Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — La Regia Dogana del Tavoliere di Puglia.

Capitolo II
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2.1 La Regia Dogana del Tavoliere di Puglia.

       Sotto questa denominazione erano amministrati a Foggia i numerosi pascoli di proprietà della Corona che si estendevano dal Nord Ovest di questa Provincia per tutta la vasta pianura fino alle Murge nella provincia di Terra di Bari, per un’estensione di 700 mila moggi di terreno (1 moggio napoletano = Ha 00.33.64). Già ai tempi di Giulio Cesare, Marco Varrone in un suo libro sull’economia rurale, faceva rilevare “l’usanza di menare gli armenti durante l’inverno nei pingui pascoli dei piani temperati della Puglia, e durante l’estate nel Sannio” e che già da allora per il passaggio degli animali dal Sannio nella Puglia si doveva pagare un “vectigal” ossia un contributo in ragione del numero di animali che occorreva indicare agli ufficiali preposti dal governo romano. Diversi autori, in tempi successivi, dimostrarono che tanti i Romani quanto i Longobardi, i Normanni e gli Svevi emanarono disposizioni specifiche in merito allo svernare delle greggi nel Tavoliere. Così, anche la dinastia Angioina riservò particolare attenzione alla transumanza, oggetto nel 1429 di uno statuto con il quale Giovanna II riorganizzava quella che già allora era la Dogana delle pecore di Puglia, struttura delegata a sovrintendere per conto della Corona, quei diritti da esercitare “sopra i campi agresti ed incolti” che servivano al pascolo, sotto il nome di “erratico”, e poi di “fidanza”. Infine, in continuità con la tradizione angioina e forte dell’esperienza della propria terra d’origine, con il privilegio del 1° Agosto 1447 Alfonso I  d’Aragona, nominando il catalano Francisco Montluber 1° Doganiere, istituì una vera e propria magistratura amministrativa e giurisdizionale che funzionò per circa 4 secoli, la Regia Dogana delle pecore, garantendo la libera circolazione del bestiame tra le provincie abruzzesi e quelle pugliesi di Capitanata e Terra di Bari. Nell’Archivio di Stato di Foggia, collocato all’interno di quello che era la sede della Regia Dogana, vi è una serie  di atti dai quali è stato possibile ricavare importanti pezzi di storiografia locale del principato d’Ultra, in particolare su Vallata, ma che non ha escluso città vicine come Andretta, Trevico e Carife. Così come riportato dal Giustiniani, la prima città era compresa tra la Diocesi di S. Angelo dei Lombardi e Bisaccia ed era distante 18 miglia dal capoluogo del Principato che all’epoca era Montefusco. A Vallata c’era l’usanza che il 15 Giugno c’era una fiera zootecnica importante da dove venivano molte persone dai paesi viciniori per l’attività commerciale che riguardava questo settore specifico perché l’attività dell’allevamento delle pecore e  delle capre, come di altre specie come cavalli, giumente, vacche ed animali da cortile, costituiva la vera e propria ricchezza di quel territorio. Occorre però dare qualche breve notizia su come funzionava quel sistema della transumanza e perché quelle fiere erano così sentite dalla popolazione del luogo. La Dogana delle pecore curò la gestione del demanio fiscale del Tavoliere e regolò, in via esclusiva, la transumanza del Regno di Napoli, e le sue competenze erano esenti da limitazioni territoriali, nel senso che si estendevano alle varie province del regno, trovando un condizionamento solo nella possibilità d'Appello avverso le sentenze civili, presso la Camera della Sommaria a Castelcapuano a Napoli. Così come riferito da De Cicco e Musto15, inizialmente la sede della Regia Dogana fu Lucera e poi stabilmente Foggia, con le funzioni di curare l’esazione dei pascoli (=fida), costituendo così un importantissimo cespite per il Regio Erario. Sotto il Re Alfonso I, il Tavoliere poteva sostenere solo 90 mila pecore ed il territorio della Regia Corona fu diviso in porzioni di territorio dette “locazioni” e, successivamente, quella divisione che fu di 23 locazioni con i loro rispettivi ovili, detti poste, fu rimpinguata con altre nuove locazioni  che si estesero ben oltre i confini della Capitanata. Fu così che con Ferdinando D’Aragona, si fecero delle aggregazioni di terreni che appartenevano ai Baroni, cioè ai Feudatari locali, con altri appartenenti  alle Chiese ed in parte ai singoli proprietari, donde la necessità di stipulare dei contratti stagionali, perché quei terreni servivano alle locazioni del Tavoliere solo per alcuni mesi all’anno, cioè quando dovevano pascolare le pecore che scendevano dai monti; di qui, nacque la distinzione tra “terre salde e terre di portata”, cioè tra terre a coltura di pascolo e terre a coltura. Alle terre destinate al pascolo si diede nel tempo il nome di terreni ad erbaggio e ristori. Già nel 1592, i pascoli della Regia Dogana furono frequentati da 4 milioni e mezzo di pecore oltre che da circa 10 mila animali grossi ed il Regio Erario ne ebbe un ricavo di più di 24 mila ducati annui. A quei tempi i pascoli meridionali erano presi in fitto dai pastori, di anno in anno, mediante corresponsione di un pagamento, la cui entità era proporzionata al numero di capi immessi, ma non prima di aver partecipato al cosiddetto “Banno di Calo”, cioè al relativo bando di discesa degli animali. Gli Incaricati Regi non facevano sconti a nessuno e dove potevano fiscalizzavano tutto e tutti. Quindi, i “Locati” di Vallata e di tutto il Regno di Napoli, per provvedere a quell’obbligo annuale consistente nel disbrigo delle attività amministrative legate all’essere proprietari e quindi contribuenti fiscali della Corona napoletana, dovevano recarsi a Foggia presso la Regia Dogana e, così, poterono servirsi di quel Tribunale per i loro problemi giuridici essendo, per loro, un foro privilegiato. Lì, in quella sede c’erano diversi personaggi : il primo, anche in ordine d’importanza era il doganiere, cioè colui che aveva potestà assoluta in materia civile, criminale ed amministrativa su tutte le Regioni del Regno, assisteva alla professazione dei locati, assegnava i pascoli, emanava i bandi, stabiliva i prezzi, faceva riparare o costruire opere pubbliche, ed avendo una così grande autonomia, seconda solo al Re di Napoli, godeva di una grande influenza sia sull’Universitas della città di Foggia, ma anche sulle altre, giungendo a condizionare anche la nascita di Ospedali ed Opere pie. Il secondo per grado d’importanza era il credenziere che era l’avvocato procuratore del fisco, dopo di lui c’era l’uditore che era il giudice ordinario civile e criminale, seguito da un mastrodatti che era un segretario o cancelliere che doveva aver cura dell’Archivio e poi c’erano vari scrivani addetti ai vari servizi che comunque facevano parte del Regio Patrimonio; solo verso la fine del 1700, entrò a far parte di questo consesso, anche l’avvocato dei poveri, che percepiva uno stipendio molto più basso rispetto alle altre figure. Poi, c’era tutta una serie di altri lavoratori che giravano attorno a quest’importante centro d’interesse, i pesatori di lana, i compassatori o agrimensori, una trentina di soldati comandati da un tenente per tenere l’ordine pubblico, i carcerieri ed ovviamente tutto ciò che occorreva per i prigionieri, i cocchieri, gli alguzzini o esecutori doganali, ed infine i cavallari, figure che operavano direttamente nelle locazioni, con speciale patente ricevuta dal Doganiere, per impartire ordini ai locati e non furono pochi i casi in cui nacquero conflittualità per abusi e vessazioni che videro anche la morte di alcuni locati che non cedevano alle loro richieste a volta assurde e disoneste. Quindi, nella Regia Dogana di Foggia, era facile immaginare quale fosse la folla che si accalcava per chiedere giustizia o per commettere sopraffazioni, sia essi baroni che locati che semplici sudditi del Regno e vista la non grande distanza tra i paesi dell’Irpinia ed il capoluogo della Capitanata, coloro che erano chiamati a rispondere nei tanti processi civili o criminali erano da considerare privilegiati rispetto a tanti altri sudditi che venivano dalla Calabria, dagli Abruzzi o da altre regioni del Regno che dovevano sottoporsi a diversi giorni di viaggio. I processi esaminati, prevalentemente di Vallata, Carife e Trevico ed hanno sfiorato anche Andretta che faceva parte della diocesi di Conza e che dista solo pochi chilometri dalla altre; a metà del 1600 aveva solo 211 abitanti, ma nel 1700, come accadde anche per altre città vicine, gli abitanti crebbero notevolmente.
        Trevico, invece, fu, per centinaia di anni, sede vescovile, suffraganea dell’Arcidiocesi di Benevento, fino al 1818, anno in cui dopo il passaggio al Regno delle Due Sicilie, fu unita alla Diocesi di Lacedonia, con la Bolla di Papa Pio VII  e, dal 1986 unita a quella di Ariano Irpino. Per questo, essendo sede vescovile e sede distaccata ma assai importante della Regia Dogana, fu sempre abitata da persone e famiglie di un elevato tenore sociale ma, per il clima sempre assai aspro, anche durante il periodo del suo massimo splendore il vicario ecclesiastico spesso preferì abitare ad Acquara, di patronato del Barone, situata nei pressi di Castel Baronia, dove il clima era più mite ed il freddo meno sferzante, tutto splendidamente raccontato da Lungarella16.
        Quando la città fu data a Consalvo da Cordoba, Gran Capitano del Re Ferdinando il Cattolico mutò il suo nome e si chiamò “Vico della Baronia”, che spesso fu utilizzato anche durante il periodo del Regno dei Borboni, ed oggi, andando in quelle zone, varie sono le indicazioni riportanti questa scritta dal sapore antico. Anche quella città, come tante altre in Irpinia, subì gravissimi danni sia alle Chiese che ai Palazzi nobiliari per i ripetuti terremoti che sempre si susseguirono in quel circondario, tra cui si annoverano  quello del 1626, del 1688, del 1694, del 1702, del 1732, del 1794, del 1910, del 1930, del 1962, per finire a quello più recente del 23 Novembre 1980.
        Il casato dei Loffredo furono i feudatari storici della città di Trevico dalla metà del 1500 fino a tre secoli dopo ed i loro possedimenti arrivarono fino ad Anzano, San Sossio, Castello, San Nicola, Acquara, Flumeri e Zungoli.
        Così come riferito da Giuseppe Maria Galanti di S. Croce del Sannio che fu lo studioso ufficiale di Ferdinando IV di Borbone per studiare le condizioni delle varie province del Regno, lo Stato di Trevico nel 1781 contava 11.301 anime, mentre nel 1792 ce n’erano 11.565; ad Ariano negli stessi anni ce n’erano 32.459 e 34.404.
        La città di Carife, invece, conosciuta nella storia come la città dei Sanniti per eccellenza portò, in epoca successiva la chiara influenza della colonizzazione romana, come testimoniano i numerosi reperti archeologici ritrovati nel suo territorio. In età feudale, a metà del 1600 era detenuta assieme a Rocca San Felice dalla famiglia del Marchese Don Francesco Capobianco, i cui eredi la detennero fino alla fine di quegli antichi diritti. La sua posizione geografica, posta sopra una collina che domina la valle dell’Ufita e distante solo pochi chilometri da Vallata, Trevico, San Nicola Baronia e Castel Baronia ed a valle confinante con i comuni di Guardia e Frigento, ne hanno fatto da sempre un luogo strategico per chi, nel tempo, ha dovuto sopravvivere dedicandosi alla secolare attività tradizionale della pastorizia e dell’agricoltura. Quelle attività, nell’ultimo secolo, avendo avuto un ruolo sempre più marginale nel contesto dell’economia di quel paese e non solo, sono state quelle che hanno provocato un vero e proprio esodo di cittadini che pure sono sempre stati molto legati alle loro origini. Nella famiglia del feudatario locale, nel 1681 si annoverò anche il Doganiere nella città di Foggia per difendere gli interessi del Re di Napoli. La Chiesa Collegiata di quella città fu dedicata al Santo Patrono, San Giovanni Battista e fu edificata dopo il terribile sisma del 1732 che a Carife fece moltissime vittime. Quella città, agli inizi del 1700 aveva un Ospedale per i pellegrini ed un Convento dei Frati Minori Conventuali di San Francesco ed una dipendenza della Congregazione di Montevergine. La famiglia del Marchese Capobianco, così come è stato possibile rilevare dai documenti esistenti presso la Regia Dogana di Foggia, ebbe sempre ottime relazioni con il casato del Marchese Loffredo di Trevico, scarse ed ininfluenti quelle con la famiglia del Duca Orsini di Gravina ed utile possessore di Vallata.
        Fu così che nel primo decennio del 1600 le attività commerciali connesse alla Dogana attraversarono un periodo di straordinaria floridezza, ma la terribile epidemia del 1611-1612 ridusse il bestiame in modo drastico ed inferse un durissimo colpo all’economia pastorale, poi, sopraggiunsero la terribile peste alla metà del secolo e l’altra carestia del 1763-1764 a rendere ancor più difficile l’evolversi di una società meridionale che ha sempre stentato a trovare dei modelli di riferimento e non v’è dubbio che il secolo decisivo, almeno per storia di Foggia fu l’800’ in cui sia pur tra la crisi del mercato della lana nazionale e l’abolizione della Dogana, cominciò ad assumere una fisionomia di città, sia dal punto di vista demografico che della stratificazione sociale e della propria identità, in ciò contribuendo in modo emblematico sia la Bonifica del Tavoliere che  l’arrivo della Ferrovia nel 1863.  

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