Chianchione l' asperissima bataglia de Vallata di Don Arturo Saponara

Chianchione l' asperissima bataglia de Vallata

Sacco - Distruzione – Eccidio

LA CORNICE STORICA

D' UN QUADRO ORRENDO

        Agli albori dell'Evo Moderno, Carlo VIII Re di Francia, cala in Italia per conquistare il Regno di Napoli su cui vanta diritti.
        Alfonso II d'Aragona — già Duca di Calabria — Re di Napoli, sapendosi odiato dai sudditi, abdica in favore del figlio Ferdinando —detto Ferrandino — II di questo nome; il quale vistosi abbandonato sia dai Baroni che dall'Esercito, si rifugia nel Castello d'Ischia, in attesa di più favorevoli eventi. Così, Carlo VIII, il 21 febbraio 1495 entra solennemente in Napoli.
        L'imprevista fortuna del Monarca francese allarma i Sovrani d'Europa: Massimiliano 1. imperatore di Germania, Ferdinando il Cattolico Re di Spagna, la Serenissima Repubblica di Venezia, Papa Alessandro VI (Borgia) e Ludovico il Moro firmano un Trattato di alleanza contro la Francia.
        Carlo VIII, avuto sentore della Lega, lascia gran parte dell'Esercito nel Reame conquistato e, con soli 6000 uomini prende la via di Francia; ma a Fornovo — sul Taro — si trova di fronte all'Esercito della Lega che, sotto il comando di Francesco Gonzaga, Marchese di Mantova, gli sbarra il passo. I Francesi hanno la peggio; ma gli Alleati, per avidità di bottino, si lasciano sfuggire la vittoria: Carlo VIII riesce a fuggire! (6 luglio 1495).
        L'Esercito alleato, dopo Fornovo, non scende nel Meridione per liberare il Regno dai Francesi: il Gongaza lascia Ravenna, diretto a Napoli, circa otto mesi dopo: 1 marzo 1196 (l).

        _______________________________
        (1) Giuseppe Coniglio - F.co Gonzaga e la guerra contro i Francesi nel Regno di Napoli e relativa Appendice documentaria. Sannium A XXXIV Luglio - Dicembre 1961.



BATTAGLIA DI VALLATA

        L'Irpinia parteggia per i Francesi. Per sottometterla si attende l'arrivo dell'Esercito veneziano. Il Marchese di Mantova s'incontra a Foggia con Re Ferdinando e, dopo un Consiglio di guerra inizia le belliche operazioni. Uno degli episodi più salienti della Campagna è la Battaglia di Vallata, così narrata da Paolo Giovio:

        Vallata quoque oppidum in edito colle positum magna vi atque ira militum expugnata trucidatis q: ad unum ferme omnibus oppidants direpte quoad Vallaten fes agresti feritate in fide Callorum perseverantes, primo statim adventu ad colloquium progressus, Alexium Beccacutum, Aloysium q. Alberum delectorum coortis praefectu et Crassum centurione missilibus vulnerassent, Suardino p: etiam ex armigeris familiaribus nobili decoro q: adolescentem adversum os lapidi ictu deforntassent Vallatesium calamitate permuti popoli omnes qui Vicobisaza (2), Caripraemissis oratoribus ad Aragoniam fidem redierunt (8).
        fras (3), Guardiam (4), Sancti Angeli (5), Castrum (6), Urben q: Cidoniam (7), incolunt

        Vallata, Castello posto sopra d'un alto monte, fu preso con gran forza e collera dei soldati e saccheggiato essendovi tagliati a pezzi quasi tutti i terrazzane; perchè i Vallatesi con crudeltà villanesca, perseverando in fede dei Francesi di prima giunta avevano ferito con frecce Alessio Beccaiuto e Luigi Alvaro capitano d'una compagnia di fanteria scelta, e il Grasso capitano di squadra che erano venuti a parlamento, ed avevano con un colpo di sasso guastato il volto a Soardino giovane nobile ed onorato paggio del Marchese.
        Perciò tutti i popoli spaventati per la disgrazia dei Vallatesi, cioè gli abitanti di Vico, Bisaccia, Carife, della Guardia, S. Angelo e della Città di Cidonia mandandovi oratori, ritornarono ad obbedienza degli Aragonesi (9).
        _______________________________
      (2) Vico (oggi Trevico) e Bisaccia ambedue città con Cattedra episcopale.
        (3) Carife.
        (4) Guardia dei Lombardi.
        (5) S. Angelo dei Lombardi.
        (6) Castelbaronia.
        (7) Lacedonia - Città con Cattedra vescovile.
        (8) Pauli Jovii Novocomensis Episcopi Nucerini, Historiarum sui temporis - Tomus primus - Liber IV - Venetiis - apud Cominum di Tridino - Montisferrati A. D. MDLIII - fol. 128.
        (9) Questa traduzione è riportata da Iannacchini - Topografia St. dell'Irpinia - Vol. III pag. 77. Si noti che la parola « Castrum » non è stata tradotta.



RILIEVI E DISEGNI

        Il passo dell'illustre Istoriografo qui riportato, ci narra la causale del raccapricciante episodio bellico, del quale, con poche ma vigorose pennellate ci offre un quadro di palpitante realtà. Esso però non soddisfa il lettore.
        Il Giovio tace alcune circostanze di tempo e di luogo; non precisa il numero delle vittime dell'eccidio, estendendolo alla quasi totalità degli abitanti; non ricorda un sol nome di quei cittadini che, sulle mura si batterono da leoni; non ci dice perchè i Vallatesi avversassero così fieramente la Dinastia aragonese. Il lettore resta col desiderio di conoscere qualcos'altro, di avere una risposta agli interrogativi che gli si affacciano alla mente, di conoscere il nome di alcuno di quei ferventi terrazzavi che incitarono il popolo vallatese a perseverare nella opposizione agli Aragonesi, conducendolo così in quel vicolo cieco in fondo al quale lo attendeva la rovina e la strage.
        Grazie al Cielo, siamo in grado di poter rispondere, se non a tutti, certamente a quasi tutti gli interrogativi, e con fonti degne di fede.
        Nel contempo, confuteremo quanto da Storici, o da Cronisti locali, o dalla tradizione ci vien detto contro la logica e la evidente realtà dei fatti.
        Avvalendoci infine della conoscenza dei luoghi, con i dati in possesso e la tradizione, tenteremo di ricostruire alcune scene dello spaventoso dramma.


DATA DEL MEMORABILE AVVENIMENTO

        Il Giovio non ce la indica. Il lettore è costretto a domandarsela. S' affaccia alla sua mente — quale punto di riferimento — un'altra data: quella della battaglia di Fornovo, (6 luglio 1495) e pensa che, dopo tale combattimento, l'Esercito della Lega, sempre sotto il comando di Francesco (10) Gonzaga, Il Marchese di Mantova (1484-1519) a marce forzate sia calato nel Regno di Napoli per scacciare i Francesi. Così pensavamo e, il nostro pensiero veniva avvalorato da due manoscritti locali (11). La distruzione e l'eccidio di Vallata sarebbero così avvenuti nel 1495...
        Niente affatto: i Veneziani scesero nel Meridione circa otto mesi dopo. Francesco Gongaza, il 5 maggio 1496 campeggiava nei pressi di Monteleone di Puglia. All'indomani egli doveva saccheggiare « un luoco vicino, chiamato Castello » (12). Dalla lettera « ex Castris... apud Vallatam, VII Maij 1496 » si rileva che, verso le XX ore del giorno precedente era a Vallata « luoco forte de sito et de homini » (13). Perchè questo? Aveva mutato proposito? Nelle lettere del Gonzaga c'è qui una lacuna, ma essa vien colmata da un documento che citeremo in seguito.
        Pel momento è necessario identificare la terra che porta il nome di Castello. Presso Monteleone non c'è, nè ci fu un abitato chiamato così. Ce ne assicura quel Parroco, Don Rocco Paglia, cultore di Storia locale. Il prof. Giuseppe Coniglio, Direttore dell'Archivio di Storia di Mantova, così preciso in merito, la identifica con Castelbaronia (14). Si è tentati a dubitarne. Castelbaronia non è « vicina » a Monteleone. Non è in Apulia: è in Irpinia. Partendo da Monteleone, il Marchese di Mantova doveva passare per i lunghi ove più tardi — ma non nel medesimo tempo — son nate da Trevico, (allora Vico) Anzano e Scampitella. Di qui, per Serra d'Annunzio, doveva toccare il tenimento di Vallata e avvicinarsi all' « oppidum » per quella selletta che oggi forma Piazza V. Emanuele III (Mercato). La porta più vicina (P. del Torello, detta anche del Rivellino) era ad appena 150 metri, in terreno aspro e roccioso.
        Il Duce mantovano non poteva andare a Castelbaronia senza passare per Vallata. Ora possiamo noi sapere con certezza che vi sia passato? La risposta è affermativa. In un volume di « Archivio Storico Lombardo » son contenute le Croniche del Marchese di Mantova, opera di un contemporaneo e degna di fede; alla quale attinse anche il Guicciardini (15). Da questa Opera si rileva che, il Marchese, effettivamente aveva deliberato di andare il giorno seguente, 6 maggio, « ad un altro luoco chiamato Castello » (16) per punire quegli abitanti, che si erano dimostrati perfidi nemici del Re, ma essendo il paesi inadatto al passaggio delle artiglierie, giunto ad una terra chiamata Vallata (17), gli abitanti di essa usciti audacemente fuori delle mura, ferirono il Grasso Capitano dei Provisionati veneziani, Suardino, Alessio Beccaiuto Prefetto dei Stradiotti (18) e Luigi delli Alberi, uomini valorosi e cari al Marchese (19). Con questa notizia, tutto diventa chiaro. Il Gonzaga aveva iniziato una spedizione punitiva contro Castello, che non ancora veniva detto della Baronia (20). Il terreno non si prestava a un regolare passaggio di artiglieria e questo risponde a verità. Da Vallata (m. 870 sul liv, del mare), per andare a Castelbaronia (m. 638) il Marchese doveva attraversare quel sentiero che, oggi rasenta la Cappella della Madonna della Grazia e prosegue pel vicino torrente dei Grattaponi: in tutto circa 800 metri. A pochi metri dal torrente (21), o meglio, dalle sorgenti di questo incontravasi il primo ostacolo: un burroncello aperto nel conglomerato pliocenico dal millenario lavoro delle acque, ma più ancora dall'ardore del sole estivo e dai geli del rigido inverno (22).
        Il successivo grosso burrone dei « Grattaponi » (località aspra, difficile a passarsi) s'apre tra le radici del primo monte del gruppo del Santo Stefano (Serra Longa) a sinistra, e quella della prima « Costa » del monte Trevico a destra: cupo, profondo, quasi pauroso (23).
        Per passare con le artiglierie, il Marchese di Mantova doveva aprirsi il passo col piccone, nel duro conglomerato, ampliando il sentierucolo esistente: 52 metri precisi per toccarne il fondo, altrettanti, o poco meno per risalire. Dal ciglione doveva inerpicarsi pel ripido pendio, in quel sentiero che taglia le pendici di Serralonga prima, del S. Stefano poi; doveva attraversare la gola da essi formata, (ivi si levava la chiesa di S. Stefano, della quale abbiamo rinvenuto copiose tracce), tagliare l'alpestre Serra del Mare (24) (m. 1010) per indi procedere tra scoscendimenti rocciosi e fitte boscaglie popolanti le alture, non raramente infestate da lupi (quelli « hirpus » (25), che diedero il nome alla Regione), località in cui il viandante, nell'inverno, sorpreso dalla tormenta (pulvino) spesso perdeva miseramente la vita (26). Di lì, il Condottiero doveva scendere a Castello, sito in plaga ridente ed amena, allora quasi del tutto boscosa, oggi popolata di uliveti, di vigne, di frutteti, (m. 638 sul livello del mare).
        Frementi d'ira e di sdegno per l'operato dei Vallatesi, il Gonzaga fece venire « le zente tutte », cioè il resto dell'esercito, ed iniziò l'azione punitiva contro Vallata, deciso a regolare in seguito i conti con Castelbaronia.
        Era circa la vigesima ora. Si disponeva di appena quattro ore di luce, poiché allora il giorno si computava da un'ave maria all'altra (27).
        Il sole declinava nell'orizzonte, oltre le cime del Salernitano, in un mare di fiamma — come in un mare di sangue — allorché, cessata la battaglia, aveva inizio l'eccidio.
        Questa Asperissima bataglia de Vallata fu, adunque, combattuta nel pomeriggio del 6 Maggio 1496. Ce ne indica la data lo stesso Marchese di Mantova, nella lettera alla Consorte del 7 Maggio, in cui scrive: « Hieri, circa le XX hore, essendo conducti qua, ad VALLATA, luoco forte de sito et de homini, al quale avendo data una asperissima bataglia tandem per forza avemo avuta (28) et meso ad sacho et amazato una gran moltitudine di homeni »... (29).
        _______________________________
      (10) Fu l'ultimo Marchese di Mantova. Federico II suo Successore ebbe il titolo di Duca.
        (11) Don Domenico Antonio Mirabelli - Memoria di Vallata antica - manoscritto posteriore al 1749.
                Capitolari ossia Statuti del Clero della Magg. Chiesa di S. Bart. Ap. compilati nel 1749 dall'Arc. D. Bartolomeo Novia.
        (12) Arch. St. di Mantova . Gonzaga - busta 2111 - lettera alla Coniuge - apud Monteleonem V Maji 1496.
        (13) Arch. St. di Mont. - Gonzaga - busta 2111 - apud Vallatam VII Maji 1496.
        (14) Gius. Coniglio - Op. cit. ed anche nella nota N. 18 alla lettera « apud Monteleonem»
        (15) Prof. Gius. Coniglio, Dirett. dell'Arch. st. di Mantova, in una lettera a noi diretta
        (16) Si noti: il Cronista non lo dice « vicino» a Monteleone.
        (17) Su per giù verso le ore 8, ammettendo che sia partito all'alba.
        (18) Soldati levantini a cavallo, armati alla leggera.
        (19) Croniche del Marchese di Mantova, a cura di C. E. Visconti, in Archivio Storico Lombardo, pag. 503.
        (20) Giustiniani L.. Dizionario si. ragionato dal B.. di Napoli - Tomo III - Napoli, presso Vinc. Manfredi -1797 «Castello, in Prov. di Principato Ultra in Diocesi di Trevico ».
               In un Diploma del Duca di S.Vito - R Nicola Caraccìolo del 5-2-1791 che è in nostro possesso perchè riguarda il nostro trisavolo Don I. De Vellis, vien detto « della Baronia».
        (21) Non più di 60.
        (22) Qualche secolo dopo, i nostri padri vi gettarono sopra un ponte, oggi ridotto a scarsi avanzi.
        (23) Il 26 Giugno 1943, un aeroplano tedesco, forse perchè avariato, lasciò cadere in esso due bombe del peso di 5 quintali e due del peso di 10 quintali.
               Furono fatte esplodere da nostri militari specializzati il 28 Luglio. Le schegge arrivarono fino a Trevico, ed oltre il Formicoso.
        (24) Son queste le prime tre cime del Gruppo del Santo Stefano.
        (25) Hirpus è vocabolo osto e vuol dire lupo.
        (26) Nei libri dei morti dell'Arch. parrocchiale se ne ha notizia.
        (27) In Vallata, il tempo veniva misurato così: lo ricordiamo benissimo -- da un pubblico orologio reso inservibile dal terremoto del 1930 (23 Luglio).
               L'avemaria veniva chiamata « ventiquattrore» e così si chiama ancor oggi, non solo da noi, ma da tante e tante popolazioni irpine.
               S'incominciava a contare poi: «una, due. tre, quattro ore di notte».
        (28) Espugnata.
        (29) Arch. di St. di Mantova - Gonzaga - busta 2111 - apud Vallatam VII Maji 1496.

       

COME POTE' SVOLGERSI L'AZIONE?

        Conosciuta la data precisa della Battaglia, passeremo a studiare l'andamento e a ricostruirlo con le notizie pervenuteci e la perfetta conoscenza dei luoghi in cui si svolse.
        Il Gonzaga fu adunque costretto a fermarsi presso Vallata, dopo aver conosciuto che la via che menava a Castelbaronia non permetteva pel momento (forse anche perchè la pioggia l'avevano resa fangosa) (30) il transito delle artiglierie. Pensa allora all'opportunità di chiedere, a mezzo di uomini fidati, la sottomissione di quell'oppidum che stima forte e ben munito. Continuerà poi la via verso Castelbaronia, ed avrà il vantaggio di non lasciarsi dei nemici alle spalle. Ma egli ha fatto i conti senza l'oste! I Vallatesi non ammettono i suoi parlamentari entro le mura; vi escono invece, li assalgono, li feriscono e li fugano. Si vede nella necessità, data la fortezza naturale del sito, la solidità delle mura e la manifestata fierezza degli abitanti a chiamare tutti i suoi uomini rimasti a Monteleone. D'altra parte, essendo questa ben lontana, è per lui necessario tenere unite le sue forze. Rimane sul luogo in attesa ed ha tutto il tempo di studiare il terreno, di scoprire il punto più vulnerabile, di fare il piano di azione.
        Dall'altura che domina l'abitato, il Gonzaga ebbe sott'occhio l'intero oppidum con le mura, le vie, il vicinissimo colle di Santa Maria e la mole imponente del castello.
        Dal colle di S. Vito, egli osservò il Castello, la vicina porta, con a fronte il colle di S. Maria.
        Alla XX ora di quel giorno fatale (31) arriva il grosso dell'esercito. Non c'è da perdere tempo: è necessario iniziar subito la battaglia.

* * *

        Il piano del Marchese di Mantova dovette esser questo: azione dimostrativa a nord (Porta del Torello - o del Rivellino) e ad est (Porta del Piano) ove la difesa per gli abitanti era più aggevole e la manovra di attacco più difficile, data la rapidità del terreno e la sua natura rocciosa; azione di massa a Porta Nova (detta anche Porta del Tiglio) a sud, presso il Castello, ove il terreno maggiormente si prestava alla manovra di assalto (32).
        Allo stratega conveniva l'azione decisiva in quel punto: la porta, dal tempo in cui si cominciò ad usare l'artiglieria costituiva per Vallata il tallone di Achille. Aveva, di fronte, a circa 150 metri di distanza, la cima del Santa Maria dalla quale poteva esser bersagliata dal cannone! Abbattuta la porta, fiaccata con tiri di intimidamento la difesa del Castello, grossi reparti sarebbero penetrati nell'oppidum, per occupare il Castello e la Chiesa parrocchiale, ottimo punto di avvistamento, difesa ed offesa, che distava dal Castello quasi 100 metri.
        Le vedette, dalle mura vedono che il nemico si prepara all'assalto. Danno l'allarme. Echeggiano i primi rintocchi della « campana d'armi ». Gli uomini validi son già sulle mura, smaniosi di far scoccare i loro archi, decisi a morire per la loro « Padria » (33). Tuona il cannone.
        L'Arciprete, del quale parleremo tra poco, benedice i suoi filiani, li incoraggia, prende posizione, combatte da eroe. Ogni terrazzano è un eroe.
        Si combatte dovunque. Al borgo monastico, « extra moenia », viene appiccato il fuoco e ai difensori dell'oppidum arriva il grido di « Vittoria » dei Veneziani.
        Sulle mura si combatte con la forza della disperazione. Dal campanile provengono sempre più frequenti i rintocchi della campana d'armi. Il rombo del cannone, a sud, ad est, a mezzogiorno echeggia anch'esso con frequenza maggiore. A Porta Nova, fracassata ed abbattuta, si avvicinano, urlando, gli assalitori in massa (34) frementi d'ira (35). Penetrano nell'oppidum, si precipitano verso il Castello e verso la Chiesa. Langue la difesa. Tace la campana. I superstiti vengono disarmati, percossi, trascinati fuori le mura, trucidati!
        _______________________
      (30) La stagione doveva essere piovosa, com'è spesso in questi luoghi nella prima metà di Maggio. Il Cronista fa rilevare che, il Marchese, dopo l'eccidio, si ferma Vallata « perchè sopragionse un sinistro tempo ».
        (31) Si riflette alla lunghezza d'una giornata di Maggio, alla cavalleria leggera (Stradiotti) di cui il Marchese disponeva alle vie del tempo, vere accorciatoie. Il Gonzaga partì certamente da Monteleone all'aurora.
               Potè arrivare a Vallata verso le 8 del mattino o anche prima. Alle 9 circa, la staffetta del Marchese partiva per Monteleone per chiedere «le zente tutte ».
               Dalle 9 alle 16 (20 ore del tempo) intercorrono 7 ore circa, sufficienti al bisogno.
        (32) Essendo quasi pianeggiante, favoriva lo svago degli abitanti, i quali vi si recavano per i loro giuochi, come si rileva da un documento dell'Archivio parrocchiale (Liber mortuorum 1706 - 1726 - Die XXVI Decembris 1712.
               In tal giorno Angelo lannuzzi, di anni tre «  mentre si giuocava » fu ferito al capo da un casuale colpo di maglio, per cui morì qualche ora dopo).
               Nella estate poi, uscivano a godersi il fresco, all'ombra d'un tiglio multisecolare, che si levava proprio nel punto ove nel 1961 è stato da noi eretto il Monumento alla Immacolata.
        (33) La Patria, per essi, era il paesello natio.
        (34) Magna vi (Giovio - op. - cit.).
        (35) Atque ira militum id. id.
 


NUMERO DEI VALLATESI CADUTI E TRUCIDATI

        Fu indubbiamente alto; ma tra la cifra data dal Marchese di Mantova e quella del suo Cronista c'è una differenza non lieve! Il primo dice che furono più di 250; il secondo, più di 170!
        Innanzi a questa diversità di numero si rimane perplessi.
        Quale dei due indica la cifra più attendibile?
        Non ci resta che confrontare i due testi e sforzarsi di comprenderne possibilmente il significato esatto. Il Marchese scrive: « ...noi se transferessimo alla Baronia de Flumere la qual tutta acquistassimo in quattro giorni, dando una asperissima bataglia ad Vallata, la qual expugnata misimo ad sacho cum occisione de più di 250 persone... (36) el che fo di tanto spavento che tutto il resto col maggiore timore del mondo ritornorno alla pristina Regia devotione »... Da ciò si rileva che, le 250 persone furono uccise dopo la battaglia. Sono le vittime dell'eccidio che dovette essere consumato in fretta, perchè c'era bisogno di eliminare subito quegli uomini destinati al massacro: la soldataglia non vedeva l'ora di iniziare il saccheggio!...
        Vediamo ora come si esprime il Cronista: « ...del che indignato (Fr. Gonzaga) fece venire le zente tutte et detteli una asperissima bataglia in la quale manchorono più de cento settanta homini de la terra et messela a socho dove fu guadagnato un numero infinito di bestie...» (37). Qui non c'è dubbio: le parole IN LA QUALE (nella quale) precisano che i 170 uomini di cui parla, caddero in battaglia (38).
        Sembra che il Cronista non voglia parlare dell'eccidio: con ciò offuscherebbe la gloria del Personaggio del quale tramanda ai secoli le belliche gesta!
        Cento settanta uomini son troppo pochi! Il Marchese che, per ovvie ragioni ha pure interesse di non dire tutta la verità, nella lettera alla moglie parla d'una gran moltitudine di uccisi... mena vanto di aver risparmiato solo le donne ed i bambini. Ma quante donne credettero d'aver trovato un nascondiglio sicuro e furono scovate, violentate e i loro cenci umani, consunti dal fuoco, non furono numerati! E quanti uomini, caduti nelle vie subirono la medesima sorte?
        Il Giovio, poco più di mezzo secolo dopo, con coscienza di storico è chiaro: estende il massacro a quasi tutti gli abitanti; quindi non solo agli uomini... Molte donne, dalla soldataglia ubriaca di sangue furono trucidate... Il Gonzaga non vuole l'onta d'una strage estesa anche alle donne e se ne scagiona... Forse le sue intenzioni erano buone... Forse si adoprò per preservare la vita e il pudore... Ma! Altro che 170 o 250 vittime!
        Concludendo, la cifra del Marchese e quella del suo Cronista vanno addizionate: abbiamo così un totale di 420 morti. Ponderando però bene il tutto, possiamo ritenere che le vittime furono di più.
        Nel 1532, cioè solo 37 anni dopo l'eccidio, Vallata contava 319 fuochi, cioè su per giù circa 1000 abitanti, cifra rilevante per quei tempi e, questo fa pensare che la sua popolazione, prima dell'eccidio, era abbastanza numerosa!
        _____________________________
        (36) Arc. di Stato di Mantova - Gonzaga - busta 2907 Copialettere libro 155 - ff - 92 - et - 93.
        (37) Croniche del Marchese di Mantova - pag. 504.
        (38) Dopo d'aver dato il numero dei caduti il Cronista accenna al saccheggio, che segue la battaglia — e non poteva essere altrimenti!.


UN EROE IN VESTE ECCLESIASTICA

        Ma chi incoraggiava i Vallatesi? Chi teneva alto il loro morale nei momenti più difficili? Chi li guidò? Chi fu al loro fianco nell'impari e tragica lotta per la difesa della Terra natale?
        Noi non lo immagineremmo mai, e stenteremmo a crederlo se il veneto Condottiero non ce lo dicesse: fu un ecclesiastico!
        Il 9 Maggio 1496, da Vallata, il Marchese di Mantova scrive allo zio del Re — Federico d'Aragona — che da poco ha preso il titolo di Principe di Altamura, e che di Vallata è Feudatario.
        In detta lettera, egli dipinge coi colori più loschi l'allora Arciprete di Vallata Don Angelo Antonello De Meo (39) « perfido inimico del nome e stato della Regia M.stà » ed eziandio di esso Principe «che più non se ne potria dire» (40).
        « Con alcuni altri » questo Arciprete incita i filiani a mantenersi fedeli alla Causa francese, inoculando loro nella mente e nel cuore l'avversione contro il Sovrano; per cui dal Gonzaga viene dichiarato responsabile dell'avvenuta distruzione del borgo natio e della strage de' suoi uomini.
        Egli appare al Gonzaga un rivoltoso, un violento, un criminale; ma non è così: si guardi il rovescio della medaglia e lo si vedrà sotto una luce affatto diversa!

* * *

        Don Angelo Antonello sa di non essere un criminale: ritiene giusta la sua causa, retta la sua condotta: sosterrà sempre — e con tutte le sue forze — il Partito francese; spenderà per esso tutto: averi, sangue, vita! Si ritiene un Patriota. E' un eroe!
        Egli pesa e valuta nella sua mente Galli ed Aragonesi.
        Gli uni e gli altri sono stranieri: si contendono la sua Patria, ma dei due mali sceglie quello che gli sembra minore.
        La Casa regnante è, per lui, fedifraga, tiranna, sanguinaria.
        Sa che, dieci anni prima, col trattato di pace con Innocenzo VIII (1.2 Agosto 1486) (41) si è solennemente impegnata ad amnistiare i Baroni e le Città ribelli; sa che invece calpesta questo impegno giurato. Incurante dei Brevi, delle proteste, delle preghiere del Pontefice, arresta a tradimento i Baroni (i quali hanno implorato perdono e giurato obbedienza!) facendone atroce scempio... Sa che, unicamente per far dispetto al Papa, ha ceduto all'Ungheria il porto di Ancona; (42) sa pure che, Pirro Del Balzo, suo Signore e benefattore, (43) chiuso in sacco, con pesanti pietre, viene gettato in mare dal Castello dell'Ovo, durante una furiosissima tempesta, nella notte di Natale del 1491, cioè solo cinque anni prima... (44). L'odia per la sua ferina crudeltà, lotta per spodestarla, per liberare la Patria dalla sua tirannia.
        Le Università vicine militano nello stesso campo... I suoi Colleghi sono animati dagli stessi sentimenti... Il Partito gallico è forte e la sua vittoria appare ancora possibile!
        Egli è leale: si è dichiarato francofilo; sostiene la sua parte, tira dritto per la sua via.
        Quale Ecclesiastico poi, egli non approva la irriverente condotta aragonese verso il Vicario di Cristo e crede suo dovere avversarla. Ma, ora, Alessandro VI è con la Francia e gli Aragonesi... Muterà per questo bandiera? No! Mai!
        Nel mattino di quel tragico 6 Maggio 1694, egli viene certamente informato insieme al Sindaco (Mastro Prospero?) della missione dei parlamentari del Marchese. Nel conoscere l'oggetto della Ambasceria egli ebbe certamente un fremito di sdegno « Non si deve esser vili! La quercia si spezza... non si curva! ».
        E, una viva soddisfazione dovette provare nel fuggire sanguinanti verso veder i Veneziani fuggire l'umido pianoro popolato di giunchi che, oggi forma Piazza V. Emanuele III (Mercato).
        Il dato è tratto! deve aver detto... Ci sarà il castigo... Don Angelo lo vede bene. Dalle mura vede i preparativi avversari, accorre dove i suoi filiani formano capannelli commentando il recente episodio; rivolge loro la parola... Non consiglia la calma, non la domanda del perdono all'offeso Condottiero... Li esorta ad armarsi, a battersi da leoni...
        E, quando echeggiano gravi e solenni i primi rintocchi della « Campana d'armi » (45) per avvisare chi è in casa che l'ora della prova è scoccata, egli leva gli occhi al cielo, benedice gli armati che accorrono da ogni parte snuda il suo stocco, dà un'occhiata alla faretra piena di frecce, salta sulle mura.
        Nel corso della battaglia si mostrò valoroso e forte.
        « Combattè fortemente » scrive il Marchese di Mantova (46). Acciuffato e disarmato non seguì la sorte comune: fu risparmiato perchè Ecclesiastico (47).

* * *

        Nella lettera al Principe Federico, il fervido Arciprete viene accusato di un grave atto di faziosità. Avvalendosi del prestigio che gli proveniva dall'Ufficio rivestito, egli avrebbe fatto esiliare il suo conterraneo Sacerdote Don Matteo De Antonello (48) « fidelissimo et Capellano » del Principe. Il Gonzaga, fatta l'accusa, propone al Principe quale Feudatario di Vallata — di privare del Beneficio parrocchiale quella testa calda di Don'Angelo, investendone l'esule Don Matteo « per merito della sua sincerità et restoro de li damni et affanni patiti in lo exilio suo » Calca poi studiatamente la mano per indurre il Principe a prendere il drastico provvedimento, dichiarando, candidamente che, questo gli farà singolare piacere » (49) parole queste che debbono spingere il Principe ad agire nel modo da lui suggerito.
        Qui ci vien voglia di conoscere la decisione del Principe, ma si può esser certi che egli abbia punito Donn'Angelo con la privazione del Beneficio e che ne abbia investito Don Matteo, suo partigiano e Cappellano (50). Al Vescovo di Bisaccia non restava che convalidare il provvedimento (51).
        Ma, dopo la deposizione, che ne sarà stato del fervido Arciprete? Le Autorità civili lo avranno lasciato libero, dando al Vescovo la libertà di punirlo?... O sarà andato a finire in carcere?... O, peggio ancora, gli avranno fatto dare dei calci al vento per mano del boia?... (52).

* * *

        Noi non conosciamo il nome di altri cittadini vallatesi che, nel luttuoso episodio capeggiarono il popolo. Riteniamo soltanto che, quel tale Mastro Prospero, del quale, da più secoli, una via di Vallata porta il nome, sia stato Sindaco della locale Università; che egli sia stato a fianco dell'Arciprete e che sia uno degli Eroi della stia difesa (53).
        ______________________
        (39) di Bartolomeo nome comunissimo in Vallata, che ha per Protettore San Bartolomeo.
        (40) Non bastano le parole a descriverlo.
        (41) Trattato che « fece versare più sangue della stessa guerra» C. Porzio Congiura dei Baroni.
        (42) L. Todesco - St. Med. e Moderna - Vol. TI.
        (43) Con moltissima probabilità fu presentato al Vesc. di Bisaccia per Parroco di Vallata da Pirro del Balzo.
        (44) C. Porzio La Congiura dei Baroni.
        (45) Originale espressione vallatese.
        (46) 443 anni dopo, Vallata doveva avere nella persona di chi scrive queste pagine, un Arciprete già soldato di linea del 41.
                Reggimento Fanteria, il quale, nella Battaglia di Monte Zovetto (16 - 18 Giugno 1916) scampò miracolosamente alla morte con solo 13 commilitoni.
                Il 1 Battaglione del 41. aveva avuto 2186 uomini fuori com. battimento.
        (47) F.co Gonzaga aveva interesse di apparire ossequente verso il Clero per ingraziosirsi il Papa, cui aveva chiesto il Cappello cardinalizio pel fratello Sigismondo. Prof. Gius. Coniglio - Op. cit.
        (48) Aveva lo stesso suo cognome: doveva essere suo parente.
        (49) Arch. st. di Mantova . Gonzaga - Busta 2907 - Copialettere libro 155 ff. 70 t.
        (50) Come si rileva dai libri parrocchiali dell'Archivio vallatese l'Arciprete veniva designato e presentato dal feudatario.
                Il Vescovo confermava. Esempi: D. Bartolomeo Caruso fu, nel 1668 presentato da D. Giovanna della Tolfa, madre di Benedetto XIII. Lib. Capitiz. 1663. 1705 fol. 64.
                D. Bartolomeo Vella dalla Medesima nel 1676 • Lib. mort. 1663 1705. D. Donato Zamarra da, D. Domenico Orsini . Lib mort. 1742 • 1756.
       (51) Bisaccia, Lacedonia, S. Angelo Lomb., Sedi Vescovili eran tutte devote alla Causa francese.
       (52) Noi detestiamo l'esilio di Don Matteo, voluto (secondo il Gonzaga) da D. Angelo, ma dobbiamo pur ritenere che D. Matteo fosse una testa calda, simile a quella di Donn'Angelo e che costui non avesse tutti i torti.
               Fautore degli Aragonesi, in acceso ambiente contrario, D. Matteo dovette provocare risentimenti e torbidi, per cui le francofile Autorità civili dovettero stimare necessario esiliarlo.
       (53) Via Mastro Prospero è vicina e parallela a Via Chianchione. Questa circostanza avvalora l'ipotesi che, le due denominazioni siano coeve e che abbiano tra loro una certa qual relazione.
                Che Mastro Prospero si sia annidato in quei pressi con un pugno di Vallatesi per prendere i Veneziani alle spalle e sia caduto in quel luogo, con i suoi, combattendo?

                          
       

VALLATA FU ESPUGNATA CON UNA VERA E PROPRIA BATTAGLIA?
ESSA FU VERAMENTE ASPRISSIMA?

        Il Gonzaga era un Generale. Di mischie se ne intendeva.
        Sapeva, dunque, ben distinguere una scaramuccia da una battaglia e una lotta fiacca da una altra asprissima. Dobbiamo stare quindi alla sua definizione, dandole una rigorosa interpretazione letterale, ritenere che fu un accanito combattimento. Ma non possiamo ritenere veridico quanto si riferisce alle perdite subite... Neanche un morto! Possibile?...
        Questa circostanza potrebbe mettere in dubbio l'asprezza del fatto d'armi; ma dobbiamo pur comprendere che, il Gonzaga, nella sua corrispondenza, si sforza di tener tranquilla la moglie (forse facilmente impressionabile) indicando le perdite avversarie e nascondendo le proprie. Così nella lettera « apud Atellam » dell'8 Luglio (ci si perdoni la digressione, ma è necessaria) parlando d'una sua brillante operazione contro la Compagnia di Paolo Vitellio, che combatteva a favore degli Aragonesi, fa notare che, l'Esercito, al suo ritorno, gli va festosamente incontro, plaudendo « con uno jubilo tale che non si potria dire, nè immaginare » Aggiunge che, per la soddisfazione e gioia provata, si sente guarito da una indisposizione che l'opprimeva. Ha « rotti e frachassati i nemici » ma, come nella Battaglia di Vallata, egli non ha perduto un solo uomo! Nel resoconto della Battaglia di Vallata fatto alla Consorte dice che, Alessio Beccacuto e Luigi Alvaro erano stati feriti...
        Tace però di Soardino, suo Paggio, persona a sé vicina e cara.
        Perchè questa omissione? La Consorte, sapendo ferito quel paggio, ne proverebbe vivo dolore; ed il Marchese, che le vuol bene — sappiamo che le scrive tutti i giorni in cui le belliche vicende glielo permettono — vuole evitarle questo dolore. In tal modo egli le faceva credere che, la sua persona non aveva corso, nè correva serio pericolo... e la teneva tranquilla.
        Chi sferra un assalto, anche se con ingenti forze e con armamento superiore a quello inadeguato avversario, non può non aver perdite, specialmente con la tecnica di quel tempo, in cui dovevansi colmare i fossati (54) e farsi sulle mura con le scale, sotto una pioggia di frecce e di sassi! E i Vallatesi erano valenti arcieri e le loro frecce difficilmente fallivano il bersaglio!
        Circa la fierezza della Battaglia potremmo pensare che, il Marchese abbia potuto esagerare valutandola così a poche ore di distanza; ma, 51 giorni dopo, egli poteva dare un giudizio ponderato, una definizione più esatta: scrivendo a Floriano Dello, la dice ancora «asperissima bataglia » ed il suo Cronista così la tramanda alla Storia. Dati gli uomini e i mezzi usati essa fu certamente aspra e violenta, ma la sua durata dovette esser breve.

CRUDELTA' VILLANESCA

        Il Giovio mette in evidenza la « fes agresti feritate » dei Vallatesi. Questi avrebbero dovuto contenersi, esser prudenti; nen mettere le mani addosso a persone che si recavano da loro in veste di parlamentari! Il loro carattere impulsivo fiero, inconsiderato, temerario li eccitò; la passione ottenebrò le loro menti; non previdero le immancabili, funeste conseguenze del loro atto violento.
        Il Gonzaga dice d'aver castigato severamente i Vallatesi « per aver voluto avere ed usare termini molto insolenti » e che Alessio Beccacuto e Luigi degli Alberi erano stati feriti in una prima scaramuccia. E il Cronista: « Gionto Francesco ad una terra chiamata Vallata, gli uomini della terra saltarono presunptuosamente (55) fuori e ferirono quattro uomini principali » ecc. (56). Da ciò apparisce che, i Vallatesi non lasciarono entrare nelle mura i parlamentari e, se saltarono presuntuosamente fuori per accopparli, significa che, il loro linguaggio fu provocante e minaccioso: dovettero minacciare lo assalto, il saccheggio, lo sterminio, l'oltraggio al pudore delle loro donne!
        Accesi d'ira e di sdegno, vollero mostrare a quegli uomini che parlavano con un accento e una pronunzia mai udita, che non li temevano, che si sapevano battere, che avrebbero reso loro pan per focaccia e, mentre i malcapitati fuggivano lungo il pendio roccioso verso i commilitoni riposanti (57) essi rientravano orgogliosamente nella Terra. Era la prima scaramuccia di cui parla il Gonzaga. Adunque non ci fu crudeltà villanesca.
        ______________________
        (54) L'oppidum di Vallata ebbe pure i suoi fossati. Ce lo assicurano i nominativi delle sue vie:
                Via Fossato di Levante (oggi XX Sett.); di Ponente: ( oggi « V. Umberto 1 »), di Mezzogiorno che ancor conserva l'antico nome. A nord aveva il «Rivellino» e ne conserva il nome.
        (55) Presumptuosamente.
        (56) Il testo è leggermente ritoccato.
        (57) Dopo varie ore di marcia, avevan bisogno di riposo.

               

PERCHE' TANTA AVVERSIONE
PER GLI ARAGONESI?

        Meraviglia il fanatico parteggiare dei Vallatesi per la Francia e la irreducibile avversione per gli Aragonesi. Dopo quanto abbiamo detto parlando dell'Arciprete, non vi dovrebbe più essere meraviglia.
        Un Re d'Aragona — Ferdinando I — non molti anni prima li aveva premiati donando all'Università Vallatese la Difesa di Mezzana Valledonne (58) « attesi i grandi servizi » resigli. Ma la voce della gratitudine, in essi era stata soffocata dall'odio. Perchè mai? Se Vallata fosse stata francofila e aragonofa, il suo atteggiamento potrebbe definirsi un impulso di antipatia, una più o meno transitoria disposizione di animo: ma tutti i paesi vicini erano ostili ad Aragona: ricordiamo la piccola Castello, per la quale fu preparata quella spedizione punitiva che, per quanto di sopra s'è detto, non ebbe più luogo. La crudeltà aragonese aveva eliminato l'affetto delle popolazioni che si erano votate alla Causa Francese.
        Dopo la tragica, crudelissima fine del loro Feudatario, Pirro del Balzo, i Vallatesi, inorriditi, sentirono avversione ed odio verso la Dinastia aragonese. Inculcavano e rafforzavano in essi l'odio i guardini, i fattori, i curatoli del Feudo, l'Arciprete Donn'Angelo De Antonello, il Sindaco (Mastro Prospero) e i suoi Decurioni.
        Se gli Aragonesi non fossero stati odiati — e tanto — i Francesi avrebbero trovato resistenza: Popolo e Baroni si sarebbero battuti pel loro Re; Carlo VIII non avrebbe occupato un Regno senza sparare una cartuccia e, forse, non sarebbe neanche calato in Italia!
        Il movente dell'odio vallatese era comune a quasi tutte le Università dello Stato ed aveva una motivazione ragionevole, quindi, umanamente giustificabile.
        ______________________
        (58) Difesa — grossa estensione di terreno riservata ai pascoli del Feudatario o del Sovrano.

CHIANCHIONE

        L'eccidio fu consumato fuori Porta Nova — detta anche del Tiglio — dove la lotta era stata, più che accanita.
        La località prese il nome di Chianchione, voce dialettale che deriva dal verbo « chianchiere » (59) che significa « grande pianto » (60).
        E' certo che la denominazione « Chianchione » nel corso dei secoli non ha subito alterazioni: CHIANCHIONE si legge sulle lapidi poste ai dite capi della via che ne porta il nome; CHIANCONE si trova scritto nei libri parrocchiali del '600, del '700 e dell'800 con maggior frequenza (61): Chianchione si legge in altri manoscritti: (62) il popolo dice ancor oggi « Chianchione ».
        Allorchè gli uomini che, eroicamente si erano battuti sulle mura, sopraffatti dai Veneziani, furono da questi trascinati spietatamente fuori le mura per essere « tagliati a pezzi » le donne che si erano rifugiate nel Castello, (63) ne uscirono con i pargoli al seno e, con gran pianto (Chianchione) invocarono la clemenza del vincitore.
        Per ordine del Marchese, esse furono trascinate in luogo sicuro « con i petti piccolini » per salvaguardia del loro onore; (64) ma, appena libere, con pianti ed urli disperati, si precipitarono nel luogo del massacro, imporporato dal sangue dei loro cari.
        Il 14° giorno di quel tragico Maggio 1496, allontanatisi i nemici, i profughi ritornarono piangendo alla loro « Padria ».
        Visitate le ruine, essi si recaron nell'infausto luogo ove le donne piangevano dirottamente. A quella vista miseranda proruppero in pianto — quel tradizionale, caratteristico pianto vallatese che è un insieme di urli, di frasi angosciate profferite in cadenza, talvolta pestando i piedi, e sempre con una mimica che, al tragico unisce il comico: una cantilena individuale, tante voci discordi che, unite, formano un coro fragoroso ed orribile. Moltiplichiamo per cento questo genere di pianto, proprio delle camere ardenti, ed avremo un'idea del « chianchione » di quel giorno.
        Il pianto si ripetè individualmente ogni volta che si passava per quel luogo insanguinato, o vi si recava di proposito; collettivamente nel 6 Maggio di ogni anno, dopo la Messa funebre anniversaria.
        Il Chianchione fu così, per molti anni, qualcosa come la celebre « Muraglia del Pianto » per Gerusalemme; fu, effettivamente il luogo del pianto, e gli si addiceva il nome di Chianchione.
        ______________________
        (59) La voce «chianchiere» è oggi quasi completamente caduta in disuso, perchè si dice «chiangere» e questo è frutto dell'attuale felice evoluzione linguistica che, pian piano ci allontana dal dialetto -
                Es. «Lu figliuolo chianchieva» - Il bambino piangeva.
        (60) Non deriva da «chianca» (grande macello).
        (61) Esempio: « Vitus Antonius de Errico . Anno Domini 1773. die 22 Febrariu... necatus fuit ictu securae in capite in loco ubi dicitur a vulgo Chianchione » Arch. pair. di Vallata . Liber mortuorum 1772 - 1790 - folio 6.
        (62) Dottor Giov. Di Netta. Memorie gentilizie della Famiglia Di Netta. Manoscritto del 1796:
                « Chianchione è quel sobborgo di questa Terra (quando il Di Netta scriveva il Chianchione era « extra moenia ») che giace fuori di Porta del Tiglio e va a terminare poco in qua della, Cappella di S. Rocco,
                comprendendo i rioni di S. Maria, Arco di Chianchione: Vicinato (oggi via), Mastro. Prospero ».
        (63) Chi sa quante, sulle mura, combatterono a fianco degli sposi e dei fratelli.
        (64) Speriamo che, veramente e dovunque esso sia stato salvaguardato, ma non lo crediamo. In tempo di saccheggio, la soldataglia rompeva ogni freno, considerava la donna una preda di guerra! S'infischiavano degli ordini.

DOVE FURONO SEPOLTE LE VITTIME DEL MASSACRO?

        Non lo sappiamo con certezza (65). Dobbiamo fare delle congetture che, del resto, nulla hanno d'inverosimile e stare alle rivelazioni del terreno.
        Non è ammissibile che venissero sepolte nella Chiesa parrocchiale, nè in quei vasti sotterranei detti « trabute » (66) perchè doveva essere assai malagevole, se non impossibile, trasportar tanti cadaveri attraverso le macerie fumanti del rogo immane. Essi furono sepolti un po' dappertutto, nelle prossimità dell'eccidio, oggi occupate in gran parte da fabbricati.

 

RILEVAZIONI DEL TERRENO

Non mancano:
        1° — Sepolcreto di Santa Maria. Praticandosi degli scavi, nel 1930, sul colle di Santa Maria, si rinvennero molti scheletri in fila, l'uno accanto all'altro, e se si fossero continuati gli scavi dalla parte che guarda la Cappella di S. Rocco, altri se ne sarebbero scoperti. Quei cadaveri furono sepolti ordinatamente, contemporaneamente, e in tutto come nel cimitero di Guerra della Campagna napoleonica presso Mariano, (Isonzo) con le braccia piegate sul petto (67).
        Avemmo agio di vederli. Giacevano tutti nel medesimo modo, senza spazi liberi. Due soli giacevano in senso inverso, per avere i piedi ove gli altri avevano il capo. Le loro ossa bianche, le dentature integre e sane, l'alta statura rivelavano la loro giovane età e l'attitudine alle armi. Erano — riteniamo — e non può essere altrimenti — le reliquie d'una parte dei difensori di Vallata; uno dei quali fu colto dall'obiettivo fotografico prima che si disfacesse per trasportarne le ossa al Camposanto, come s'era fatto per gli altri.
        2° — Sepolcreto di S. Andrea. Ma vi sono ben altri e chiari indizi appariscenti dalla logora coltrice di terra. S'è detto di sopra che, i Veneziani sfogarono la loro prima ira sulla minuscola Vallata Monastica; la quale, per essere « extra moenia » e in luogo inadatto alla difesa, non fu più riedificata.
        I morti di quel luogo furono sepolti a destra della Chiesa di S. Andrea Apos.; guardando l'abitato e proprio dove c'è ancora un'aia.
        Ivi, anni or sono, emerse un buon numero di scheletri, indubbiamente sepolti nel medesimo tempo perchè l'uno era accosto all'altro, ma disordinatamente, alla rinfusa; evidente opera di villani scampati alla strage. I crani riempiti di terra mostravano di essere stati tagliati dalle mazze dei villani nell'annuale ripulitura dell'aia. Distinguevasi bene il loro bianco profilo nel bruno scuro della terra. Fra gli altri., notammo due crani di adolescenti, e questo conferma che, il Marchese di Mantova fu veritiero nel dire che scamparono all'eccidio solo le donne e i bambini.
        ______________________
        (65) Il catalogo delle vittime o non fu fatto (e chi doveva farlo se l'Arciprete era in potere dei Veneziani?) o con tanti altri documenti, fu incenerito nell'incendio che l'11 Marzo 1719 « divorò » si legge negli Statuti del Clero, la Ch. parrocchiale — ed anche in: « Era novella » Deliberazione comunale del 25-5-1962.
        (66) Cripte - ossarii.
        (67) Noi fummo a Mariano più volte, durante la prima Guerra mondiale e ci fermammo più volte a contemplare gli scheletri apparsi durante la costruzione d'una trincea.

       

ENTITA' DELLA PREDA
IL ROGO IMMANE

        I Vallatesi non erano dei nullatenenti. I soldati del Gonzaga saccheggiarono « un numero infinito (68) de bestie, (69) arzenti ed altre robe de grande valore » (70). Cosi il Cronista. Il Mirabelli parla addirittura di tesori. Il tesoro della Chiesa Madre fu certamente saccheggiato e, con esso, corredi nuziali, indumenti, provviste... poi, quando tutto fu portato via e le case furono ben bene pulite, vi si appiccò il fuoco. E' vero che, nè il Giovio, nè il Marchese di Mantova ne fanno cenno, ma l'incendio non si deve mettere in dubbio.
        Il Gonzaga parla di « totale disfactione » (totale distruzione) e questa presuppone l'incendio. Il Mirabelli scrive: « Il tutto anderà a fuoco, a sangue ». I nostri vecchi confermavano: «Vallata fu messa a sacco e fuoco » tra le urla dei soldati ubriachi che, nel sacco avevano guadagnato « Tormento (frumento) et vino in grande quantità » il fuoco fu appiccato all'abitato e, presto tutto fu preda delle fiamme.
        I Veneziani sostarono presso le rovine di Vallata « per octo giorni perchè sopragionse un sinistro tempo » cosa non infrequente a primavera, cioè piogge dirotte e continue.

       

TOTALE DISFACTIONE!

        E' il Comandante nemico che lo dice!
        « Non ci rimase pietra sopra pietra... Fu una gran violenza diabolica, che non vi rimase pietra in piedi... fu uno spettacolo di forza che i convicini s'arrendessero » Cosi il Sacerdote Don Domenico Antonio Mirabelli, il quale, così continua: « Il tutto anderà a fuoco, a sangue...
        Spalancate le porte, rovinate le mura, gettata al suolo la Terra, diroccati i palaggi e i sacri tempy, morti o fuggiti gli habbitanti, sacchegiati i Tesori, vi trionfò solo l'orrore et vi passeggiò la morte... e fino al giorno d'oggi v'è la nomina fresca della gran rovina partorita » (71).

LA CHIESA

        Fu saccheggiata e bruciata. Don Giovanni Borgia Duca di Gandia (pronunzia: Gandi-ia) e suo nuovo Feudatario (72) la « ristorò dalla miseria del sacco » (73). I lavori di riparazione e ricostruzione durarono fino al 1499, come appare dalla seguente epigrafe collocata alla destra del portale del vecchio ingresso minore, (74) oggi murato (75).
        ____________________
        (68) Esagerazione!
        (69) Asini, muli, giumente, buoi, capre, ovini, conigli, polli...
        (70) Ornamenti muliebri.
        (71) Don Dom.co Ant. Mirabelli . Manoscritto citato.
        (72) Figlio di Alessandro VI - Re Federico III - già Principe di Altamura gli donò il feudo di Vallata.
        (73) Donò alla nostra Chiesa: il feudo di Salitto, l'jus terreggiandi e il molino che fruttò la rendita di tomoli annui di grano. Staturi del Clero.
        (74) A destra entrando.
        (75) E' oggi la Cappellina dell'Immacolata Concezione.

A. D. MCCCCLXXXXVIIII

REGNANTE REGE FEDERICO
DOMINANTE DUCE GADIE

        Questa epigrafe ricorda certamente la sua riapertura al Culto e la sua seconda consacrazione: 2 luglio 1499 (76).

IL CASTELLO

        Più non risorse! Nel suo piazzale detto « Largo del Castello» circa un secolo e mezzo dopo furono edificate varie case, tra cui, quella di Medoro Schiavina (77) e questo prova la non avvenuta ricostruzione.
        Sulle rovine del Castello si edificarono le case di D. Generoso Cataldo e di don Domenico suo zio (oggi Laurelli e Tullio eredi dei Castaldo) (78). E' fuor di dubbio che, più vani del Castello per essere in buono stato furono riparati dai Signori Cataldo, come ad esempio il salotto e il vano attiguo in cui le dame ed i cavalieri deponevano i loro mantelli, ambienti con muri dello spessore di un metro e venti! (79).
        Restano nel cosiddetto «Giardino» (eredi Laurelli) le reliquie della torre. Il Giardino è adiacente a Via «Sotto corte». Costituiva la «Curtis» longobarda, in cui il Cappellano amministrava la Giustizia (80).
       

RISURREZIONE LENTA

        La distruzione e l'eccidio avvennero in piena primavera: 6 maggio 1496.
        Non fu difficile ai superstiti costruirsi un abitato alla buona con pietre ed argilla, o fabbricarsi delle capanne con paglia stoppa e frasche, ovvero scavarsi un rifugio nel sabbione nel conglomerato pliocenico, così frequenti sia nell'oppidum che fuori. Innumerevoli sono infatti le grotte sia in Vallata che nelle sue adiacenze: i Vallatesi erano delle buone talpe! Le mura furono riparate. Esistevano ancora nel 1749. (81) Sulle rovine di molti edifici crebbero indisturbati rovi ed ortiche. Nel 1575 — cioè 79 anni dopo — vi erano ancora molte case « dirute e inutili ». La notizia è presa dall'Archivio di Montevergine, in cui si conserva una procura al Padre Giovan Giacomo Rogerula « per vendere i beni stabili diruti e inutili del Monasterio di Vallata ».
        Abbiamo ricercato nel documento il sito dei ruderi « In dicta Terra... In loco ubi dicitur a la piaza pubblica... intra dohanam dictae Terrae Vallatati et plateam pubblicani... in viam publicam ex alita lateribus » (82).
        V'erano, quindi, più ruderi di proprietà della Badia di Montevergine nella Piazza, nelle pubbliche vie, nella Dogana: quanti altri ce ne saranno stati di proprietà private?... Quanti di nessuno, per esserne morti i proprietari? Infine, dal Mirabelli sappiamo che, nel 1749, cioè 253 anni dopo, in altri punti del paese eranvi ancora tracce dell'antica rovina!
        ________________________
        (76) E' questa la seconda sua consacrazione. La prima ebbe luogo in tempo remoto in un cinque Febbraio -Capitolari... Cap. XXVI e Saponata D. Arturo - La Chiesa di S. Bartolomeo Apostolo in Vallata.
        (77) Memorie Gentilizie della famiglia Di Netta.
        (78) id. id.
        (79) La famiglia Cataldo si estingue con la vivente Donna Michelina Vedova Laurelli. Gli altri Cataldo sono originari di Castelbaronia.
        (80) Ci rimane la frase originale vernacola: « Ti cito alla Corte!» cioè «Ti chiamo in Giudizio!».
        (81) Capitolari - ossia St. del Clero - Cap. XXI - Delle processioni Es.: « Il giorno di S. Bartolomeo s'esce per la Porta della teglia verso levante alla porta dello Torello ove entra...». Il giorno di S. Antonio, di S. Michele, del Rosario « à torno à torno la Terra: dalla porta da cui si esce si rientra ».
        (82) Archivium Mortis Virginis . Vol, 125 - fol. VIII.
       

FIOCCANO LE SOTTOMISSIONI!

        Gli abitanti dei paesi vicini, terrorizzati per la distruzione di Vallata e dell'eccidio dei suoi abitanti, si affrettarono a sottomettersi. Nella medesima notte del 6 Maggio, Carife consegnò al Marchese di Mantova le chiavi della Terra. Il giorno seguente, mentre il Gonzaga scriveva alla Consorte, arrivarono i parlamentari di Vico (oggi Trevico) Castello, (83) e Bisaccia per giurare obbedienza al Re e sottomettersi(84). In seguito si sottomisero S. Angelo dei Lombardi ed altre terre. Nel contempo, le Università sottomesse ricorrevano al Marchese chiedendo giustizia e protezione. La tremenda punizione di Vallata raggiunse così il suo scopo; intimidire le popolazioni per indurle alla sottomissione.
        ____________________
        (83) Oggi Castelbaronia.
        (84) Arch. di St. di Mantova.

VALLATA FU PRECEDENTEMENTE SACCHEGGIATA DAI FRANCESI?

        Nulla avremmo più da dire. Abbiamo però stabilito — e lo abbiamo detto innanzi — di confutare quanto da Storici, Cronisti locali e dalla Tradizione ci vien riferito contro la logica ed evidente realtà dei fatti e ci accingiamo senz'altro a farlo.
        Il disordinato scritto del Mirabelli termina con questo periodo che, se invece di stare in coda fosse in testa, ne formerebbe il titolo: « Memoria di Vallata antica che fu sconcassata p.a (prima) dal Generale francese, doppo dal Duca di Mantua del anno 1495 » Queste parole, per sè, non hanno bisogno di interpretazione. Ci fanno però dubitare della loro integra veridicità.
        Dicevano i nostri vecchi, più di 50 anni or sono (e, tra essi ricordiamo la nostra nonna materna Donn'Angela Rosa Pavese, deceduta ad 86 anni il 21-1-1911) che, Vallata era stata saccheggiata dai Francesi. Quirino Trivero (85) nel paragrafo su Vallata scrive: « Questo villaggio, nel secolo XV venne saccheggiato e rovinato dai Francesi condotti da Carlo VIII alla conquista del Regno di Napoli » e, nella recente « Piccola Guida della Prov. di Avellino » si legge « Venne devastata dalle truppe di Carlo VIII nel 1493 »!!! (86). Ed ancora, in «Scritti vari» Tommaso Mario Pavese, a pag. 158, parlando della Chiesa Madre di Vallata, dice che fu bruciata dai Francesi prima del 1493... (87).
        Come vediamo, non son poche le testimonianze del sacco e della devastazione di Vallata per opera dei Francesi, ma noi non vi prestiamo fede. Anzitutto, osserviamo che, nel 1493 Carlo VIII era in Francia. Egli calò in Italia nel 1494, non prima: quindi le disavventure di Vallata, nel 1493 erano solo in « mente Dei »!
        I Francesi non devastarono Vallata. E' indiscutibile che la sua distruzione, insieme all'eccidio furono opera del Marchese di Mantova: ci bastino: 1. l'autorità indiscutibile di Paolo Giovio, del Cronista di cui spesso si è parlato vanti; 2. dello stesso Francesco Gonzaga che lo attesta nelle sue lettere! Ora, perchè i Francesi vengono accusati di aver saccheggiato e rovinato Vallata? Per rispondere a questo interrogativo si rifletta; in quel tempo c'erano sul Regno di Napoli i Francesi; per un pezzo si parlò di essi e de' gerori di cui fu causa la infausta calata di Carlo VIII in Italia e così si arrivò a scambiarli e a confonderli coi loro avversari. L'unico a ricordare il Marchese di Mantova è Don Domenico Antonio Mirabelli. Circa il racconto del Mirabelli, dobbiamo pur rilevare che, costui, nel suo breve scritto, ha delle sviste e dei « qui pro quo » non infraquenti... Doveva essere abbastanza distratto... Un esempio, e ce ne convinceremo. Sappiamo che, nel 1694, « il terremoto devastò Vallata e che 42 persone morirono tra le macerie (88). Il Mirabelli vuole ricordare ai posteri il disastro: si serve di queste parole: « Nel 1694 cadde sotto le rovine d'un fierissimo Francese »! E' evidente che, qui, Francese sta per terremoto.
        Ora tenendo conto degli involontari scambi di parole del Mirabelli, si può ritenere che, egli, con le parole « Generale francese » si riferisse al Generale tedesco che, nel 1199 saccheggiò Vallata, cioè Marcovaldo.
        Sostituendo il vocabolo « tedesco » a quello «francese » la frase del Mirabelli diventa storicamente precisa: « Memoria di Vallata antica che fu sconquassata prima dal Generale tedesco (Marcovaldo), e dopo dal Duca (Marchese) di Mantova ».
        Il sacco francese non ebbe luogo. Se i francesi, pochi mesi prima avessero — come scrive il Mirabelli — sconquassata Vallata, i Vallatesi non avrebbero così accanitamente parteggiato per loro! All'arrivo dei parlamentari del Gonzaga si sarebbero immediatamente sottomessi, ed avrebbero così evitato quella tremenda lezione che, più blandamente forse, doveva avere Castello. Il loro fanatico attacco alla causa francese ci accerta che, nessun danno fisico o morale fu loro arrecato dai soldati di Carlo VIII
        ______________________________
        (85) Quirino Trivero - Corografia della Provincia di Avellino.
        (86) Piccola Guida della Prov. di Avellino - Avellino Tipografia Pergola.
        (87) Tommaso Mario Pavese - Scritti vari - pag. 158.
        (88) Arch. Parr. di Vallata.


IL FEUDATARIO DI VALLATA PARTEGGIO' PER CARLO VIII?

        E' il Pennetti che lo dice. « Quei di Vallata, o per meglio dire il Feudatario di Vallata parteggiò per Carlo VIII. Vallata ne pagò il fio ».
        Il Fendo di Vallata apparteneva allora a D. Federico d'Aragona, secondogenito di Ferdinando I° e fratello di Alfonso II. I Vallatesi non gli ubbidivano, perchè ribelli. Quale membro della Casa Regnante più prossimo alla successione, al trono, in quel momento avea da pensare a ben altro!
        Ora, in risposta allo storico, ci domandiamo: Poteva D. Federico parteggiare per i Francesi, contro la sua Casa? Contro il suo sangue? Era persona capace di chiudere un occhio sulla cosa lasciando che la Consorte (ch'era figliuola di Pirro del Balzo) lo facesse?
        Dobbiamo stare per la negativa, e senza dubbio alcuno. Don Federico era buono, leale, prudente. Ai Baroni che, nel tempo della Congiura gli offrirono la Corona del Regno, rispose: « Indarno cerca aiuto e fede negli stranii chi co' suoi è disleale ». Preferì essere detenuto (sequestrato) ma sdegnò tradire il suo sangue (89). Non è possibile che in seguito lo tradisca.
        Adunque, non fu il Feudatario a parteggiare per i Francesi, ma la Magnifica Università di Vallata, e, così clamorosamente e imprudentemente da buscarsi la tremenda lezione che sappiamo.
         ______________________________
        (89) Federico III, appena conobbe il tradimento dello zio (Ferdinando il Cattolico) che aveva stabilito dividersi il di lui Regno coi Francesi, si rifugiò in Francia, ove ottenne la Contea d'Angiò.
                Morì tra le braccia di S. Francesco di Paola, a Tours, nel 1504.
                P. Gennaro Gamboni S. J. Ischia e il suo Poeta Camillo Eucherio Quinti S. J. Stabil. litogr. editoriale -Napoli - pag. II.        

D. ARTURO SAPONARA

__________________________________________

Pagina Precedente Home