Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Considerazioni generali sul Principato d’Ultra.

Capitolo I
__________________________________________

1.1 Considerazioni generali sul Principato d’Ultra.

        Il Principato d’Ultra, ancor prima di essere  un’importante provincia del Regno delle due Sicilie, durante il periodo degli Angioini, derivò dalla suddivisione dell’unico Principato longobardo nel mezzogiorno d’Italia, incuneato tra le città di Benevento e di Salerno, entrambe sedi di arcidiocesi. Così come rilevarono diversi ed autorevoli autori dell’epoca come Giustiniani, Pacichelli, Summonte, la popolazione di quel Principato fu sempre abbastanza fluttuante nel tempo ma, comunque sia, verso la fine del 1700 aveva più di trecentomila abitanti e la città di Vallata ne faceva parte. Come riferito in una monografia da Rossi1, in quella città dell’Alta Irpinia, a metà del XVI secolo c’erano circa millesettecento abitanti che declinarono bruscamente, come del resto in tutto il Regno di Napoli, per la terribile peste del 1656 e, come riferì  De Paola2 , Arcipresbiter di Vallata, dalla “relatio ad limina” di quel periodo, si passò a soli 478 sopravvissuti con la perdita di 1200 unità ma, nel giro di quattro anni gli abitanti risalirono a seicentocinquantuno. Seguendo le statistica dei censimenti di quella zona del Regno di Napoli, verso la fine del XVIII secolo, i vallatesi arrivarono a tremilaottocento e, dopo circa un secolo, a tremilasettecento, mentre dai quattromilacentotrenta del 1928 nel 1961 arrivarono a cinquemilacentodiciassette. Ma, per attualizzarci ai tempi moderni, verso la fine del XX secolo di abitanti se ne contarono tremilacinquecentosettantotto, per finire all’ultimo censimento nazionale Istat, in cui ve ne furono tremilacentotre. Sin dal XVI secolo e fino all’abolizione del sistema feudale del 1806, il Principato d’Ultra vide come suo capoluogo la città regia di Montefusco e, solo dopo un po’ di tempo da quell’importante data che segnò l’inizio di un periodo di grandi riforme, Avellino cominciò ad assumere il ruolo e le funzioni che ancor oggi conserva. Quella scelta di Montefusco fu dettata dalla sua posizione strategica, posta su di un’altura che dominava l’avellinese ed il beneventano, oltre ad essere una sicura porta d’accesso sul Tavoliere ed unica terra demaniale regia in tutto il territorio Irpino-Sannita. Così come riferito dal Giustiniani3, quel capoluogo fu per molto tempo posseduto dai Principi Gesualdo feudatari di Venosa che in loco avevano istituito il Monte della Misericordia fino a che fu rilevato dal Re Ferdinando IV e portato a Napoli. Il periodo che andò dal 1806 al 1815, conosciuto come il “Decennio Francese”, ebbe un’enorme rilevanza economica, sociale e culturale per il meridione d’Italia, in cui mutarono sia le istituzioni che la società; furono create le Intendenze provinciali, antenate delle attuali prefetture, fu creato il catasto provvisorio, l’ufficio per la registrazione delle ipoteche e degli usi civici nonché quello per le organizzazioni delle Universitas (=comuni) e quelle trasformazioni non furono smantellate neppure dal ritorno sul trono dal Re Ferdinando di Borbone nel 1815, allorquando nella sola provincia di Foggia furono “messi sul mercato” 350 mila ettari di solo pascolo, fatto che stravolse la fisionomia economica di tutta la sua Provincia. La motivazione che mi ha portato a scrivere qualcosa circa i documenti in mio possesso è stata dettata dal fatto che il sottoscritto, pur essendo nato a Foggia, ha delle origini di famiglia, da parte di entrambi i genitori, che sono molto radicate nel territorio irpino da moltissime generazioni per cui, sapendo che quelle paterne erano della città di Vallata, concentrandomi sui personaggi e sui luoghi che ruotavano intorno alla Chiesa di San Bartolomeo, San Vito, San Carmine, Cappella del Santissimo Sacramento, Chiesa del Purgatorio e sapendo i cognomi storici come quello dei Novia, Batta, Cataldo, Pavese, Zamarra, Sauro, Gallicchio etc.., altri li ho appresi leggendo gli atti ed i documenti, sono riuscito a mettere insieme qualcosa di inedito. Le storie hanno riguardato i due filoni principali dell’economia dell’Alta Irpinia, l’agricoltura e la pastorizia; infatti, i terreni di tipo prevalentemente argillosi e l’orografia di tipo montuosa e collinare in cui i pendii sono sempre stati di difficile lavorazione, hanno contribuito e non poco alla vocazione a pascolo naturale di quel territorio. E’ facile capire come in quelle zone, con quelle tipiche caratteristiche, ci fossero tradizioni pastorali millenarie sviluppatesi in tutto il Sannio favorito dalla presenza di boschi e di macchie tipiche di natura mediterranea che tanta influenza hanno avuto su tutta la popolazione irpina. Nel Principato d’Ultra la maggior parte dei feudatari furono assenteisti, poche volte anche illuminati e ciò accadde ad esempio a Serino e Solofra dove diedero notevole impulso alle attività di tipo terziario collegate a quella armentizia, la concia delle pelli, anche grazie all’abbondanza dell’acqua ed alla vicinanza della “Strada Regia delle Puglie” che collegava Napoli alla Capitanata attraverso la pianura di Avellino dove si diffuse l’antica arte della lavorazione della lana. L’attività artigianale in tutta l’alta Irpinia nel 1.700 era modesta, prevalevano le attività di servizio diretta alla produzione dei prodotti del suolo e della pastorizia, meno diffusa l’attività diretta verso la costruzione di oggetti e manufatti, fatta eccezione per la lavorazione del ferro e dei laterizi.

        A Vallata, molte erano le figure di pecorari, bracciali, massari di campo e di pecore, vaticali, vaccari, gualani, ferrari, chianchieri, formaggiari, tavernari, mulinari, fabbricatori, vignaioli, trainieri, barilari, sarti, mulattieri, fittavoli di terre salde, coloni, guardiani di masserie, ma tutto girava sempre attorno alle pecore ed alla ricchezza che da esse veniva prodotta ed i cui proprietari erano chiamati  “locati”.
        I massari di campo, cioè i proprietari terrieri, furono delle figure centrali nel panorama economico e sociale dell’epoca non solo a Vallata ma in tutto il Mezzogiorno d’Italia poiché detenevano e facevano coltivare, per definizione, oltre 200 versure di terre (1 versura=12.263 mq), svolgendo l’unica attività redditizia esistente, ovvero, il nucleo intorno al quale, in epoca successiva, si consoliderà la classe borghese agraria dell’800. Molti di quegli “ex massari” si trasformarono in professionisti ed imprenditori di un certo spessore ma, in tutto il corso del 1700, la società era ancora caratterizzata nei suoi strati più alti da un limitato numero di esponenti della vecchia feudalità e della nobiltà provinciale, integrato da alcuni esponenti del clero e da individui di estrazione forense i quali concentrarono nelle loro mani grosse fortune patrimoniali. Per secoli, la pastorizia fu l’unica e vera ricchezza del Mezzogiorno d’Italia e della città di Vallata, cui s’accompagnò quella dell’allevamento delle vacche e dei cavalli che servivano anche come mezzo di locomozione per il trasporto merci e per l’accompagnamento delle varie mandrie sui demani del Tavoliere. Oltre a quell’attività zootecnica c’era, sia pure in forma più limitata, un’agricoltura attorno alla quale operavano quelle complementari dell’artigianato, del commercio e di altre professioni di pubblica utilità, come il notaio, il dottor fisico(=medico), il dottore in utroque jure(=avvocato), il compassatore(=geometra), il dottore speziale (=farmacista), il giurato, il bottegaio, il barbiere etc. Dall’esame dei documenti è venuto fuori quello che già intuitivamente si poteva immaginare, la proprietà terriera era eccessivamente frammentata, ma non mancavano le vigne anche di primo impianto(=pastini)  per fare del buon vino  ed appezzamenti dedicati ad alberi da frutto oltre che a castagne e querce, mentre i seminativi erano già un affare di poche famiglie ma, il vero latifondo, era costituito dai beni feudali legittimi, usurpati e burgensatici che il Duca possedeva. Ciò che non possedeva il feudatario di turno, era ad appannaggio del Capitolo della Cattedrale, del Clero e delle Venerabili Cappelle (= anche la difesa di Toro di Montevergine era ad appannaggio dei priori di Vallata), ma anche di alcune famiglie di benestanti che vantavano vasti territori procurati con l’aiuto di qualche sacerdote e meglio se alto prelato di Sant’Angelo dei Lombardi o Bisaccia. Le entrate dell’Università di Vallata derivarono, invece, dall’affitto di alcune case o di alcune proprietà demaniali destinate all’allevamento ed al pascolamento degli animali come, ad esempio, le cosiddette “Difese”, concesse nei tempi antichi come “Real privilegio” dal monarca di turno o dalla riscossione della tassa detta del “terraggio” che era applicata a tutti coloro che ponevano a colture precarie alcuni lotti di terreno demaniale che non avessero alcuna recinzione e che fossero aperti. Tra i possedimenti di quell’università di Vallata, ai tempi del feudalesimo, devono essere ricordate la Mezzana delle Perazze, la Mezzanella, il piano delle Rose, Stradella, Padula, Mezzana Valledonne e Carrara Maggiano, tutte concesse in affitto ad annuo censo o tramite l’esazione della tassa sul “numero degli animali” che pascolavano su quelle proprietà e segnate sul libro “Inter Cives” che era dato in dotazione dalla Camera della Sommaria di Napoli. Così, dall’analisi dei contenziosi che si svolsero a Foggia presso la Regia Dogana ho notato che molti cognomi che esistevano già nel 1600, sia pure con leggere variazioni, esistono ancor oggi a Vallata e dintorni e leggendo alcune storie, sono certo che alcuni cittadini potranno riconoscersi come loro discendenti. Pertanto, consapevole anche di ciò, ho riportato fedelmente il contenuto essenziale dei documenti ancora leggibili e molti dei quali scritti su pergamene di centinaia d’anni, eliminando alcune forme antiquate, superate ed in totale disuso, facendo attenzione a non esprimere mai giudizi di parte. Ho dovuto solo ricostruire delle forme in modo più articolate e moderne, impresa non facile, ma che non alterassero il senso delle frasi ed ho proceduto così, perché avrei tanto desiderato, leggendo atti antichi e sbiaditi e molti in forma latina decadente, che qualcuno l’avesse fatto per me. Ma, devo confessare che la raccolta di episodi ricchi di tanta umanità mi ha fatto appassionare ai personaggi incontrati, vallatesi e non, tanto che dopo un po’, mi sembrava di conoscerli personalmente e non è stato facile rimanere distaccato da loro e da quel mondo fatto di soprusi e malversazioni. Credo davvero che oggi, dopo centinaia di anni, ci si possa ritrovare tutti assieme intorno ad una storia di comune identità, indipendentemente da quello che fu l’operato di quei personaggi di cui racconterò  e che ha visto molti dei nostri ascendenti, protagonisti e vittime di uno stesso iniquo sistema basato sulla servitù feudale. Non sono stati pochi quei cittadini o meglio, per l’epoca dei fatti, quei sudditi che hanno subito angherie e soprusi da nobili, potenti e falsi amici ed a loro dovrebbe esser rivolta la nostra sia pur inutile comprensione, verso altri, quelli di famiglia, c’è stata da parte dell’autore, un’affezione morbosa ed un minimo di coinvolgimento psicologico. Le storie sono state incentrate prevalentemente su quel territorio dell’Alta Irpinia ed ebbero inizio dalla fine del 1500, percorrendo centinaia di anni di storia che ha collegato Vallata a Foggia da un versante e Vallata a Napoli dall’altro. Diversi furono i feudatari che si susseguirono, dai Del Tufo a Giovanna Della Tolfa, da Domenico I e Filippo Bernardo I a Domenico II, da Filippo Bernardo II a Domenico III e Domenico IV, la maggior parte dei quali appartenevano alla famiglia degli Orsini, fino a Don Filippo deceduto nel 1874. Molti erano gli intrecci familiari e tra i parenti più prossimi degli Orsini c’erano i Caracciolo, nobili tra i più famosi dell’epoca e così, ad esempio, Don Bernardo Orsini era sposato in prime nozze con Giovanna Caracciolo principessa di Torella. E, proprio queste due  famiglie di feudatari, s’impegnarono a formare per la prima volta, nel 1734, un esercito che fosse interamente del Regno di Napoli per le esigenze di Carlo III ed in quello sforzo coinvolsero tanti sudditi del Principato d’Ultra; ognuno di quei nobili cavalieri, combatteva con i propri sudditi riuniti sotto lo stendardo di riconoscimento del loro casato. Agli ufficiali che combatterono quella guerra furono concessi dei particolari privilegi sia di natura economica, come per prassi ed, a volte, anche dei segni di riconoscimento, degli stemmi borghesi, che altro non furono che una identificazione, un logo o una griffe dei tempi moderni che avesse un impatto visivo migliore rispetto ad una semplice lettura del nome.  Ma, ancor prima di quella data, cioè ai tempi delle Signorie, attorno all’anno mille, si ricordano sempre personaggi che nella storia si sono avvicinati alla cavalleria, costituendo quello il miglior modo per passare per nobile; nel XIII secolo, almeno in certe regioni, l’identità nobiltà-cavalleria sembrò essere acquisita, tant’è che la maggior parte degli storici concluse che uomini provenienti dagli strati non nobili, in particolare i contadini allodieri, cioè liberi da obblighi feudali, riuscirono, tramite il servizio armato ad infiltrarsi negli strati inferiori del’aristocrazia, e con questo mezzo, poterono proseguire la loro ascesa sociale. Non furono pochi coloro che, conoscendo l’arte dell’andare a cavallo, dotati di grande capacità di spostamento, meglio se avessero avuto un buon livello culturale, divennero gli agenti di fiducia dei Feudatari locali che utilizzavano i loro servigi per imporre tasse, gabelle e far rispettare l’ordine nei loro possedimenti burgensatici. Per molto tempo, siccome la maggior parte degli stemmi era riconducibile alla nobiltà e spesso coordinato da sovrani, si è pensato falsamente che l’araldica coincidesse solo con la nobiltà ma ciò non era assolutamente vero, perché, ad esempio, a Vallata, ho visto che vi sono tanti portali ed iscrizioni meritevoli di essere approfonditi, recanti immagini varie che andrebbero maggiormente studiati perché di grande bellezza, così come ricorrente è l’insegna dell’Orso che dovrebbe indicare i feudatari dell’epoca, che nel loro blasone araldico ne avevano due identici; ma, comunque sia, era chiaro che in loco, a Vallata e dintorni, c’era una maestranza molto qualificata di scalpellini della pietra che materialmente li realizzò. Anche sul portale di casa degli antenati del sottoscritto che già conoscevo perché riportato dagli eredi anche nella città di Ariano Irpino e Flumeri, compaiono tre montagne su cui sorge un albero con un serpente, con un Leone sulla parte destra ed un galletto a sinistra(Foto 1) ed una copia di quello stemma si trova nell’ingresso del Comune di Vallata, dove in un angolo, compare un vecchio stipite di un portale rifatto nel 1855 con l’iscrizione G.(aetano) P.(elosi); ma  ancor più datato è quello che si trova sulla casa in Piazza Garibaldi. Indagando, ho trovato il significato su un’antica pergamena ad Ariano Irpino, dove c’era scritto che lo stemma è archiviato, nel Local Archivio, all’anno V - n° 689 e la spiegazione, prese spunto dall’opera del Conte M. A. Ginanni4 del 1756, nel quale s’evidenzia oltre al fatto che quella famiglia è stata sempre tipicamente meridionale con origini in Spagna, che : “il simbolo del leone simboleggia la forza e l’ardimento dimostrato nella pugna, poiché gli antenati furono uomini d’armi e di non comune valore, il gallo denota la fortezza, la generosità e la vigilanza, il serpe rappresenta la gloria acquisita con la volontà ed essendo annodato all’albero denota prudenza e cautela, mentre l’albero dimostrerebbe che i pensieri sono stati rivolti a magnanimi imprese”. Ai tempi della Regia Dogana, Vallata faceva parte della Diocesi di Bisaccia e costituiva un feudo autonomo sotto il casato degli Orsini, mentre Flumeri, Castel Baronia, Carife, San Sossio e San Nicola facevano parte della diocesi di Trevico e, dopo il casato dei Consalvo, subentrarono i Loffredo ed in particolare, in questo vasto comprensorio, operava la Casa D’Orta della Compagnia di Gesù che aveva vastissimi territori che affittava per gli erbaggi estivi(=statonica) a coloro i quali potevano pagare una fida (A.S.FG. Dg. II b. 136 f. 3390 del 1705). La principale delle attività economiche di tutta quella vasta zona era la pastorizia che si effettuava attraverso i Regi Tratturi, i riposi demaniali e le Poste. Basti pensare che a metà del 1700 furono censiti tutti i tratturi, i tratturelli, i bracci ed i riposi che portavano nelle iniziali 23 locazioni in Puglia ed assommarono a circa 19 mila carri di terra (1 carro = Ha. 24.52.73). Ovviamente, quella divisione del territorio fatta dalla Corte di Napoli per metterla a disposizione dei locati rappresentò un’entrata cospicua per le regie casse anche se, non fu sempre costante, per via delle tante variabili indipendenti come siccità, epidemie, terremoti ma, complessivamente, fu un’operazione che oggi potremmo considerare di tipo commerciale assai interessante per il Re che svolse, pertanto, una funzione di controllo costante tramite il Doganiere che aveva sede a Foggia. Pertanto, quando i locati, cioè i proprietari di pecore pagavano il Doganiere per essere “incasati” in una delle 23 locazioni, diventavano automaticamente contribuenti e sudditi della Corona, con tutti i privilegi che ciò comportava. Così, ad esempio, la maggior parte dell’agro di Ascoli era compreso in 6 delle 23 locazioni ordinarie del Tavoliere perché oltre ad essere attraversato dal tratturo principale Pescasseroli – Ascoli – Candela, vi erano ben 8 tratturelli e 2 bracci e poi, al “Piano dei Morti”, tra Ascoli e Candela, considerato un passo assai importante, i locati avevano l’obbligo di far passare le greggi per il controllo fiscale ai fini della determinazione del pagamento della fida prima di prender possesso delle Poste loro assegnate e molti dei locati di Vallata, avevano la loro assegnazione in quelle più prossime a quel luogo : la Posta di Salvetere, la Posta di Monterocilio, la Posta di San Mercurio, la Posta di Palazzo d’Ascoli, la Posta di Cammarelle. Gli antichi locati della locazione di Vallecannella,  avevano il privilegio di far pascere le pecore su 130 carri di terra messi a disposizione dalla Regia Corona per quella locazione ma poterono portare le pecore fino al Demanio di Minervino dove c’era il cosiddetto uso promiscuo, oltre che avere un’assegnazione di “terra di portata”, cioè coltivabile, in località Torretta ad Ascoli o a Puzzomarano o a Puzzomonaco nella Camarda di Melfi o nella zona di Monterocilio appartenente alla Mensa d’Ascoli. Fu così che tutti i locati dell’Alta Irpinia, cominciarono ad intraprendere la strada dell’impresa o, come si chiamava all’epoca, dell’industria armentizia, tanto fiorente e redditizia in un periodo così buio come quello dell’età feudale ed i Principi, i Baroni, i Duchi ed i  Marchesi furono i primi a svolgerla perché remunerativa e, al contrario, videro di cattivo occhio che vi fossero gruppi di persone che si affrancavano dalla loro giurisdizione e cercarono di contrastarli in ogni modo perché li vedevano come degli emergenti ed estranei ai loro interessi ma, i locati furono malvisti anche dalle università locali, a volte troppo irretite dal potere feudale e poco o affatto libere di poter esprimere una propria autonoma municipalità, per non parlare dei rapporti molto stretti con la Chiesa e le loro cappellanie. Molte volte, le università assieme ai feudatari che erano gli  utili signori delle cittadine dove svolgevano i loro diritti feudali, furono colpiti ed anche severamente dai Regi provvedimenti provenienti da Foggia e non furono isolati i casi in cui vi furono dei veri e propri conflitti di competenze tra la Regia Dogana di Foggia e la Regia Corte della Sommaria di Napoli. Quest’ultima, aveva gli stessi compiti della odierna Corte dei Conti e prendendo in esame i rendiconti dei pubblici amministratori ed i conti relativi alle imposizioni fiscali delle università, le tutelava dagli abusi dei baroni e dei governatori. Nelle vertenze che talvolta insorsero tra ”Universitas” e Feudatario locale, interveniva il Re ed anche con una certa solerzia, il quale affidava il verdetto al Sacro Regio Consiglio o Camera di Santa Chiara ma, immancabilmente, nel corso dei secoli, i Feudatari finirono con il prevalere sugli interessi dei cittadini.

__________________________________________

Indice Home Pagina Successiva