fu per molti giorni, fino a che non furono catturati per mia opera.
    Dimorando in mia casa, a mia moglie fu insinuato la mia presentazione e l’arresto dei compagni, praticando la sua opera Don Nicola Toto; con esso lui prima fu progettato di condurre i compagni nella masseria di Pasquale Lo Russo, di poi nella masseria di questo D. Gaetano Pelosi, ove rimasero per tre giorni alla contrada Maggiano, ove avevano commestibili dai suoi garzoni Rocco e Giuseppantonio Nigro, giacchè io non vi dimorai e soltanto li vidi uscire da quella masseria, mentre d’essi mi avevano detto di essersi recati nelle loro famiglie.
    Io avevo progettato di farli prendere nella masseria del Pelosi, perché avevo veduto le relazioni che vi avevano con detti Nigro, ma poscia, avendo essi dissentito dal rimanervi colà ulteriormente, di accordo col capitano del 6° regg.di linea, li portai in un sottano aperto della casina di D. Leopoldo Paglia onde farli sorprendere di notte tempo dalla forza.
    Non debbo tacervi che il giorno precedente avevamo mangiato nella casina in una stanza separata, dove si entrava per una piccola porta senza esserne avveduto lo stesso D. Leopoldo e ciò nel fine onde non destare sospetti nei compagni a poterli trattenere colà.
    In tal modo la notte il 14, furono colà sorpresi sette (…) mentre gli altri tre, cioè il Travisano, il Cornacchia e Michele Pagliarulo fuggirono, dicendo di doversi prendere biancheria alle loro famiglie (…).
    Il Paglia non aveva alcuna scienza del progetto tra me e Toto.”

   
    Quanto le dichiarazioni siano il frutto spontaneo del Cerrone o condizionate dalle circostanze imposte non lo possiamo sapere.
    Il documento ci dice che la banda è composta prima di 13 e poi di 11 elementi, provenienti dal bosco di Castiglione intorno alla metà del mese di ottobre del 1861 e distaccatasi da quella di Agostino Sacchitiello ha il compito di operare prevalentemente nella zona territoriale di Trevico e di Vallata.
    E’ il periodo in cui il capo brigante Carmine Donatelli Crocco ordina di sciogliere l’armata di circa 2000 persone che ha sotto di se, suddividendola in bande medio- piccole e di andare a insediarsi nei paesi di provenienza dei briganti medesimi, così questa di Cerrone in Baronia, quella di Schiavone e Andreotti a Sant’Agata, Candela , Monteleone , quella di Sacchitiello in Alta Irpinia ecc…
    Oltre ai sette fucilati, della banda fanno parte il Cerrone, Zingariello, Travisano, Cornacchia, Mariconda, La Ferrara e Vito Colella.
    E’ il Cerrone che tradisce la banda in combutta col prete don Nicola Toto: prima li fa dimorare nella masseria del Pelosi in contrada Maggiano e poi li porta nella casina del prete don Leopoldo Paglia in Vallesaccarda dove in quest’ultima dimora la notte seguente il 14 cioè il 15 li fa sorprendere dalla Guardia Nazionale e dai soldati dell’esercito di stanza a Vallata.
    Il Travisano, il Cornacchia e Michele Pagliarulo (e il Mariconda ? ) scampano all’arresto perché fuggiti dalla banda e nascosti nelle rispettive famiglie.
    Gaetano Negri sottotenente dell’esercito di stanza a Vallata, in una sua lettera parla di otto briganti, il Cerrone invece di sette, almeno che l’ufficiale non intenda comprendere anche il Cerrone che era agli arresti e che come collaboratore e traditore sarà premiato avendo salva la vita.(3bis)
   
   
Retro storia della banda Boschi e poi Cerrone.
    La Baronia di Vico all’indomani della conquista piemontese del Mezzogiorno si trova con una crisi che colpìsce in modo particolare i comuni di Trevico e Vallata nei quali ci sono molti fuoriusciti e renitenti alla leva e forte è il contrasto tra chi è attaccato ancora alla deposta dinastia borbonica ed i liberali e tra contadini poveri (la provenienza sociale dei briganti lo dimostra ) e galantuomini saliti sul carro del vincitore.
    Il primo gruppo di resistenti è capeggiato da un certo Antonio Boschi, eremita di Monte Pagano (Te) ma residente a Trevico, emissario dei borboni.
    E’ composto di soldati sbandati e di giovani renitenti alla leva soprattutto braccianti e contadini senza terra che si danno alla macchia per sfuggire alla Guardia Nazionale.
    Ne fanno parte i trevicani: Vito Paglia, Giovanni Lo Russo, Vito Colella e Euplio Addesa e i vallatesi: Angelo Colicchio del 16° cacciatori borbonico che poi sarà ucciso, Vito Cautillo, Giuseppe Rizzo e Antonio Tasca.
    Scomparso il Boschi la comitiva è capeggiata da Ciriaco Cerrone, bracciante di 35 anni di Trevico che si tiene in stretto rapporto con Carmine Donatelli Crocco di Rionero e Agostino Sacchitiello di Bisaccia.
    La composizione della banda è stata già descritta in precedenza come anche l’arresto il giorno 15 novembre del 1861 e la fucilazione di 7 componenti della medesima.
    Il giorno prima dell’arresto, il Cerrone ha eliminato Domenico Zingariello che è stato ferito gravemente in uno scontro con la forza pubblica nei pressi di Candela (è abitudine dei briganti uccidere i commilitoni che, feriti, non hanno possibilità di sopravvivere ).
    Alla banda Cerrone non vengono imputati delitti di sangue ma solo estorsioni e grassazioni per sopperire ai bisogni della loro vita.
    Ad esempio:
    ad Antonio Tasca imputazione di estorsione in pregiudizio di Leopoldo Crincoli, sottrazione allo stesso di una giumenta, grassazione in danno di Raffaele Cornacchia e Gaetano Nigro;
    a Vito Paglia imputazione di mancato omicidio in persona di B. Toto il 26 ottobre 1861;
    a Vito Paglia, Colella e Cornacchia grassazione e mancati omicidi per aver aggredito il 26 ottobre del 1861 Antonia Todisco moglie di G. Toto, di furto nella casa di F. Antonio Toto e di incendio volontario;
    a Colella, Cornacchia, Lo Russo e Paglia l’incendio volontario in danno di Michele e Francesco Netti il 20 settembre 1961;
    al solo Giovanni Cornacchia:
    il 2 di settembre il furto di un fucile, cartucciera e munizioni nella casa di Gaetano Pelosi;
    il 3 settembre il danno volontario nei confronti di Domenico e Michele Netti; il furto di fucile tolto a Leonardo Colicchio in territorio di Vallata;
    il 6 settembre il furto di giumenta in danno di Ferdinando Bonavita, Luigi Gallicchio e Rocco Garruto;
    il 7 settembre il furto di una giumenta di proprietà di Gaetano Pelosi in contrada Maggiano e di un cappotto a Crescenzo Melchionna;
    l’8 settembre l’incendio della proprietà Netti.
    Dopo la decapitazione della banda Cerrone numerose sono le scorribande di quella di Sacchitello che nel suo organico ha anche dei vallatesi in modo particolare il Colicchio Angelo e che controlla la zona del versante del Formicoso e anche della Valle dell’Ufita.
   
    Trascrivo la comunicazione del capitano della guardia nazionale di Vallata ( Michele Netti ) al prefetto di Avellino commendatore De Lima relativa all’arresto di Angelo Colicchio(4):
    “Al signor commendatore.
    In continuazione di quanto l’esprimeva col vivo della voce in ordine al brigantaggio son lieto poterle annunciare che la mattina del 29 andante 2 ore prima di giorno mi riuscì di saper trovarsi dei briganti nella masseria di Andrea Gallicchio di qui posta sulla contrada Maggiano sul lato sinistro del Calaggio. A tale notizia mi recai con la mia guardia ausiliato dalla15° compagnia di linea qui stanziata, e giunto sul luogo designato dopo 3 ore di fatiche venne nelle nostre mani il capo brigante Angelo Colicchio di qui, soldato del 16° cacciatori del Borbone, che da due anni, insieme a Sacchitiello ha scorazzato in queste campagne. Il Colicchio era armato a meraviglia, aveva seco 4 fucili, 2 pistole, 110 cartucce, un paio di stivali di cavalleria, una giacca rubata bordiglione pochi giorni prima a Vincenzo Quaglia. Dei quattro fucili, uno è di munizioni appartenenti alla guardia mobile come si ebbe dall’interrogatorio del ripetuto Colicchio. Dopo poche ore rientrati in paese il Colicchio venne passato per le armi alla presenza del maggiore Brero qui di Passaggio. Pria di morire, lo stesso fece alla nostra presenza e degli ufficiali di linea importanti rivelazioni che tutte furono rilevate e consegnate nelle mani del giudice del mandamento per il corso regolare della giustizia. Se ella ne desidera una copia non esiterò da fargliela pervenire dalla quale rivelerà chi era l’ucciso e quali relazioni si ha tuttavia il brigantaggio in certi paesi. Tra non molto spero di assicurare al governo altra gente di conio somigliante. Si presti alla compiacenza riscontrarmi dell’arrivo del presente per mia quiete.
    Il capitano”

   
    Come si vede anche questa operazione avviene servendosi la Guardia Nazionale di spie che fanno da informatori ; il brigante Colicchio è ben armato e il lavoro sporco della fucilazione dopo un interrogatorio sommario viene fatto dal maggiore dell’esercito di nome Brero.
    Il Colicchio il 7 di settembre, sempre in località Maggiano insieme ad altri compaesani e Giuseppe Melillo di Bisaccia detto anche Gioia, sempre della banda di Sacchitiello, irrompono nella masseria di Gaetano Pelosi, in presenza del guardiano Rocco Nigro sottraggono una giumenta e consegnano una lettera anonima da far recapitare a Don Gaetano contenente la richiesta di 4000 ducati e pretendono alla fine la biada per i loro cavalli.
    Dal libro scritto da un discendente dei Pelosi(5) leggiamo a pagina 235: “come tutti i proprietari terrieri anche don Gaetano era filo borbonico ma non soltanto durante il governo borbonico….ma lo continuò a essere come lo fu suo padre anche nei primi tempi dell’unità d’Italia, tanto che nel 1860 fu accusato di associazione di malfattori e manutengolo di briganti che lo portò ad essere detenuto per otto mesi nel carcere di Avellino……fu accusato di avere coperto e protetto Giovanni Lo Russo …Loffa Onofrio, Michele Cirillo, Del Campo Carlo e Vella Pietrantonio”.
    In altre parti del libro si legge come il Pelosi conosca il Cerrone e lo stesso Colicchio che prestano servigi lavorativi nella sua azienda.
    Ci si può meravigliare che oltre ai liberali i briganti colpiscano anche i filo borbonici ma il fatto si spiega considerando, come dice lo stesso capo brigante Rocco Donatelli Crocco nella sua “autobiografia”, che a volte sono gli stessi proprietari dello stesso partito a richiedere qualche intervento per confondere agli occhi della opinione pubblica la loro simpatia per il passato governo.
   
    Nella seconda metà del 1862, nell’allora territorio di Trevico esce alla ribalta la banda di Ciriaco Lavanga, contadino trevicano detto l’abatino perché è stato in seminario a Lacedonia ricevendo anche una modesta istruzione.
    La composizione di questa banda è quasi per intero trevicana e va ad assommare più di dieci elementi.
    Riporto adesso il documento(5bis) relativo all’arresto e fucilazione, il 19/2/1863, di Rocco Bonavita della banda Lavanga, con cui la Guardia Nazionale di Vallata informava il prefetto di Avellino:
    “Signor commendatore
    Mi godo l’animo annunziarle che ieri noi nove dopo lunga marcia mi riusciva mettere in fuga e battere la banda Lavanga di Trevico unitamente ad un distaccamento del 13° bersaglieri.
    I briganti fuggivano spersi per diverse direzioni, da non poterli raggiungerli.
    Venne nelle mani della guardia nazionale una giumenta; un fucile di munizioni, un cappotto e 50 cartine, il brigante fu preso dal distaccamento dei bersaglieri, che operavano al lato opposto del Calaggio.
    Rientrati in paese dopo sommarie interrogazioni fatte al predetto brigante appariva chiamarsi Rocco Bonavita di Trevico di anni 22.
    Apparteneva alla banda Lavanga da circa sei mesi.
    Ieri stesso da questa guardia nazionale fu detto Bonavita passato per le armi, migliore dettaglio ho dato al signor sottoprefetto del circondario.
    Il capitano
    Michele….”

    Compongono la banda Lavanga: Ciriaco il capo, Rocco Bonavita, Aniello Schiavone, Giovanni Lo Russo, Euplio De Gregorio, Pasquale Mercando, Giuseppe Antonio Di Gianni, Alberto Ragazzo, Francesco Nuzzo, Giuseppe Luongo .
    Per ulteriori notizie sulla banda Lavanga occorre fare riferimento alla interessante tesi di laurea di Todisco Antonella pubblicata sul sito www.vallata.org
    (6) Scorribande in Baronia vengono compiute anche dalla banda di Giuseppe Schiavone, nativo di Sant’Agata di Puglia nelle cui fila si annovera la brigantessa Filomena Pennacchio di San Sossio Baronia, drupa del capo.(7)
    Sempre in Baronia nel versante ovest opera Michele Cipriano con una propria banda e nelle cui fila compare come drupa del capo Maria Giovanna Monciello, bracciante di Carife.
   
    BREVI CONSIDERAZIONI
    La storiografia ufficiale, da quella nazionale a quella locale, ha voluto presentare il Brigantaggio come il male, la piaga da estirpare a tutti i costi e con tutti i mezzi e i briganti come sanguinari, taglia teste , barbari e incivili mentre i rappresentanti della Guardia Nazionale e i soldati del nuovo esercito come patrioti, eroi, benefattori e apportatori di civiltà , progresso e libertà.
    Si è detto pure che quelli che in un certo qual modo hanno voluto comprendere il brigantaggio o sono stati arruolati alla causa borbonica o a quella clericale in nome della difesa allora del papa e contro le minacce che questo ultimo subiva all’attacco del suo potere temporale.
    Tuttavia non si dice che quelli che hanno magnificato i secondi sono stati di volta in volta pagati dai vincenti e nella generalità dei casi sono loro che scrivono la storia e non di certo i perdenti.
    Oggi a distanza di 150 anni si potrebbe ridare alla storia il carattere di scientificità e analizzare il periodo alla luce dei fatti veri così come si sono svolti senza indulgere ad una lettura di parte.
    Attraverso il dibattito che questo anno si sta sviluppando intorno al 150°, finalmente si fa strada anche se con difficoltà una interpretazione che va contro la storiografia ufficiale compresa quella che viene proposta ancora nella maggior parte dei libri di testo scolastico.
    Oggi si tende a inquadrare il brigantaggio post unitario che è durato per ben dieci anni come una vera guerra civile dove agli interessi di classe della borghesia moderata conservatrice e quella liberale cosiddetta progressista si oppone la massa dei contadini poveri, dei braccianti che si vedono ulteriormente e ancora una volta sconfitti ma che vogliono anche loro giocarsi ‘ un ruolo ‘(vedi le aspettative che in un primo momento il proclama di Garibadi aveva suscitato nel discorso dell’assegnazione delle terre demaniali e sul problema degli usi civici ).
    I fatti di sangue di Ariano, Aquilonia allora denominata Carbonara, Montemiletto sono sì strumentalizzati da una parte, ma rappresentano anche la fiammata di rivolta delle classi subalterne che intuiscono come nel processo cosiddetto di unificazione ancora una volta loro resteranno fuori ed anzi le scelte che si faranno saranno contro di loro.
    Più che di briganti dovremmo parlare di chi si rivolta contro lo stato delle cose di quel periodo. In una canzone di un Circolo popolare a Vallata sorto agli inizi degli anni 70’ del secolo scorso si cantava ancora “niput’ nuje simmo a li briganti/nci ‘avimmo ribellà a li governanti”.
    Li si definisce sanguinari perchè uccidono ma dall’altro lato la Guardia Nazionale e l’esercito piemontese non scherzano se come nel caso di Vallata, dopo un processo sommario, i sette briganti vengono passati per le armi senza che abbiano commesso fatti di sangue.
    Dirà il Negri in una lettera che si era voluto dare una lezione esemplare che fosse di monito anche agli altri.(8)
    Sulle esagerazioni nel tagliare la testa ai briganti ed esporre il corpo pubblicamente, dovette intervenire lo stesso Stato dall’alto a ordinare che finisse tale scempio.
    Sulla gentilezza e signorilità dei soldati e loro comandanti si è usato enfasi e tifoseria di parte, quando poi analizzando bene si nota un razzismo strisciante che fa inorridire.
    E’ sempre il Negri che in una lettera scrive della pratica dei briganti di tagliare le orecchie ai sequestrati ma che poi parlando della gente del Sud dice che hanno le orecchie lunghe e che un loro taglio non sarebbe male.(9)
    A Casalduni il colonnello Pietro Negri, diverso dal nostro che è appena un sottotenente, distrugge un intero paese mettendolo a sacco e a fuoco pur di reprimere la rivolta popolare.
    La sconfitta delle lotte contadine che si è voluto intendere semplicemente come la fine del brigantaggio porta al sorgere del fenomeno dell’emigrazione (già dal 1870 a Vallata e Trevico troviamo i primi esempi di partenze per le Americhe per cui il detto ‘o brigante o emigrante ‘ si addice benissimo al caso).
   
    Il problema del sottosviluppo nel Sud o ‘la questione meridionale’
   
    Oggi nel dibattito dei 150° anni si cerca di sfatare (ma solo da parte di alcuni analisti ) la leggenda di un Sud, immobile, economicamente e socialmente arretrato già al momento dell’unificazione nazionale.
    L’analisi di un Sud semifeudale e di un Nord capitalisticamente evoluto è sempre stato il punto comune di partenza del pensiero storico sul meridione e su questa analisi è partita ogni proposta politica.
    Si parla di un Sud come una società precapitalistica, di grande proprietà terriera tipicamente feudale, di contadini contrapposti ad un proletariato agricolo ( di zone rurali della Valle Padana in piena trasformazione capitalistica ).
    In realtà verso il 1860 nel Mezzogiorno non esiste più il feudo ma c’è un processo di concentrazione delle terre tipicamente borghese e il rapporto salariale è fortemente presente nelle campagne (a Vallata la presenza dei braccianti è consistente come si può evincere dai dati del catasto napoleonico del 1824 e il censimento del 1832 dell’agricoltura nel circondario della Baronia di Vico).
    Anche per quanto riguarda l’industrializzazione non vi è una grande differenza né qualitativa né quantitativa rispetto al Nord.
    Anche per le infrastrutture viarie stradali e ferroviarie e i livelli di cultura i dati medi non si discostano un gran che, checché vuole fare intendere il Negri nelle sue lettere, seppure la Baronia è in quel momento una zona interna la più arretrata rispetto alle altre realtà del territorio provinciale e regionale.(10)
    Con l’unificazione (violenta) dell’Italia ha inizio invece quel processo di sviluppo ineguale che è la vera condanna del Mezzogiorno.
    Ad unificazione avvenuta, la borghesia meridionale o se si vuole la classe dirigente non riesce ad avere nel nuovo Stato un peso adeguato alla forza che pure le spetta e diventa di fatto subalterna a quella settentrionale che ‘userà’ il Mezzogiorno come una colonia, la sua unica, vera, grande colonia.
    La classe politica meridionale, di volta in volta, pur di difendere i propri privilegi di casta farà compromessi sempre a ribasso, mortificando gli interessi dei territori.
    A fustigare il costume trasformistico e clientelare dei politici del mezzogiorno ci pensa Guido Dorso invocando una rivoluzione nella concezione della formazione della classe dirigente.
    La sua intuizione della necessità di 100 uomini di acciaio per la politica nel Mezzogiorno sarà mortificata dalla pratica di 100 e più politici che oggi definiremmo ‘cacicchi’ che di volta in volta svendono per i propri interessi le aspettative del Sud e il discorso se vogliamo è ancora di attualità.
   
    Che fare oggi:
   
    A 150 anni di distanza affermare un senso critico al processo di unificazione dell’Italia vuol dire avere coscienza non solo di difendere quel che resta dell’unità del paese (rispetto agli attacchi quotidiani che la ‘lega nord’ fa) ma anche di discutere di un riequilibrio delle varie realtà territoriali svantaggiate, rilanciando ‘la questione meridionale’ come questione nazionale.
    Senza cadere nella reazione opposta alla lega di formare il cosiddetto partito del sud o ‘filoborbonico’ come direbbe qualcuno, dovremmo dare la sveglia alla classe dirigente meridionale (o se incapace dimissionarla in blocco) per far valere in tutte le sedi gli interessi dei territori che sono rappresentati, rivoluzionando lo stesso modo di fare politica che è esistito fino ad oggi.

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    (1) I lavori di restauro della chiesa di San Vito di una ventina di anni fa fecero rinvenire scheletri di persone che metterebbero in dubbio il dato del documento.
    (2) Da “Cronache di brigantaggio nel circondario di Ariano Irpino negli anni 1862-1863- Vittorio Caruso- Vicum dicembre 1983 : il numero dei briganti di tutto il circondario, comprendente 23 comuni era di 213 di cui Vallata ne annoverava 17.
    (3) Archivio di stato di Avellino, Gran Corte Criminale, b. 90, fasc. 424- (4) Ricerca della scuola media di Vallata :”Vallata e l’Irpinia tra passato e presente” ; 1991- coordinatore prof. Giuseppe Soldati. (3bis) lettera di Gaetano Negri scritta da Vallata il 16 novembre 1861 inviata al padre.
    (5) Comunità di Vallata tra chiesa madre, cappellanie e regia dogana”-ed. Bastogi –autore: Sergio Pelosi.
    (5bis) Idem del numero 4.
    (6) “Episodi di brigantaggio in Alta Irpinia”; tesi di laurea in storia contemporanea al corso in lettere moderne dell’università Federico II° di Napoli.
    (7) Filomena Pennacchio è una delle tante brigantesse che scelgono di stare vicino ai loro amanti, ai loro mariti, svolgendo a volte azioni militari anche in prima fila. Di costei il D’Amato, ricercatore di folklore e amico del nostro caro Tommaso Mario Pavese, riferisce che a Villanova Del Battista il popolino cantava: “cu nu ruj bott mmano/ cu nu spatone appise/ spara a lu capitano/che care nterrra accise./L’aveva corpito nfronte/cu mira assaje perfette/così salvato a Peppe/ si vanno a ripusà –ovvero: con un due botte in mano/con uno spadone appeso/spara al capitano/che cade in terra ucciso./L’aveva colpito in fronte/con mira assai perfetta/ così salvato a Giuseppe/si vanno a riposare- N.B. il capitano è qui il comandante dell’esercito con cui si scontra la banda di “Peppe”, di Giuseppe Schiavone in uno dei conflitti a fuoco.
    (8) Lettera di Gaetano Negri, scritta da Vallata il 18 novembre 1861 e inviata al padre.
    (9) Lettera di G. N., scritta da Montesarchio il 16 dicembre 1861 e inviata alla zia Nina.
   (10) Lettera di G. N., scritta da Vallata il 28 novembre 1861 e inviata al padre.

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