Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Don Domenico.

Capitolo VI
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6.8 Don Domenico.

        Fu l’ultimo dei figli maschi di Don Antonio che lo mandò a studiare nell’Abbazia di Montevergine e di lui vi sono tracce nel Vol. II del Regesto delle Pergamene a pag40. La sua professione fu quella del proprietario di terre, di armenti e di vacche, avendo rinvenuto dei certificati redatti dall’Università di Vallata che lo definirono “massaro di campo”. Sposò Donna Ippolito Nicoletta di Vallata da cui ebbe diversi figli, tra cui si ricordano il 31 Gennaio 1764 Giuseppe che morì a pochi mesi, seguito da Anna Maria, il 18 Dicembre 1765, e poi il 21 Agosto 1770 da Fortunata detta “Titina”. Poi, il 13 Febbraio 1772 , Don Domenico e Donna Nicoletta Hyppolito(=così spesso compariva in alcuni documenti), andarono a dichiarare la morte del figlio Antonio detto  “Toni”,  di anni 4, mentre il 18 Agosto 1772 nacque Vito che morì esattamente 4 anni dopo. Purtroppo, come spesso accadeva all’epoca, dei tanti figli venuti alla luce, ne rimasero in vita soltanto due, Anna Maria che sposò il figlio di Don Giuseppe Silla e che morirà il 30 Agosto 1835 e Fortunata che sposò Don Bartolomeo Pelosi, suo cugino, figlio di Carmine
        Nell’A.S.FG  nella Dogana serie II b. 464, f. 9836 il 13 Marzo 1772 Don Domenico Geronimo Pelosi si presentò a Foggia presso la Regia Dogana per una testimonianza a favore del fratello U.J.D Don Carmine di Vallata accompagnandosi a suo fratello, il Rev.mo Padre Don Pasquale e la testimonianza che i due portarono già bella e confezionata portò il sigillo notarile di Giambattista Branca della stessa terra. Si trattava di interessi di famiglia e, quando l’ argomento era questo, tutti i componenti di un clan familiare sono sempre stati tra loro molto solidali. La causa in questione riguardava i coniugi Biase Bertone e Santina Cannone che mossero istanza contro i coniugi Felice Malgieri ed Andreana di Netta, ed  in questa storia fu implicato anche il loro nipote, Carmine Pelosi, figlio di Cristina Malgieri nonché sorella di Felice. In sostanza, i primi 2 coniugi contestarono un contratto di permuta avvenuto con don Felice e sua moglie, perché in realtà era stato un contratto di compravendita di due terreni a Chiusano per i quali erano stati pagati 45 ducati più una certa quantità di grano, ma non c’era stato mai un solenne patto anzi, nella carta privata che fu prodotta tra loro, fu anche scritto che Biase Bortone e sua moglie avrebbero potuto anche ricomprarli ma, così non avvenne, perché Don Carmine s’ intromise e visto che già possedeva una vigna a Chiusano, quei 2 nuovi appezzamenti, gli servirono per ingrandire la masseria. Nel corso della causa morirono sia Felice Malgieri, sia Andreana di Netta però, per essi, intervenne il loro figlio ed erede Don Angelo. Il punto su cui i due ricorrenti avevano cercato di far leva davanti al giudice fu che :  “quei 2 appezzamenti non potevano essere venduti perché facevano parte di beni dotali di Santina Cannone ricevuti tramite i capitoli matrimoniali anche se non c’è un atto notarile  poi registrato in Chiesa, ma una carta d’intenti fatta dai genitori che non riusciamo a trovare “. Allora, il giudice dispose che si sarebbe dovuto proseguire con le prove testimoniali di parte e fu così che Don Carmine Pelosi proseguì l’iter processuale facendo comparire i 2 f.lli, Don Pasquale il sacerdote e Don Domenico il massaro di campo, che confermarono univocamente innanzi al giudice quanto già scritto nell’atto del notaio Branca di Vallata e cioè: “quei 2 appezzamenti a vigna a Chiusano, oggetto di tanto contendere, furono, in realtà, venduti dai f.lli Patetta, cognati di nostro fratello, al padre di Santina Cannone che poi li passò ai coniugi Malgieri per quella somma fittizia e senza atto pubblico, volendo solo in apparenza far comparire il tutto come un atto di permuta ma, in realtà, si trattava di frode nei confronti di Carmine, poiché i f.lli Patetta, pur di non far cadere quei terreni nelle sue mani, per i disattesi capitoli matrimoniali della sorella Caterina nostra cognata, disposero le cose in modo tale da simulare dei finti atti redatti dal notaio Marcellino Pagliarulo di Trevico, loro fiduciario e parente”. Alla fine, il giudizio fu favorevole a Don Carmine Pelosi che, con questi due nuovi appezzamenti, a Chiusano, assommò una proprietà di centodiciotto tomoli ed una misura che secondo le unità agrarie correnti, un tomolo equivale a 41,1525 are ed una misura a 1,2860 are, che fu, dopo pochi anni, interamente ereditata dal figlio Don Bartolomeo sposato con donna Fortunata Pelosi fu Domenico (Foto23).
        Don Domenico era, inoltre, un gran appassionato di cavalli trottatori e ne acquistò 8 tra fattrici e puledri, di rara bellezza, il 28 Novembre 1773  in occasione della Fiera zootecnica di Santa Caterina, provenienti dai “Reali Siti” di Santa Cecilia e Tressanti, vicino la città di Foggia, dove venivano allevati quelli di grande genealogia e scelti personalmente dal Re di Napoli e riprodotti in quelle due aziende modello. Ma, tutti i fratelli di Don Domenico avevano una gran passione per i cavalli, perché oltre a trovarli belli e vivaci per potersi rapidamente spostare da un paese all’altro in breve tempo, li trovavano utilissimi per l’economia di montagna e per la destinazione agricola che avrebbero potuto avere anche a fine carriera, allorquando, avrebbero potuto servire ad accompagnare le greggi transumanti e le vacche che si spingevano fino a Cerignola nella Posta Pignatelli o nella Posta Ragneri a Torre Alemanna.
        Nella Dg. I b. 173 f. 3849 il 6 Marzo 1776 il Mag.co Don Nicolò Pelosi e suo fratello Domenico, andarono a Foggia alla Regia Dogana per rispondere ad un Bando Pubblico indetto per l’assegnazione di pascoli all’interno di una delle ventitré locazioni e fecero espressa richiesta di poter essere inseriti in quella di Vallecannella, dove da tempo risultava locato il fratello Carmine. La richiesta fu dai due fratelli motivata dal fatto che i due avevano intenzione di far scendere a pascolare nelle Puglie le 400 pecore acquistate quell’anno in una masseria a Vallata. L’Avvocato De Dominicis, prendendo atto della loro richiesta, rispose che si sarebbe dovuto acquisire agli atti una dichiarazione del Comune di Vallata che potesse avvalorare la loro condizione di proprietari, e nel contempo chiese allo Scrivano del Real Patrimonio di verificare l’affermazione dei due pretendenti circa la veridicità che il Dottor Don Carmine fosse un locato in Vallecannella. Il 14 Marzo 1776 arrivò il Certificato dal Comune con il quale l’Unità addetta al Buon Governo della città attestava che i due compaesani Mag.co Don Nicolò e Mag.co Don Domenico avevano da circa un mese acquistato una masseria con 400 pecore gentili e poche capre, ma non da soli perché c’era con loro anche il fratello, il Reverendo padre Don Pasquale. L’atto fu firmato dal Sindaco Don Santo Pelosi, da Diego Villani Capo eletto e dagli eletti Giovanni Palmisano,  Francescantonio Cautillo e Vito di Netta, mentre il notaio fu Martinez Novia. Ma, nonostante lo Scrivano del Real Patrimonio avesse reso noto che il Dottor Don Carmine Pelosi, loro fratello, da molto tempo risultava locato del Regio Fisco in Locazione Vallecannella, l’Avvocato De Dominicis scrisse loro che avrebbero dovuto accontentarsi dei pascoli siti in Feudo D’Ascoli che tra le 23 locazioni era quella più vicina a casa loro. Ma, quando già la pratica stava per essere conclusa, a sorpresa, senza che i due sapessero nulla in merito, arrivò anche un atto con il quale, in data anteriore alla loro formale richiesta e, prima che scadessero i termini del “bando di calo”  concepito in data 20 Gennaio 1776, il Rev. padre Don Pasquale, chiese di essere ammesso anche lui ai benefici di locato a Foggia nominando a tale scopo suo procuratore Don Vincenzo Terenzio, e per tranquillizzare i due fratelli, in fondo all’atto di procura, firmato da Don Pasquale, comparve la seguente scritta “garantisco sin d’ora ai miei due fratelli che cederò loro tutti i miei diritti e beni di locato alla mia morte”. L’atto fu firmato da Martinez Novia, ed i due testimoni furono Andrea Minicone e Domenico Ranieri. Il 17 Marzo 1776 Don Nicolò e Don Domenico furono accettati col fratello a provvedere alla professazione delle 400 pecore in Feudo D’Ascoli. Nel 1781 a Vallata risultavano ancora vivi Don Nicolò, Don Carmine e Don Domenico.
        Sempre nell’archivio di Stato di Foggia nel Fondo della Dogana serie IX - Processi Criminali- b. 69, f. 1328, nel 1781 Don Domenico Pelosi fu denunciato per appropriazione indebita di grano da parte della vedova Maria D’Attino di Vallata. La denuncia fatta dalla vedova, rischiava per la gravità dei fatti di trasformarsi in imputazioni più gravi come aggressione, dolo e turbamento di quiete con pubblico scandalo. La vedova era anche una sua congiunta, poiché il defunto marito della vedova D’Attino Maria, era il fratello del consuocero di Don Domenico e questa le dava libero accesso a casa sua, trovandosi a qualche isolato più avanti, nel luogo detto dietro la Taverna della Camera Ducale. Così, la vedova si recò alla Regia Dogana di Foggia, perché Don Domenico Pelosi era un locato ed essendo stata consigliata in quel senso, fece istanza di processo criminale in quella sede, dove così fece mettere agli atti: “ Era il 31 Luglio del 1781, era  notte e Don Domenico, con gran temerarietà ed audacia, oltre ad usare contro di me parole irriverenti ed improprie, senza chiedere permesso a nessuno, entrò nel magazzino di casa e, a più viaggi, si portò  via il grano e la lana per complessivi 12 ducati e carlini 8, facendosi aiutare da due donne che abitavano vicino a casa mia”. E, per quel processo che la vedova stava intentando, chiamò in causa alcuni testimoni in suo favore che avrebbero potuto raccontare ciò che avvenne quella sera, tutti di Vallata: Ciriaco Gallo, Francesco lo Monaco, Angela dello Monaco e Carminuccia Colia. Il 6 Agosto 1781, il Presidente del Tribunale di Foggia, Don Filippo Mazzocchi, inviò una prima notifica alla Corte Ducale di Vallata per informarla dei fatti e poi un’altra a Trevico,  perché questa era la sede abilitata per ascoltare le ragioni dei locati, presso l’Ufficiale Doganale Don Daniel Paglia che da anni svolgeva le funzioni di delegato ed in quell’anno era diventato il Governatore “pro tempore” della città di Trevico, in assenza dell’utile Signore, il Marchese Loffredo.
        Nella trasmissione degli atti a Trevico da parte della Regia Dogana c’era la nota che diceva “la causa sarà disbrigata in poco tempo ed il prezzo è stato convenuto in un’oncia d’oro”. Ma, su segnalazione della vedova D’Attino, fu scritto nuovamente a Foggia, perché i testimoni lì, in quella sede decentrata della Dogana, non potevano essere ascoltati perché l’Ufficiale Doganale abilitato a Trevico era Don Pietro Pelosi, congiunto di Don Domenico il quale, pur facendo il mastrodatti alla Corte di Vallata, in occasione della nomina a Governatore interino di Don Daniel Paglia, fu chiamato a svolgere le funzioni di ufficiale doganale supplente. Allora tutta la causa fu spostata a Rocchetta Sant’Antonio e lì furono ascoltati i testimoni, il primo fu Ciriaco Gallo, che raccontò tutto ciò che aveva visto, firmando la sua deposizione; seguirono quelle di Francesco lo Monaco, Carminuccia Colia ed infine Angela dello Monaco di anni settantacinque nonché la moglie di Michelangelo Cerullo, firmando tutti e tre con il segno della croce. Nel frattempo dalla Regia di Foggia, giunse una richiesta di approfondite indagini su Don Domenico Pelosi, non solo a Vallata, ma anche a Trevico ed a Carife perché l’Avvocato Fiscale De Dominicis aveva avuto informazioni negative sul suo conto. Infatti, il Rev.do padre Don Felice Villano, avendo saputo che Don Domenico era sotto processo, fece recapitare nelle mani del giudice una “Scomunica a Diviniis” proveniente dalla Curia Romana, avuta già da qualche anno, nella quale c’era scritto che Don Domenico Pelosi aveva pubblicamente usato, non solo parole blasfeme, ma aveva preso a calci l’Arcipresbiter Don Michelangelo Netti, alla presenza di altri sacerdoti oltre a lui ed in particolare davanti al sacerdote Don Giuseppe Pavese ed al sacerdote Don Vincenzo lo Monaco e tutto ciò perché dal pulpito della Chiesa di San Bartolomeo aveva richiamato tutta la cittadinanza ad una vita più casta e conforme alla morale cristiana e, fece il suo esempio, come modello da non imitare. Infatti, così proferì : “quel peccatore, pur avendo una moglie bella e ricca come Donna Nicoletta Ippolito, ha diverse concubine e, con una in particolare, è pure convivente, la sorella di Don Domenico Floja”. Quell’affermazione portò alla reazione incontrollata di Don Domenico che, andandolo a trovare nella Basilica, lo invitò ad uscire e……. così, ricevette la scomunica da Roma. Le informazioni che desiderava l’avvocato De Dominicis non tardarono ad arrivare dalle tre corti locali di Trevico, Vallata e Carife che concordarono nel seguente giudizio : “ è un proprietario terriero consolidato, con stalle di vacche e giumente, oltre a possedere armenti in locazione di Feudo d’Ascoli e Fabrica; a Carife ,ha dei parenti ed in particolare era conosciuto suo zio che si chiamava come lui e faceva il Notaio alla Corte locale; a Trevico risulta proprietario di due case ed un appezzamento di terra, mentre a  Vallata sta con i suoi fratelli, in particolare con Don Nicolò, che svolge funzioni legali alla Sommaria ,ma è anche in affari con l’altro fratello il Dottor Don Carmine. Gli interessi economici di tutti loro sono prevalenti e prioritari rispetto alla legal professione. ”. Nel frattempo a Rocchetta il processo andava avanti e furono ascoltati i testimoni a favore di Don Domenico, cioè  il Mag.co Don Francesco Novia e le due donne che avevano aiutato Don Domenico a trasportare il grano dal sottano della vedova Maria D’Attino al suo magazzino, sempre nella stessa strada, a qualche isolato di distanza. Ma, mentre tutti i testimoni stavano aspettando il loro turno per rendere testimonianza, arrivò in carrozza il Mag.co notaio Don Nicola Cataldo e quando questi arrivò davanti all’ufficiale doganale, riferì che non era lì per testimoniare, ma per validare gli atti ed allegare una dichiarazione di Don Domenico Orsini, Governatore di Vallata che lo pregò di portare quel messaggio da allegare al processo: “ la prego di indagare bene la verità e le circostanze dell’accaduto”. Così, l’ufficiale doganale proseguì ancor più attentamente ad ascoltare i testimoni a favore di Don Domenico e così le due donne Marianna Quaglia e Giustina Iurella dissero che quella sera le pregò di dargli una mano nel trasportare il grano perché l’ora era tardi e, prima di ritirarsi a casa fecero diversi viaggi ed a mezzanotte, stanche, andarono a dormire, ma che erano sicurissime che il grano era di Don Domenico, perché loro stesse l’avevano aiutato “a scognare” nella Masseria situata a Maggiano. Il Mag.co Don Francesco Novia nella sua deposizione aggiunse che il grano era di tipo “CIGNARELLA” e, dopo il governatore, pochi lo seminavano a Vallata. A lui risultava pure che Don Domenico, suo compaesano ed amico, aveva seminato alla Masseria di Maggiano anche altri 18 tomoli di grano “SARAGOLLA” e questi “sono grani che Don Domenico ed i fratelli normalmente seminano perché con questo grano si fa un ottimo pane”. Il Mag.co Don Francesco Novia raccontò, poi, che lui fu chiamato assieme a Don Arcangelo Garruto, altro amico di Don Domenico, quella sera del 31 Luglio, proprio per riconoscere quel grano da seme e che senza alcun dubbio, era “il Cignarella”, proveniente dai sei tomoli che la moglie di Don Domenico, Donna Nicoletta Ippolito aveva portato in dote e che confinavano con gli altri numerosi tomoli dei fratelli Pelosi a Maggiano e loro due, amici di Don Domenico, ben sapevano che la vedova non aveva né terre e né pecore per ricavare i rotoli di lana. Allora, appurato che quel grano era il Cignarella, Don Domenico, raccontò che bestemmiando ed imprecando si rivolse verso la vedova che nel frattempo aveva cambiato colore e che quella, tutta timida, si ritirò in casa. Nella sua deposizione, continuò dicendo che s’accorse del furto poiché alcuni fiocchi di lana assieme a dei chicchi di grano sparsi sul selciato, lo condussero proprio davanti la casa di Maria D’Attino.  Finita la verbalizzazione, l’atto venne firmato dal Mag.co notaio Don Nicola Cataldo che aveva portato con se due suoi amici e testimoni Don Pietro Fischetti e Don Francescantonio Zamarra.
        Sembrava che tutto fosse finito lì ma, Don Domenico che era persona che aveva una sua particolare visione, il giorno dopo, andò  a Trevico e fece denuncia di furto contro la vedova, oltre che per sporgere denunzia perché diffamato. Fu allora che intervenne sua cognata Donna Caterina Patetta, moglie del fratello Don Carmine che si recò a casa di don Domenico assieme al consuocero Don Giuseppe Silla e lo convinsero a ritirare la denuncia perché sarebbe stato un grave scandalo e che avrebbe dovuto aver fiducia perché tutto, con il tempo, si sarebbe accomodato, anzi, lei stessa avrebbe trovato una soluzione pacifica. Ma, questa tardò ad arrivare, anzi, come tutta risposta, perché mal consigliata, la vedova si recò a Foggia ed andò pure a sollecitare la fine di quel processo. Allora, dopo un consulto tra donne, venne fuori una nuova verità che avrebbe potuto salvare la situazione: “la colpa era tutta del figlio appena morto di Maria D’Attino, Vito, che nei giorni precedenti la sua dipartita, quando ancora si stava facendo la scogna del grano, prese accordi con Don Michele Pelosi, figlio di Don Carmine e Donna Caterina Patetta, nonché nipote di Don Domenico, che quei tomoli di grano di varietà Cignarella dovevano servire per semente ed avevano bisogno di stare in un luogo appartato, cioè nel sottano della vedova D’Attino, quindi lei non poteva sapere nulla di quegli accordi”. Poi, ad avvalorare che quell’azione era stata preparata dai due ragazzi, ed operativamente dal nipote di Don Domenico, comparve un’altra deposizione del guardiano dell’Ecc.mo Duca di Vallata che dichiarò che quella sera del 31 Luglio a portare il grano nel magazzino della vedova fu proprio Don Michele Pelosi, perché verso le dieci di sera l’incontrò di ritorno dalla Masseria di Maggiano, e disse che gli chiese pure “ che stai portando? ”, e Don Michele che era uno a cui piaceva anche scherzare gli rispose “cumpà, è terraggio, vuoi controllare ? ”. Poi, il guardiano continuò testimoniando che ritornò in Paese: “ e presi la stessa strada, perché a quell’ora prendevo servizio nel luogo dell’entratura del grano del Duca, nel luogo detto Montevergine, ma non chiesi altro a Don Michele, perché vidi altra gente venir dietro di lui e, poteva essere che, poteva  arrivare anche lo zio Don Domenico e quello è uno che non scherza, se non gli garba qualcosa, caccia subito il coltello, però, posso affermare che Don Michele alle dieci di sera del 31 Luglio stava portando non terra sul somaro, ma alcuni sacchi di grano scognato dall’aia della masseria di Maggiano”.  Il 16 Gennaio 1782 l’Avvocato fiscale De Dominicis, dopo aver ascoltato il procuratore di Don Domenico Pelosi, Don Alessandro Sorrentino che chiedeva di chiudere l’atto “pro bona pacis”, e dopo avergli mostrato anche l’atto di denuncia fatto e poi ritirato a Trevico contro la vedova D’Attino in data 1° Agosto firmata dal Governatore “pro tempore“ e dai testimoni Don Vincenzo dell’Abate e Nicolò Vitagliano, dopo aver visto gli atti, lette tutte le testimonianze, emise la sentenza di non luogo a procedere per Don Domenico Pelosi, perché non si trattò di furto, ma di una distorsione della verità, però ordinò alla vedova di restituire il grano, che in verità Don Domenico s’era già ripreso, però le spese processuali erano divise a metà tra i due e da un’oncia d’oro concordata, salirono a due per l’aggravio di lavoro sia per la sede di Trevico che per quella di Rocchetta Sant’Antonio.
        Ma, alla morte di sua moglie Donna Nicoletta Ippolito(=Lo Polito) avvenuta nel 1784, Don Domenico, contrasse un altro matrimonio, con Donna Caterina Batta, da cui ebbe pure una figlia di nome Anna Maria, nata nel 1791 e battezzata sempre nella Chiesa Madre di Vallata il 24 Maggio i cui testimoni e padrini furono il Mag.co don Michele Netta e sua moglie.

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