Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Don Nicolò e suo figlio Vito.

Capitolo VI
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6.3 Don Nicolò e suo figlio Vito.

        Era il 1°figlio di Don Antonio che sposò Donna Vittoria Novia, figlia del Mag.co Notaio Martinez Novia, dopo aver fatto anch’egli studi di Legge. A quell’epoca le famiglie erano di tipo patriarcale e lui stando sempre assieme agli altri fratelli era quello che dava buoni consigli a tutti, alle cognate ed ai nipoti e, pur essendo il più grande fu colui che sopravvisse più a lungo assieme al fratello Domenico. Non mancò di darne a Bartolomeo, figlio di suo fratello Carmine e fu colui che in famiglia partecipò da giudice a contratto alla Fondazione della Cappella Laicale della Madonna SS. della pietà23, che è una piccola chiesa che si trova fuori Vallata, sulla strada per Carife e, così come riferito dal Prof. Vito Antonio Palumbo circa le Cappellanie, tutti coloro che vi partecipavano come fondatori o benemeriti, erano i primi a cercare di acquisire benemerenze e terreni e proprietà ad annuo censo. La Fondazione dell’anzidetta cappella avvenne il 17 Aprile 1752 e dalla lettura di quell’antico documento si evincono tutta una serie di nomi e cognomi della città di Vallata,  che ancora oggi  esistono, il che rafforza l’idea che la comunità vallatese sia sempre stata ben radicata sul territorio e, quando ha visto l’allontanamento di qualche suo membro, è avvenuto solo per necessità di sopravvivenza, come nel caso della forte immigrazione oltreoceano ed in particolare verso gli Stati Uniti ed il Canada. Quindi, presenziando a quell’atto, era come se Don Nicolò, secondo la tradizione dell’epoca, stesse acquisendo dei privilegi sulla gestione delle proprietà di quella fondazione, nonché facendo pratica da giudice.
        A quei tempi, cioè a metà del Settecento non esisteva una  carriera della magistratura, ma si conseguiva una specie di abilitazione alla professione e, come ci riferì Cesare Beccaria nell’opera “Dei Delitti e Delle Pene”,  per essere giudice occorreva che si facesse almeno un decennio di pratica, che si fosse nelle grazie di qualche feudatario vicino al potere del sovrano e che la famiglia fosse ben conosciuta e stimata.
        Infatti, Don Nicolò, che fu tenente di cavalleria, divenne giudice presso la Camera della Sommaria a Napoli, per volere degli Orsini, utili proprietari di Vallata e feudatari di un certo rilievo che ne potevano nominare ben due in quella corte di Napoli e, così, quella funzione Don Nicolò la esercitò per 4 mesi all’anno, ma la sua vera e grande passione, fu l’agricoltura e la zootecnia da cui, invece, non si distaccò mai. Infatti, a quei tempi, la maggiore redditività veniva dalla terra ed essere “un massaro di campo” era una condizione ben migliore rispetto a quella di un notaio o di un dottor fisico e, l’agricoltura e la pastorizia furono la costante fissa per tutta la famiglia Pelosi, i cui componenti, anche se impegnati in attività professionali varie, sentivano quel richiamo per la terra in maniera forse fin troppo esagerato. I figli legittimi di Don Nicolò furono: Giuseppe nato nel 1754 e che morì infante, seguito da una femmina di nome Amata avuta nel 1756, Antonio nato il 30 Maggio 1758, ma morto a circa 4 mesi, poi fu la volta di Lucia Maria Cristina nata il 30 Giugno 1765, i cui testimoni in Chiesa furono i nonni, il Notaio Martinez Novia e sua moglie Donna Benedetta, ed infine nacque Vito il 10 Luglio 1766 i  cui testimoni furono la cognata Donna Maria Novia ed il marito Don Giuseppe Pali. Quando Vito ricevette la comunione e la cresima all’età dieci anni, il padrino fu il Duca di Gravina la cui procura fu portata dal Dottor Don Giuseppe Bartilomo. Del figlio Vito, si seppe che fece il medico, che sposò Donna Elisabetta Pavese, figlia di Don Carmine e che assieme a lei trascorreva lunghi periodi a Salerno dove si specializzò sulle cure mediante le piante officinali e quell’importante scuola medica conosciuta come “Regimen Sanitatis Salerntanumi” funzionò dall’alto Medioevo, fino a quando fu soppressa  nel 1811 da  Gioacchino Murat,  Re di Napoli.
        Don Nicolò fu colui che quando suo fratello Carmine venne a mancare, diede ottimi consigli a sua cognata Donna Caterina Patetta che stimava moltissimo per il suo carattere battagliero e leale e le consigliò tutte le mosse possibili in una causa di eredità assai complicata che la vide contrapposta alla nipote Vincenzina, figlia del defunto fratello Amato, che avendo sposato il notaio Andrea Sauro, uomo di legge, risultò ancor più complicata. Sul perché Don Nicolò si fosse schierato con la cognata apparve evidente fin dal primo momento, per via dei figli minori che andavano, secondo lui, sempre protetti e tutelati.  Don Nicolò, rimasto vedovo, e con il figlio Vito che svolgeva la sua professione medica a Salerno, finì i suoi giorni a Stornarella cittadina posta in una conca arida e brulla ben diversa dalla verdeggiante Vallata e così, approfondendo le mie indagini ho scoperto che Don Nicolò in quel lembo dell’assolata Puglia, vicino a Cerignola, si recava spesso e s’intrattenersi nella Posta Pignatelli, ma prima di trasferirvisi, passò tutti i suoi diritti sulla censuazione delle terre del Tavoliere in locazione di Feudo d’Ascoli che ebbe in comunione con i fratelli Domenico ed il sacerdote Pasquale, a favore dei figli del defunto fratello Carmine, cioè a Don Michele ed a Don Bartolomeo, poiché quel vincolo di famiglia per lui era prevalente rispetto all’altro che nel frattempo si era costituito e, con testamento olografo, scrisse : “ desidero che siano loro i miei eredi universali”. 
        Quindi, di Don Nicolò, si deve ricordare il figlio di Vallata che fu Don Vito che va ricordato come un grande idealista e che frequentando gli amici napoletani e salernitani, capì prima degli altri suoi familiari, che quel popolo che lui conosceva benissimo, necessitava di libertà mai avute prima, per troppo tempo oppresso e asservito al potere feudale, tanto che assieme a tanti altri irpini  aderì ”coram populo” ai ben noti moti rivoluzionari del 1° Luglio 1820, così come riportato da Flammia24 e da De Paola R.25  che, scrisse: ” lì a Nola ad attendere i due ufficiali borbonici Morelli e Silvati c’era anche un animoso vallatese, Don Vito Pelosi” e riportato anche nella rassegna storica civile e religiosa redatta dall’attuale arciprete di Vallata, che scrisse che quando spuntò l’alba del Risorgimento Nazionale, il 1° Luglio 1820 al grido di “Viva a Dio, al Re, alla Costituzione”, tra coloro che circondarono e seguirono i due ufficiali borbonici c’erano Vito Pelosi, Gaetano Monaco e Vincenzo Rosa. Nel gruppo degli insorti c’erano pure degli appartenenti alle famiglie aristocratiche di Napoli, come ad esempio i Pignatelli ed altri, anche se non nobili, erano comunque personaggi di prim’ordine, come i Maiorsini di Solofra, ma tutti, indistintamente, uomini del popolo e non, convennero nel napoletano per chiedere la Costituzione al Re di Napoli Ferdinando I. Così accadde che l’Ecc.mo Don Armando d’Egmont Fuentes, barone di Cerignola e duca di Bisaccia, fu costretto, nonostante iscritto all’Albo d’Oro della nobiltà napoletana, a riparare oltre i confini del Regno. Ho continuato le mie ricerche, passando alla consultazione di tutti i rapporti di Polizia dell’epoca per sapere qualcosa di Don Vito Pelosi che era l’obiettivo principale delle mie indagini ed ho, anche in questo caso, trovato cose interessanti. La Guardia Nazionale dell’epoca ricercava sia a Vallata che paesi limitrofi un tal Peluso, a volte l’interrogazione riguardava un tal Angelo Peluso, un’altra volta un tal Vito Peluso e…., questa volta la genericità del cognome, giocò a suo favore. Infatti, fu  assicurato alla giustizia un tal di Fra’ Angelo Peluso, che aveva partecipato con l’Abate Menechini agli stessi moti insurrezionali e non lo ricercarono più. Arrivarono informative di Peluso, Peloso, Pelosi finanche da Monteleone di Puglia, dove arrestarono un certo Caccese che secondo la polizia poteva sapere qualcosa, ma non parlava. Circa i moti insurrezionali del 1820, ho appreso un’altra notizia che potrebbe essere una ragionevole spiegazione del perché Don Vito si trovasse presente a Nola. La storia narra che ai due sottotenenti borbonici Morelli e Silvati che all’epoca, a capo di un loro squadrone, inalberarono i colori della carboneria con l’abate Luigi Menechini verso Avellino, s’aggiunse, il tenente-colonnello Lorenzo De Conciliis, ma Don Vito frequentava da sempre casa De Conciliis ad Avellino perché Pietro, suo cugino era figlio di Apollonia Pelosi, vedova De Conciliis.
        La storia dell’epoca ci dice che molti insorti furono imprigionati e passati per le armi, ma di don Vito Pelosi non si seppe più nulla, né comparve mai nelle liste degli impiccati, né si ebbero notizie di un suo ritorno in Patria. Di lui si seppe solo che prima dei moti insurrezionali, stette, per un certo periodo molto vicino al Ministro di Polizia dell’epoca a Napoli, il Colonnello Malaspina ed a lui si rivolse per sapere notizie del rapimento da parte di alcuni briganti di Don Nicola Frieri, cognato del cugino Don Bartolomeo, sposato con una sua sorella di nome Costantina e, non a caso, Don Nicola Frieri fu ritrovato a Vallata in Contrada delle Rose. Sul come e quando Don Vito abbia potuto conoscere il Colonnello Malaspina che combatté la battaglia di Tolentino con Napoleone Bonaparte, lo si può solo immaginare se si pensa alle organizzazioni ed alle cospirazioni che in quegli anni fiorivano in Irpinia. La storia ci dice che, dopo la fucilazione di Murat, quando i Borboni ritornarono sul trono di Napoli, dopo aver promesso amnistie per le offese passate e una riforma delle tasse, si scontrarono contro la triste realtà che era quella di dover pagare le truppe austriache che li avevano fatti risalire sul trono ed avendo un monte di debiti privati, accumulati da una Corte corrotta ed amante del lusso, cominciarono a svolgere una politica al contrario di quanto la gente s’aspettasse. Infatti, il Re quando era in esilio aveva incoraggiato le società segrete, sperando di servirsene come strumento contro i Francesi e al suo ritorno queste esultarono, ma ben presto s’accorsero di non aver più alcuna valenza. Tra queste va annoveratala la setta dei Carboneria, dei Filadelfi, dei Patrioti europei, ed  in generale, tutti miravano ad una Repubblica universale, basata su principi universali. Molti degli aderenti a queste società segrete erano persone oneste ed eccellenti, desiderose solo di quelle riforme che servivano per il Paese e non erano affatto disposti a tollerare che le loro società divenissero rifugio di malfattori e di scontenti.  Dopo i moti rivoluzionari del 1820, seguì la repressione da parte di Ferdinando I su sollecitazione delle potenze alleate che lo pressionarono affinché non ci fossero cambiamenti delle istituzioni e Morelli e Silvati furono condannati a morte e, dopo essersi dati alla fuga nella campagna di Mirabella Eclano ed aver tentato un’inutile fuga, furono impiccati a Napoli in Piazza Mercato. Gli altri ribelli di Avellino furono dispersi tra lo Stato Pontificio, l’Inghilterra, la Corsica, la Francia, la Grecia, la Tunisia e la Spagna come il Colonnello De Conciliis. Furono centinaia gli esuli, gli elenchi sono lunghissimi, e non a caso potremmo definire quegli avvenimenti di Avellino la prima pagina del Risorgimento meridionale. Il Colonnello De Conciliis ritornò in Italia solo anni dopo, per prendere parte nuovamente ai moti risorgimentali del 1848 a Napoli e fu lui l’artefice dell’insurrezione dell’Irpinia. Affidò le terre liberate a Giuseppe Garibaldi e l’anno dopo, nel 1861 fu senatore della repubblica italiana fino al 1866, cioè fino alla fine dei suoi giorni che videro il compimento del suo novantesimo compleanno.
        A quell’epoca all’interno delle stesse famiglie c’erano forti divergenze politiche ed a quella regola non sfuggì proprio nessuno. Don Vito, a seguito dei moti insurrezionali del 1820, fuggì e di lui non si ebbero mai più notizie; per tradizione orale di famiglia, pare fosse partito da Napoli per gli Stati Uniti d’America, ma di ciò non v’è certezza.
        Allora, esaurite le mie ricerche su Don Vito, decisi di capire perché mai un personaggio di Vallata come don Nicolò, potesse aver terminato i suoi giorni a Stornarella e, consultando gli inventari degli “Affari Comunali di Stornarella” ho scoperto che ebbe un figlio a cui dette regolarmente il cognome Pelosi, chiamandolo  Antonio come suo padre e che lo concepì con una cuoca di Vallata che prestava servizio presso la Posta Pignatella, confinante con la Masseria del Capitolo di Cerignola, sempre nella locazione di Vallecannella. Quel ragazzo Don Nicolò lo fece studiare esattamente come fece con il figlio Vito e questi fece pure lo stesso mestiere del figlio di Vallata, cioè il “dottor phisicus(=medico)”. Allo stesso modo di come si erano comportati tutti i Pelosi di Vallata, anche quest’ultimo di Stornarella, utilizzò il sistema della censuazione delle terre del Tavoliere per avere l’assegnazione da parte della Regia Dogana di 10 versure di terre, avute in affidamento nel 1829 (Dg. II fasc. 1120 busta 32)  a “Posticchia della Fonte”, ad Ordona, che era una delle altre 20 nuove Locazioni in aggiunta alle 23 storiche.
        Ho continuato l’ indagine ed ho scoperto che il Dottor Phisicus, Don Antonio, ebbe un altro fratello a cui Don Nicolò diede il nome di Pasquale, ma stavolta questi non fece il sacerdote ma si occupò, sin dal 1835, (Dg. II b. 52 f. 1877) ed a  tempo pieno della Masseria Tufarelli, conosciuta come una storica masseria di Stornarella. A Stornarella, il dottor fisico, Don Antonio, sposato con Rosa Ianassi ebbe prima una figlia e poi un figlio che chiamò esattamente come suo padre, Nicolò, il quale fece l’ufficiale borbonico e, nel 1849, inviò una lettera al Re (busta 149, fascicolo 1696) in cui parlava di rivelazioni importanti su eventuale attentato a sua maestà il Re Ferdinando II, al quale scrisse: “Sire, è meglio che non venga mai nella zona di Cerignola, perché in quella zona si trama contro Sua Eccellenza”. In agro di Stornarella, a 4 km da Torre Alemanna, Don Nicolò, era uno dei responsabili della “Posta Pignatelli”, che era una storica Posta affidata ai baroni d’Egmont Fuentes di Cerignola e duchi di Bisaccia e, storicamente la città di Vallata era collegata alla diocesi di Bisaccia ed agli interessi che intorno ad essa si effettuavano.

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