Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Processi dal 1782 al 1806.

Capitolo IV
__________________________________________

4.5 Processi dal 1782 al 1806.

        Nella Dg. II b. 662 f. 13709 nel 1782 Don Bartolomeo Pavese e Giuseppe Nigro di Vallata, intentarono prima un’azione civile contro Don Carlo del Sordi e poi, durante il processo, anche contro il Possessore di Vallata.  Il fatto fu che Don Carlo del Sordi era un ordinario Locato della Regia Dogana di Foggia, nella locazione di Cornito, zona che andava da Ascoli verso Borgo Libertà ed a quel Tribunale dei locati si rivolse per un caso che riguardava una società fatta con Pavese e Nigro nel Settembre 1781. Questi tre, ad ultima estinzione di candela, nel Palazzo Ducale di Vallata presero in affitto “a capo salvo”, tipico contratto di soccida, una Masseria dell’Ill.mo Eccellenza il Possessore di Vallata, per un triennio, alla ragione di ducati 67 per ogni centinaia di pecore che avrebbero trovato. Quando andarono nella Masseria trovarono 799 pecore tra grosse e piccole, tra sterpe e pregne oltre a settantasette capre e, redigendo l’atto d’impegno con l’agente del Duca in data 12 Settembre anche alla presenza del funzionario della Corte di Vallata, s’impegnarono “in solidum et penes acta” a pagare il dovuto estaglio annualmente ed in anticipo al Possessore e, al termine dei tre anni, avrebbero dovuto restituire la Masseria come l’avevano trovata, con lo stesso numero di pecore e della stessa qualità. Ciò fu quanto si evinceva dal documento presentato alla Regia Dogana di Foggia innanzi al Giudice Don Angelo Polacchi ed al Mastrodatti Signor Palladino. Una volta fatto l’atto, i tre soci, si divisero equamente tutte le pecore ed ognuno prese la propria strada. Ma, subito avvenne la prima storia tra i tre perché Don Carlo del Sordi se le portò nella sua Locazione di Cornito, assieme alle altre pecore di sua proprietà “mostrando un’autorità mai vista prima d’allora”, ma questo, secondo Don Bartolomeo Pavese e Giuseppe Nigro, non lo poteva fare “perché quella Commenda Ducale ha un suo posto ben specifico per far pascere gli animali”. Poi, i due avevano saputo che Don Carlo del Sordi aveva fatto domanda alla Regia Dogana per una dilazione del pagamento che avrebbe dovuto fare e manifestarono tutta la loro insofferenza a riguardo perché si sentivano moralmente obbligati a lui e tutti e tre nei confronti del Duca. Poi, avendo anche saputo che Don Carlo aveva venduto il cacio e le lane di quegli animali si chiesero perché mai ancora non avesse ancora pagato la sua quota che era la terza parte. Inoltre, si era saputo in giro che Don Carlo aveva dei debiti occulti e la loro preoccupazione cresceva, visto poi che le pecore stavano tanto lontana da Vallata e fuori da ogni possibile loro controllo. Quelle loro dichiarazioni le resero entrambi innanzi al pubblico ufficiale dove avevano manifestato tutte le loro perplessità e timori; ma, queste si materializzarono quando comparve un atto del Notaio Novia Celestino che riferì che: “ parte delle pecore e delle capre sono state trafugate ed altri soggetti, invece no, perché risultavano colpiti dalla rogna e, la stessa cosa, successe anni addietro, nel triennio 1778-1781, allorquando morirono anche altre pecore per le abbondanti nevicate”. Il notaio celestino Novia, concludeva così : ”allora, come oggi, gli animali interessati da quella moria erano principalmente quelli di Don Carlo del Sordi che aveva preso in affitto sempre le pecore del Duca, quindi, il suo comportamento è recidivo”. Ma, alla sfortuna di Don Carlo del Sordi non c’era un limite, attraversava distratto la strada quando subì pure un incidente, rimanendo ferito da un carretto il cui conducente l’aveva lasciato incustodito. Tutti gli atti furono avocati da Vallata a Foggia ed il Notaio Novia Celestino provvide a fornire tutti gli atti e la documentazione del caso. Ma, essendo passato il termine fissato per il pagamento al Duca e visto che questi non provvide alla sua obbligazione, fu arrestato e tradotto nelle carceri di Vallata, anche se non in buone condizioni e gli altri due furono chiamati a Foggia dalla Dogana a rispondere in solido e a provvedere entro sei giorni a pagare la parte del socio. Questo fatto scatenò l’ira di Don Bartolomeo Pavese e Giuseppe Nigro che, oltre alla causa contro il del Sordi, ne promossero un’altra, ricongiunta a questa, contro il Possessore di Vallata, che secondo loro esagerava nel suo comportamento. Don Carlo del Sordi, con atto del Notaio Novia si fece rappresentare a Foggia da Don Alessandro Sorrentino, con i due testimoni che furono Pasquale Quaglia e Vincenzo Crincoli; mentre Giuseppe Nigro e Don Bartolomeo Pavese si fecero rappresentare da Carmine Turitto di Vallata e l’atto fu firmato dal Notaio Don Nicola Cataldo. Intanto, il 3 Novembre 1782  stando il del Sordi ancora in carcere, si recarono lì due medici di Vallata ed alla presenza del Notaio Celestino Novia scrissero così su di una pergamena allegata al processo  : ” Oggi, 3 Novembre 1782, siamo venuti in carcere io Mag.co Don Gaetano Mirabelli e io Mag.co Don Giuseppe Cataldo e, come medici condotti di Vallata, abbiamo veduto il nostro cognito Paesano ed abbiamo veduto che lo stesso stava acciaccato di petto con una grande e forte tosse e patisce ancora di ernia indistinale, li quali morbi, stante la vecchiaia di esso del Sordi, possono privarlo di vita, tanto maggiormente se lo stesso dovesse stare racchiuso ancora dentro le carceri, mentre queste sarebbero causa di approssimazione di morte al suddetto paziente.”  Seguì poi una lettera di Don Alessandro Sorrentino, procuratore di del Sordi che disse che quel morbo per le pecore non era prevedibile e che da parte di Don Carlo non vi fu mai nessun dolo, e poi  anche per le pecore rubate, questi non aveva nessuna colpa, era solo la sfortuna che lo perseguitava. Ma, nel frattempo, furono raccolti i ducati necessari a cautelare la posizione di del Sordi, per cui Don Alessandro Sorrentino supplicava la Ducal Casa a prendere in esame la richiesta di rilasciare il malcapitato perché non c’era più problema sul fatto che pagasse l’estaglio e che se la risposta fosse stata affermativa, bisognava comunicarlo subito alla Regia Dogana. Poi, comparve un atto del Giudice Don Angelo Polacchi,  che avendo preso in esame una lettera dell’Agente del Duca, scrisse che : “non c’è più motivo di tenerlo in carcere perché l’obbligo è stato assolto ed anche il Possessore di Vallata si ritiene soddisfatto” e questo fu confermato anche dal Giudice Liunno della Ducal Corte e dai due testimoni: Don Alessandro Tanga e Don Cesare Zamarra, con sigillo de notaio Celestino Novia. Infine, comparve un altro atto con il quale l’utile possessore di Vallata nonché Duca di Gravina, tramite il Notaio Gaudenzio Preti della città di Termoli, fece sapere che per lui il caso era da considerarsi chiuso e così il contratto a suo tempo sottoscritto lo ritenne nullo e quindi non valido per i successivi due anni.
        Nella Dg. II serie, b. 817 f. 16652, nel 1782 i fratelli Cataldo di Vallata e Santo Pelosi, sposato con Elisabetta Strazzella della stessa terra, ebbero come avversario Don Carlo del Sordo. Ci furono dei contrasti tra loro non spiegabili, perché precedentemente, il figlio di Don Carlo, Vito Nicola, nato il 22 Gennaio 1778, era stato finanche battezzato dal Dottor fisico Don Giuseppe Cataldo e sua moglie. Ma, Don Carlo, non corrispose l’affitto della casa ai suoi locatori e, in seguito, aggiunse altri debiti che aveva contratto con loro ed allora, i fratelli  Savino ed Antonio Cataldo figli del quondam Francesco Cataldo, all’epoca dei fatti abitanti a San Sossio, unitamente a Don Santo Pelosi di Vallata, vantando un credito di 516 ducati, decisero di muovere azione civile contro di lui per evacuare la casa dove abitava Don Carlo con la famiglia . Ma, nel frattempo, questi morì e lasciò vedova Maria Troccoli moglie di secondo letto, con i figli minori. Allora, nel giudizio che si stava svolgendo a Foggia, subentrò il cognato di Don Carlo, il Notaio Vincenzo Troccoli di Rocchetta che era, allo stesso tempo, anche lo scrivano doganale responsabile degli atti di competenza della Regia Dogana in quella sede. Fu una lunga causa perché il notaio, fratello di Maria Troccoli vedova del defunto Don Carlo, divenne il tutore di quei minori e si oppose strenuamente a che la sorella ed i nipoti lasciassero la casa palazziata affittata sin dal 1782 oltre ad un grande magazzino sottostante, confinante con casa Gallicchio.  Il notaio oppose mille pretesti e, nel frattempo morì anche Don Santo Pelosi, che per diversi anni si occupò del funzionamento della Doganella di Ariano, ma la causa fu portata avanti dai figli Alessandro e Pietro. La causa fu vinta dai ricorrenti, ma solo nel 1790, dopo 8 anni di dibattimenti e solo perché in quell’anno, il primo dei figli minori di Don Carlo raggiunse la maggiore età ed i giudici, allora, poterono prendere  quella decisione che ritardarono deliberatamente fino ad allora. Il Notaio che redasse tutti gli atti fu il Notaio Gallo di Vallata.
        Nella IX - Processi criminali – b. 75 f. 1516 il 3 Maggio 1782, ci fu la denuncia del Rev.do Padre Don Vincenzo lo Monaco, accompagnato dal fratello Santo contro Don Nicola Rosato e suo figlio Vito, per una ferita provocatagli. Il fatto accadde a Vallata, città natale di tutti i soggetti interessati alla causa perché alcuni giorni prima Padre Vincenzo, noto locato della regia Dogana di Foggia, assieme a suo fratello Santo, si recarono a casa Rosato per riscuotere degli annui censi e, dopo essere stati ben ricevuti, tornarono indietro perché si resero conto che mancavano 7 carlini e mezzo, quale interesse per i ritardati pagamenti. Ma, quando padre Vincenzo parlò, Don Nicola Rosato che aveva preso in affitto le terre da lui, gli gridò contro: “ Ciavarro, Cornuto, Cornutone, Svergognato, Ti voglio rompere le corna…, et alias iniquas ingiurias”. Poi, Don Nicola, rivoltosi verso i figli, li incitò a scagliarsi contro e così fu che quello maggiore, Vito, prese un attrezzo chiamato “Zappullo di Ferro” e gli tirò: “ uno smisurato colpo in testa”, causandogli una ferita assai grave con effusione di sangue. I due fratelli si ritirarono e quello che fecero prima di andar via fu di tirare dei sassi contro la casa dei Rosato. Da non molto lontano, ci furono pure due persone che assistettero a quella scena: Don Crescenzio Furia, massaro di campo di anni cinquanta e Donato Cirillo di anni 42, servitore del palazzo del Duca di Vallata. Allora, Santo lo Monaco andò alla Regia Dogana di Foggia e denunciò l’accaduto, raccontando che il fratello sacerdote non era potuto venire in quella sede perché si trovava infermo ed operato nella città di Vallata e chiese che i due, Nicola il padre e Vito Rosato il figlio, fossero arrestati immediatamente. La Regia Dogana di Foggia, nella figura del Presidente Don Filippo Mazzocchi, scrisse che non poteva operare in quel senso se non si fossero messi agli atti prima le testimonianze di coloro che avevano visto la scena ma, bisognava ascoltare anche chi aveva operato il sacerdote e, per fare tutto ciò, era necessario che il processo si spostasse prima a Trevico presso l’ufficiale doganale della zona che era Don Daniel Paglia e poi, sarebbe ritornato a Foggia per il giudizio finale. Così, a Trevico furono ascoltati prima Don Crescenzio Furia e Donato Cirillo, poi il Dottor Fisico e cerusico Dottor Michele di Netta, che affermò che lui era subentrato in seguito per la cura ed i dolori alla testa, ma chi operò il sacerdote fu il barbiere Francescantonio Pavese di anni cinquantuno, “esperto e prattico chirurgo” della città di Vallata. L’Ufficiale Doganale prese tutte e quattro le deposizioni e rispedì il processo a Foggia dove nel frattempo il Presidente fece recapitare a Vallata una lettera ai Rosato padre e figlio che per il 19 Luglio erano “citati ad informandum” che c’era l’udienza che li riguardava e che se non si fossero presentati, era prevista per loro un’ammenda di 100 ducati. Nel frattempo Don Nicola e Vito Rosato si presentano a Trevico innanzi a Don Daniel Paglia e fecero richiesta di  una “DILATIO AD AQUAS” del processo(=dilazione fintanto che arrivassero le acque), e nell’ atto scrissero che non avrebbero chiesto più altre dilazioni dopo quella e che non si sarebbero potuti presentare a Foggia perché faceva terribilmente caldo e perché le condizioni in quella città erano a rischio di vita; poi, fecero scrivere un atto dal notaio Andrea Sauro nel quale si disse che erano in attesa di un ulteriore atto notarile nel quale, a breve, vi sarà una remissione della loro colpa che il sacerdote secolare Don Vincenzo lo Monaco invierà in quella sede competente del tribunale dei locati. Infatti, il 12 Settembre comparve un atto sempre dello stesso Notaio Andrea Sauro e recapitato a Palazzo Dogana, nel quale si scrisse che tutti erano convenuti nel suo studio e che “da questo momento i due imputati s’impegnano a vivere da veri cristiani e timorati di Dio, onoreranno il signore Gesù e pentendosi di vero cuore di quello che avevano fatto, da adesso in poi, seguiranno le leggi del Vangelo”. Questo atto di remissione piacque molto anche al nuovo Presidente della Regia Dogana Barone Don Hieronimus Mascaro che aveva appena sostituito Don Filippo Mazzocchi ed il 23 Dicembre 1782 emise la sua sentenza definitiva, assolvendo i due imputati, dopo una roboante formula che riporto fedelmente con imprecisioni ed in una lingua latina maccheronica, all’insegna dei tempi: “ Ego, Baro, Don Hieronimus Mascaro, Miles et Patricius Salernitanum...de vulnure cum magna sanguinis effusione et incidentis, vulgo detto Zappullo di Ferro, in personam Reverendi sacerdotis Don Vincentii lo Monaco ac de ordine et mandato in vulnure pectore et capiti et de minus at atrocibus iniuriis, eodem tempore publicae prolatis supplicantis Vito et Nicalam Rosato, tollatur mandatum, et amplius non molestantur, et ita, sita sint”. Questa decisione fu inviata alla Corte di Vallata, affinché se ne prendesse atto e non si dessero più problemi a Nicola e Vito Rosato.
        Nella Dg. II, b. 670, f. 13804, vi fu una causa nel 1783 dove c’era scritto: “Atti civili ad istanza del Dottor Fisico Don Gaetano Mirabelli di Vallata contro Don  Francesco Saverio e Michele Cirillo della stessa terra”.  Il fatto fu che Don Gaetano Mirabelli, noto locato della Regia Dogana di Foggia, si rivolse come prima cosa presso la Corte di Vallata perché lui aveva alcuni territori alberati e seminativi in un luogo nelle pertinenze di Vallata detto Partelagane e, sin dal 1777, furono comperati 5 tomoli di terra a sua insaputa dai due citati Cirillo che erano padre e figlio e così fece scrivere: “Io credo Ill.mo Signor Giudice che trattasi di un contratto simulato anche perché a pensarlo è stato il Mag.co Don Carlo Pisano, che sta in questa terra solo per breve tempo”. Pertanto il Dottor Mirabelli invitò il Mag.co Pisano a comparire presso la Corte Locale di Vallata ed assieme a lui provasse e sperimentasse le ragioni del congruo (= diritto di prelazione). Il primo atto che comparve fu quello dell’agente del Duca, Signor Polacchi, che affermò che bisognasse produrre tutti gli atti e così procedere all’accertamento dei fatti. I Cirillo, sottovalutando il problema, in un primo momento non si presentarono all’udienza, adducendo nell’atto fatto al loro procuratore Crincoli Vincenzo che erano impegnati nelle operazioni di vendemmia e poi si sarebbero anche presi un po’ di riposo perché stavano arrivando le ferie autunnali. Poi, si cominciarono a ricredere di fronte all’aggressività del Dottor Mirabelli che produsse molti atti originali e portò anche dei testimoni a suo favore. A quel punto i Cirillo giocarono d’anticipo e non fidandosi degli intrighi di Corte a Vallata, presentarono un atto d’inibitoria alla Regia Dogana di Foggia, chiedendo espressamente per quale motivo quelle competenze che erano tipiche di quel Tribunale, essendo il Dottor Mirabelli anche un ricco possidente di bestiame, dovessero, invece, essere discusse a Vallata. Questo atto che produssero i Cirillo provocò immediatamente i suoi effetti poiché il processo fu trasferito a Foggia e fece infuriare ancor di più il Dottor Mirabelli, che presentò memorie, documenti ed atti tendenti a screditare i Cirillo, tanto che il Giudice di Foggia gli chiese di non utilizzare deduzioni ed argomentazioni che non attenessero il processo, anzi, tutti erano invitati, in un ragionevole tempo, a produrre gli atti per interpretare la storia. I primi che furono portati alla Regia Dogana furono le due procure, quella del Dottor Mirabelli che nominò Don Biase del Mare suo fiduciario per tutti gli atti da fare o da inviare a terzi, la stessa procura appare da parte di Don Francesco Saverio e Michele Cirillo che nominarono loro procuratore Don Carmine Turitto di Vallata. Entrambe le procure furono firmate dal Notaio Celestino Novia. Nel dibattimento il Dottor Mirabelli chiese al Giudice che entrasse nel merito del prezzo pagato, 20 Ducati, pochi secondo lui, e se il valore fosse un valore di mercato reale e così espose la storia: “Ad Ottobre 1777 fu fatto un atto in cui il Notaio Martinez Novia fu ingannato, perché si stipulò un contratto di cessione e transazione che in realtà era di compravendita, tra i due Cirillo ed il Mag.co Don Carlo Pisano, marito della Mag.ca Teresa lo Sapio”. Il Giudice continuava ad incalzare il Dottor Mirabelli sul perché lui fosse tanto interessato proprio a quei cinque tomoli ed ad un certo punto affermò: “ come mostrano le carte che ho portato, quei 5 tomoli furono promessi in dote dalla Mag.ca Donna Teresa, moglie di Don Carlo Pisani alla nipote, Donna Beatrice, nei capitoli matrimoniali a tempo redatti”.  Il medico di Vallata, nonostante presentò l’atto per farsi rappresentare, era sempre lui, che vigilava, faceva suppliche e presentava istanze varie del tipo: “Sarà che si è fatto tutto ciò per tacere il prezzo del territorio? ”. I  Cirillo, al contrario, dissero che erano molto affezionati a Donna Teresa lo Sapio e che loro, per lei, avevano fatto celebrare 20 messe, donando al sacerdote 20 Ducati ed era logico che poi il marito, il Mag.co Don Carlo Pisano, li considerò bravi e degni di quei 5 tomoli ed aggiunsero che quelle cose le potevano andare a chiedere anche a colui che aveva ricevuto quei soldi, il sacerdote Don Felice Villano, anzi, “chiediamo che i nostri testimoni siano Don Giacomo Gallicchio sacerdote e Don Pietro Pelosi, scrivano della Corte di Vallata, perché entrambi a conoscenza dei fatti”. Dal Giudice furono dati 6 giorni di tempo ai testi per venire a Foggia e rendere la loro deposizione di fronte all’ufficiale doganale. I due testi Gallicchio e Pelosi raccontarono che i Cirillo erano persone di Chiesa, lavoratori e non avrebbero mai potuto nemmeno lontanamente immaginare che avessero potuto mistificare quell’atto. I testimoni del Dottor Mirabelli avallarono, invece, le tesi del medico e questi furono Pietrantonio Cautillo, Erberto Magaletta, Bartolomeo di Stefano, Domenico di Maggio. Il Dottor Mirabelli presentò anche un suo Memorandum che avallava secondo lui tutte le sue ipotesi, i cui punti salienti si potevano così riassumere: 1) Fin da quando Beatrice Mirabelli si maritò con il Notaio Antonio Novia, le furono assegnati in dote un territorio con alberi da frutto e seminativi in località Partelagane per volere del padre Michelangelo Mirabelli che era suo padre; 2) Ma, quest’ultimo scrisse pure che assegnava in dote alla Mag.ca Donna Teresa lo Sapio, sua nipote, quel terreno di 5 tomoli, quando si sarebbe sposata con Don Carlo Pisano che a quel tempo viveva nella terra di M. Miletto; 3) Don Carlo, sin da quando fu assegnato in dote quel terreno a Beatrice Mirabelli, le diede anche il pacifico possesso, tanto che la moglie Donna Teresa lo Sapio l’affittò a Domenico di Maggio e l’estaglio lo dava direttamente a Beatrice; 4) Ma, nel 1775 Donna Beatrice Mirabelli passò a miglior vita quando stava nella terra del marito a M. Miletto e fu allora che Francesco Saverio, padre di Michele espulse il colono di Maggio e, siccome Don Carlo Pisano non stava mai a Vallata perché preferiva stare nel suo paese; 6) i Cirillo se ne impossessarono e, al momento sono passati 8 anni da che ciò avvenne; 7) Successe poi che don Michele Cirillo divenne sacerdote e, parlando di questa storia dei 5 tomoli con Don Carlo Pisano, concordarono la messa in scena della falsa transazione e delle 20 messe a 20 ducati. La Regia Dogana di Foggia, chiese formalmente al Dottor Mirabelli, che se lui era così convinto di ciò che andava affermando, avrebbe potuto chiedere prima un parere alla Camera della Sommaria circa il prezzo che si sarebbe dovuto pagare per quel terreno e poi che chiedesse un giudizio finale alla Gran Vicaria a Napoli. Ed il Dottor Mirabelli così fece ed accertò che il valore del terreno era di 37 ducati poi, depositò cautelativamente i denari nelle mani di una persona di sua fiducia a Vallata, il notaio Don Nicola Cataldo ed infine chiese un giudizio finale alla Gran Vicaria. Questa, per mezzo del Presidente Barone Geronimo Mascaro, patrizio dei Salernitani così sentenziò : “sono nulli tutti gli atti, sia quelli del Mirabelli, sia quelli dei Cirillo, ma che comunque nessuno poteva costituirsi un patrimonio su dei beni matrimoniali, ma essendoci negli atti civili gravi vizi procedurali, errate impostazioni di difesa e deduzioni senza fondamento, si rimette tutto nuovamente alla Corte di Vallata e sia questa a decidere l’utilizzo dei 5 tomoli e delle due casette sopra esistenti”- Napoli 9 Agosto 1784. Il Dottor Mirabelli andò subito all’attacco e scrisse al Duca di Vallata affinché si facesse finalmente giustizia; il sacerdote Don Michele Cirillo, invece, andò dal Duca e fece una proposta diversa e che trovò immediato accoglimento: “ si dia il terreno e le case a due bisognosi veri  e che tutti qui a Vallata conoscono”. Comparve subito un atto del Comune di Vallata che disse che c’è un tal Giovanni Cornacchia che va di casa in casa a chiedere l’elemosina, povero che tutti lo sanno e che si accontenta sempre di quello che la gente gli da ed ugualmente, in uguale condizione, sta Luca Melfi, come questa amministrazione può testimoniare. Sindaco Mag.co Don Pasquale Netta, Notaio Andrea Sauro capo eletto, Mag.co Don Nicola Cataldo eletto e Michelangelo Garruto cancelliere del Comune di Vallata. Il Notaio Cataldo redasse l’atto, con i testimoni Dott. Don Ippolito Zamarra e Don Nicola Silla.
        Nella Dg. II b. 183 f. 9362 il 26 Dicembre 1783 a Vallata presso lo studio del Notaio Andrea Sauro convennero innanzi ai testimoni Mag.co Don Michele Pelosi e Michele Ciasca della stessa terra, Don Pietro Fischetti che sottoscrisse una cambiale a favore di Vincenzo Lo Russo di Trevico, nella quale questi s’impegnava a restituirgli i 44 ducati ed otto carlini e mezzo in due volte; la prima volta subito nell’entrante mese di Gennaio del 1784, con la restituzione di 25 ducati e, la seconda volta nel mese di Agosto dello stesso anno con la restituzione dei restanti 19 carlini ed otto e mezzo. Nel caso che Vincenzo Lo Russo non avesse restituito nel mese di gennaio il 1° pagamento, si sarebbe potuto da subito richiedere tutta la somma. Ma, dopo un regolare pagamento dei primi 25 ducati, successivamente vi furono dei problemi di solvibilità, nonostante in più riprese Lo Russo avesse avuto dei piccoli pagamenti girati a Pietro Fischetti che non intentò alcun giudizio nei suoi confronti, almeno fino a quando il 28 Maggio 1787, l’alguzzino straordinario della Regia Dogana Vincenzo Lo Russo, non morì ammazzato. Infatti, il 12 Dicembre presso la suddelegazione dei cambi di Foggia, Pietro Fischetti fece presente di vantare ancora un credito di nove ducati e, nonostante fosse andato dalla vedova Maria Atonia Lavanga, madre e tutrice dei suoi tre figli minori, non ebbe alcuna soddisfazione, mentre il quondam Vincenzo s’era impegnato anche per conto dei suoi eredi. Il Presidente della Regia Dogana nonché della suddelegazione dei cambi di Foggia chiese formalmente all’ufficiale doganale di Trevico Don Daniel Paglia di sapere se Maria Antonia Lavanga intendesse essere considerata la tutrice e la curatrice dei minori, perché se così non fosse stato, occorreva nominarne uno in sua vece. Con la risposta affermativa venuta da Trevico, si procedette, anche su indicazione della suddelegazione dei cambi, ad effettuare un preventivo sequestro di beni per una somma vicina ai nove ducati di debito. Così, Giovanni Addesa, alguzzino straordinario della Regia Dogana a Trevico, dopo aver notificato l’atto nelle mani della vedova, gli sequestrò in casa “una scoppetta e due caldare di rame”, affidandole in seguito alle cure di Domenico Salerno di Trevico, il quale, in seguito, recatosi a Foggia, si mise a disposizione del volere di quella Regia Corte, per ogni ulteriore decisione in merito alla roba sequestrata. Nel frattempo fu allegato al processo anche la dichiarazione del Sindaco Pasquale Bonavita e dei due eletti, Nicolò Cuoco e Pasquale Liscio, facenti parte dell’Unità per il Buon Governo della Città di Trevico, nella quale veniva dichiarato che Vincenzo Lo Russo, passando a miglior vita, lasciò tre figli viventi e minori di nome Nicolò, Crescenzio e Rocco e di essi se ne occupò sempre la madre Maria Antonia Lavanga, a cui furono lasciate una vigna, una masseria ed alcuni territori, quindi era da considerare solvibile. Ma, a quel sequestro la vedova fece opposizione in data 21 aprile 1788 ed il Presidente Don Nilo Malena le diede 4 giorni di tempo per comparire innanzi alla Regia Corte. Ma, la vedova decise di non presentarsi, nominando suo procuratore Don Antonio Giannini di Trevico che accettò e presentando la procura fatta davanti al Notaio Timoteo Pagliarulo ed ai testimoni Rocco e Benedetto Salerno, rilasciatogli dalla vedova Maria Antonia Lavanga, lasciò la sua deposizione innanzi alla Regia Corte di Foggia. Qui, innanzi al giudice ed al presidente del tribunale, fece mettere a verbale la seguente dichiarazione : “poco prima di essere ammazzato, Vincenzo Lo Russo aveva pagato altri 5 ducati a Pietro Fischetti, avuti per alcuni suoi servigi svolti a favore di alcuni cittadini di Vallata e, dopo essere stato ammazzato, dopo un piccolo lasso di tempo, la vedova andò pure ad offrigli i restanti 4 carlini, ma il creditore non accettò quel pagamento perché già sapeva che erano partite le lettere d’esecuzione nei confronti degli eredi del quondam Vincenzo Lo Russo”. Ma, nonostante ciò, Don Antonio Giannini non fu creduto, perché il 6 Maggio 1788 l’Ufficiale Doganale Don Daniel Paglia e l’alguzzino straordinario Saverio Zingariello di Trevico, notificarono l’atto d’esecuzione dei 9 carlini e degli altri 8 e mezzo alla vedova che, entro 4 giorni o provvedeva al pagamento o avrebbero venduto la scoppetta e le due caldaie di rame.
        Nella Dg. II b. 693, f. 14376 nel 1784 vi fu una causa con questa intestazione “Atti civili  tra Mauro di Gennaro di Vallata contro i fratelli Pavese: il notaio ed avvocato Francesco Antonio, il Mag.co Don Vincenzo ed il Rev. Padre Don Giuseppe della stessa terra”- Diritto di prelazione vantato dall’attore commerciante di cacio per l’acquisto di un comprensorio di case attigue alla sua abitazione. Mauro di Gennaro si recò alla Regia Dogana di Foggia e pur essendo consapevole di non essere abilitato da quel Tribunale, chiese di poterlo essere almeno in questo caso che lo vedeva contrapposto ai fratelli Pavese di Vallata, perché lui era un compratore di cacio pugliese dei locati più importanti della sua zona, come potevano testimoniare i due atti che portò con se: quello del Signor Marchese Girolamo Susanna di Zungoli, recante il timbro del Notaio Innocentino Faratro di  “Terra Zuncolorum” che affermava che il di Gennaro era un noto commerciante di prima mano di cacio ed il secondo recante il sigillo notarile del Notaio Andrea Sauro di Vallata, in cui Biase e Giuseppe Bortone confermavano che da 5 anni vendevano il loro formaggio al di Gennaro, negoziante di prima mano, sito nella loro stessa città di Vallata. La Regia Dogana, autorizzò lo svolgimento del processo a Foggia ed invitò le parti a presentare i documenti. Il primo atto che comparve fu quello del Rev.do Don Giuseppe Pavese che dichiarandosi legittimamente impedito, nominò suo procuratore a rappresentarlo in tutti gli atti Don Nicola Cataldo. L’atto fu firmato dallo stesso Nicola Cataldo che era anche Notaio a Vallata, con la testimonianza di Giovanni Pavese ed Angelo Cornacchia. Così, Mauro di Gennaro iniziò a spiegare come due anni addietro, alla morte del Dottor Don Carmine Pelosi di Vallata, i suoi eredi vendettero al notaio Francesco Antonio ed al Mag.co Don Vincenzo Pavese un comprensorio di case che confinava con casa sua (=del supplicante) e volendosi adesso servire del diritto di prelazione su quelle case, motivo per il quale ricorse a quella corte, chiese : “venga prima di tutto fatta una ricognizione dei confini tramite ufficiali di fiducia della Regia Dogana e poi che venga subito ordinato il rilascio dell’area destinata a cortile contestato e delle mura mezzanili confinanti con i fratelli Pavese perché ho già pronti i soldi e sono pronto a comprare”, e poi chiedeva che qualora i fratelli Pavese volessero subito vendere quelle case, lo dovevano avvertire perchè solo lui e nessun altro poteva acquistarle. Il Mag.co Don Vincenzo Pavese disse che la sua porzione di casa palazziata l’aveva comperata dagli eredi Pelosi per 306 Ducati e che questi gli cedettero, come scritto nell’atto, anche “il diritto di ritrazione sulle mura di inframmezzo” confinanti con il di Gennaro, nel senso che, se avesse voluto costruirvi, avrebbe potuto farlo, e che quel diritto di ritrazione non significava quello che il di Gennaro maliziosamente andava raccontando. In particolare Don Vincenzo Pavese affermava che lo “ius ritraendi”, significava che quel suo diritto, acquistato con un regolare atto pubblico dai venditori, era un vero e proprio diritto di prelazione, facente parte del diritto ereditario, applicato tra parenti e, a lui come ai fratelli, quello ius di ritratta avrebbe potuto consentire di vendersi ad altri quel diritto, oppure, avendo competenze su quel largo con quelle mura mezzanili, avrebbe potuto anche chiuderlo e costruirvi all’interno. Poi, il Mag.co Don Vincenzo Pavese, fece la cronistoria di come il di Gennaro si trovasse lì, in basso della loro casa palazziata, avendo questi comperato nel 1780 un locale dai fratelli Francescantonio ed Arcangelo Patetta per ducati 26.65 come appariva dal contratto di acquisto, un vero e proprio atto di ritorsione fatto dai due fratelli Patetta al Dottor Don Carmine Pelosi, per la vecchia storia relativa ai capitoli matrimoniali della sorella Donna Caterina, loro sorella. Quindi, una volta che lui ed i fratelli avevano acquistato dagli eredi Pelosi, quella triste storia del basso al di Gennaro se lo trovarono loro, ed ora si ritrovavano coinvolti con il venditore di cacio. Il Mag.co Don Vincenzo continuava esponendo le sue ragioni e diceva: “quale ius di ritratta poteva avere lui, quando il Dottor Don Carmine Pelosi quella casa l’aveva acquistata nel 1769 dalla Cappella di San Vito?Ed è perfettamente inutile che il di Gennaro vada in giro ed anche nella Corte ducale di Vallata dicendo a tutti di voler acquistare la casa perché ha i soldi pronta cassa”. Allora la Regia Dogana di Foggia tramite il segretario Angelo Polacchi, chiese all’agente del Duca di Vallata ed al giudice Palladino della stessa Corte che si disponesse una ricognizione dei confini, cosa che avvenne regolarmente perché fu incaricato del problema Don Daniel Paglia di Trevico, presso cui comparvero tutti e tre i fratelli Pavese e Mauro di Gennaro, in data 29 agosto 1784. In particolare, in quella sede il di Gennaro chiese di verificare i confini e le competenze ed in maniera abbastanza diretta chiese a Don Daniel Paglia se potesse entrare lui, in veste di Ufficiale Doganale a controllare e seguire più da vicino il lavoro dei periti che si sarebbero dovuti nominare, così che lui, immediatamente avrebbe potuto ordinare il rilascio del cortile che aveva comprato dai fratelli Patetta. In quella stessa sede Mauro di Gennaro, disse che se non avesse avuto soddisfazione, avrebbe anche chiesto di indagare sul valore del congruo, perché la cosa non gli quadrava e c’era sicuramente chi stava mentendo. Allora, dopo l’accettazione dell’incarico da parte dell’Ufficiale Doganale Don Daniel Paglia che mise per iscritto che si sarebbe speso al meglio per garantire un equo giudizio, comunicò alla Regia Dogana che tutti erano pronti a che i tecnici adempissero al lavoro di verifica. Allora, il Presidente della Regia Dogana d’Apulia, barone Geronimo Mascaro che lo era anche per la “Dogana Aprutiis et omnibus aliis locatis”,  nonché Presidente della Camera Sommaria di Napoli, nonché “Miles et Patricius Salernitanus”, nel nome di Ferdinandus IV, “Dei Gratia Rex”, ordinò che i periti nella causa tra i f.lli Pavese ed il di Gennaro  fossero i due muratori di Vallata, Pietro di Lorenzo e Vito Fischetti, perché capaci in quel genere di cose ed esperti e non nuovi nel vedere “le ragioni della confinazione”. Ma, quando i f.lli Pavese ricevettero l’avviso relativo alla nomina dei periti, si recarono immediatamente dall’Ufficiale Doganale Don Paglia a Trevico e dissero che si sarebbero aspettati almeno qualche tecnico agrimensore ma non due muratori ma, in particolare, loro rigettarono la nomina di Pietro di Lorenzo e così scrissero nell’istanza:  “perché è un miserabile e soggetto al vino, esprime giudizi con relativa sentenza nelle taverne ed un giorno dice una cosa, ed un altro giorno cose diverse, quindi sospetto e manipolabile nei suoi giudizi”. L’Ufficiale Doganale scrisse a Foggia e qui, lo stesso Presidente  della Regia Dogana, nominò al posto di Pietro di Lorenzo, un altro muratore, Vito Cautillo. Questa volta la nomina non fu gradita da Mauro di Gennaro, avendo gradito proprio l’escluso, ma finì con l’accettare, ma chiese e fece mettere agli atti : “queste cose bisogna concordarle prima e non dopo”. Allora, i due muratori che furono nominati, si recarono, come per prassi, dall’Ufficiale Doganale di Trevico ed accettano l’incarico in data 5 Novembre 1784 e si dichiarano disponibili a fare il lavoro di ricognizione loro ordinato e, prima di iniziarlo  misero nero su bianco, ammonendo subito i f.lli Pavese che per la data di Sabato 24 Novembre era bene che si fossero fatti trovare disponibili per le misurazioni, e magari loro due avrebbero pensato ad avvertire anche gli eredi Pelosi affinché si rendessero disponibili per quella stessa data. Il di Gennaro, corse subito dalla vedova del Dott. Don Carmine Pelosi che era tutrice del minore Bartolomeo ed in presenza dei suoi figli maggiori, il notaio Don Michael Pelosi e dell’altro suo fratello, il sacerdote Giuseppe, gli chiese se gli potesse rilasciare un atto col quale si attestasse che lui da sempre aveva comprato il loro cacio e che dal 1780 stava in quel locale di basso e che mai aveva arrecato disturbi a tutti loro. Quell’atto gli fu fatto in quei termini e velocemente Mauro di Gennaro lo portò a Foggia, facendolo includere nel processo. Intanto, arrivò il giorno della perizia ed i due muratori, Vito Fischetti e Vito Cautillo si recano con Don Michael Pelosi a casa dei f.lli Pavese nel luogo detto “le Fossate di Levante”, ed iniziarono le misurazioni. Questi, alla presenza degli attori e dell’ufficiale Doganale scrissero: la casa di sotto vecchia del di Gennaro che confina con il giardino-cortile è di 36 palmi, il muro dietro la stalla, alla parte occidentale, confina con li detti Pavese e misura 24 palmi, il muro davanti di detta stalla confina con il giardino dei Pavese, poi c’è un appoggio di sette travette o “chianelle” nel muro dei Pavese, poi c’è il muro davanti che corrisponde alla strada pubblica che attacca con il giardino che di sua lunghezza è di 25 palmi ed attacca col muro del notaio Pavese, ed infine c’è il muro mezzanile a Levante di Don Vincenzo che è di palmi 30 che attacca con il muro di Gennaro e con il giardino. Poi, c’è un altro spuntone di muro, ossia una Loggia di detto Pavese che attacca alla stalla di Mauro di Gennaro che è di palmi 13. Tutto scritto, con periti, tecnici e testimoni vari e tutto venne mandato a Foggia. Passò un mese ma la sentenza tardò ed il di Gennaro stanco di attendere si recò a Palazzo Dogana dove fece istanza e chiese : “si faccia presto ad arrivare alle conclusioni!!!”. La Regia Dogana inviò tutta la documentazione a Trevico presso l’Ufficio Doganale di quella città che intese acquisire tutti gli atti, compresa la copia dell’atto di vendita dei fratelli Pelosi. Così, da quell’atto c’era tutta la cronistoria di come l’U.J.D Don Carmine Pelosi  avesse acquistato quel congiunto di case che anteriormente erano in parte dei f.lli Patetta suoi cognati e in parte dalla Cappella di San Vito. Brevemente, nel 1769 questi aveva un credito da parte da quella Cappella di San Vito per 129 ducati, poi avendo da molto tempo intentato una causa d’eredità con i cognati per capitoli matrimoniali non rispettati e poiché aveva nel frattempo comperato la casa che stava di fronte alla Chiesa del Sacramento, di cui risultava ancora debitore, il Dottor Don Carmine, fece la transazione con i cognati che gli cedettero quei beni, meno il locale che in seguito vendettero al di Gennaro, oltre a seicento pecore, delle quali, trecento le vendette per pagare la nuova casa acquistata dalla Venerabile Cappella del S.Sacramento, e con il resto riscattò la parte della casa palazziata appartenente alla Cappella di San Vito, compreso il credito che gli fu scomputato di 129 Ducati. Questi atti furono due, a firma il primo di Fabio Magaletta ed il secondo di Martinez Novia. Allora, il di Gennaro dopo che l’ufficio doganale di Trevico ascoltò tutti i testimoni, andò nuovamente a Foggia e chiese al Presidente della Regia Dogana che, a quel punto, s’indagasse sul “valore del congruo” e di quanto fu la somma che i Pavese sborsarono per acquistare quell’immobile. I f.lli Pavese, indignati ancora una volta, si riservarono di dare, a tempo debito, altri ragguagli quando glieli avesse chiesto il Giudice ma, nei confronti del di Gennaro si riservarono eventuali danni ed interessi dovuti al non godimento delle loro proprietà. Don Vincenzo Pavese, in  particolare, nominò come suo procuratore per seguire gli atti a Foggia, essendo lui legittimamente impedito, il Mag.co Don Nicola Colabianco che firmò per accettazione la sua procura innanzi al notaio Mag.co Don Nicola Cataldo ed ai due testimoni Angelo Cornacchia e Giovanni Pavese. Fu  così che presso la Regia Dogana gli eredi Pelosi furono invitati a portare l’atto di vendita dell’intero congiunto venduto ai fratelli Pavese; ed a firma del notaio Andrea Sauro giunse un estratto dell’atto originale nel quale, a suo firma, riportò che “l’originale trovasi nel mio studio”. Ma, il Presidente, Barone Mascaro tramite il suo delegato di zona a Vallata chiese al notaio di favorire l’atto originale. Da quell’atto molto ben fatto ed articolato si evinse che gli eredi Pelosi vendettero tutti i diritti e le ragioni, proprio nel senso che avevano sempre raccontato i f.lli Pavese. Prezzo di vendita complessivo, 890 ducati. Il Giudice della Regia Dogana, scrisse subito a Mauro di Gennaro in questi termini : ”se desidera, può continuare nella sua azione legale, ma non per quanto riguarda la verifica del congruo perché, è chiaro come si sono svolte le cose, anche a fronte di quell’esborso, ma può portare avanti la verifica della prima perizia tecnica”.  Il giudice concluse che non ci fu alcun dolo da parte di nessuno e pertanto, avendo il giorno dell’udienza appreso dal procuratore Colabianco accompagnato da Leonardo Batta  che i f.lli Pavese avevano già pagato 26 ducati e 65 grana per spese varie per diritti di segreteria e spese processuali, prese la decisione che queste fossero restituite ai f.lli Pavese e le mise a carico del venditore di cacio pugliese. Ma, la storia non finì così, perché Mauro di Gennaro continuò il giudizio e, dopo alcuni mesi di silenzio, il 5 Luglio 1785, andò con i f.lli Pavese dall’ufficiale doganale di Gesualdo Don Camillo Nitti. Nella residenza di questi, Mauro di Gennaro raccontò che a seguito di quella sentenza ancora parziale in cui lui si attendeva ancora le soddisfazioni del caso, tutti loro convenuti a Gesualdo non ancora avevano trovato sul campo una decisione concreta e che siccome i due muratori non avevano poi proseguito nel lavoro, inderogabilmente disimpegnatisi per ulteriori ricognizioni di confini, era il caso che nominasse lui due periti che fossero questa volta di gradimento di tutti. Fu così che l’ 8 Luglio Don Camillo Nitti scrisse a Foggia:  “dopo aver parlato lungamente con i convenuti, comunico alla Regia Dogana un atto con il quale, pare che i Pavese e di Gennaro siano venuti tra di loro a concordia d’eligere ognuno il suo perito”, e così il di Gennaro, nominò il Mag.co Don Giovanni Battista Giannetti della vicina città di Carife ed i f.lli Pavese il Mag.co Don Carmine Mignatta della terra di Guardia dei Lombardi, e l’ufficiale Doganale di Gesualdo concluse: “ si potrà finalmente procedere al lavoro da parte dei periti per la revisione parziale della prima perizia tanto richiesta da Mauro di Gennaro ! ”. Così comparve un nuovo atto di nomina del Presidente della Regia Dogana che il 9 Luglio 1785  nominò i due nuovi periti ed ordinò di procedere ad una ordinata Revisione della Prima Perizia. Il 12 Luglio davanti all’ufficiale doganale di Gesualdo comparvero i due periti tecnici nominati il giorno 9, Giovanni Battista Giannetti di Carife ed il Mastro Carmine Mignatta di Guardia dei Lombardi, i quali riferirono che : “essendoci recati per la revisione della perizia nel luogo detto il Giardino che è il luogo che si controverte tra le parti e con noi c’erano stamattina anche i f.lli Pavese, abbiamo notato che non c’era più l’accesso a quel luogo prima aperto, prima c’era pure uno stillicidio di acqua che usciva vicino al muro della casa di Don Vincenzo, ci siamo affacciati perché c’era un muro della nostra altezza, lo stillicidio non c’era più, ma dentro al Giardino c’è pure una picciola casa di recente eretta, ad uso di stalla, noi siamo entrati dentro; la stalla era di palmi 10 di larghezza e 21 palmi di lunghezza, esposta alla parte di Borea e, lo stillicidio dell’acqua adesso stava l’addentro”. A questo racconto dei due periti tecnici, seguì nell’incartamento processuale una lettera dell’ufficiale doganale Don Camillo Nitti che, dopo quel caso, si dimise dal suo incarico motivandolo nel seguente modo : “ perché ho avuto già troppi disturbi per questa storia e poi, avevo fatto, precedentemente, quella lettera con la quale rassicuravo il Giudice che finalmente s’era trovato un accordo ed invece adesso mi sento un po’ responsabile di quella leggerezza commessa”. Ma, immediatamente, da Foggia s’inviò disposizioni all’agente della Ducal Corte di Vallata di verificare l’abuso fatto, ricordando che per quelle faccende di abusivismo edilizio, la multa da pagare poteva arrivare fino a 45 ducati, perché esisteva pure il reato di turbativa. Ma, quella multa fu ridotta a ducati 6 da pagare in sei giorni, e dopo aver eseguito l’oblazione ed i relativi assolvimenti burocratici, si passò al 29 Settembre 1785, giorno in cui fu depositata la perizia dei due tecnici davanti al Signor Raffaele Moi, subalterno della Regia Dogana di Foggia, in cui comparve tutta la pianta della casa venduta all’origine, poi era riportata la casa di Mauro di Gennaro che era prima lo studio di lavoro dei fratelli Patetta, la casa palazziata dei fratelli Pavese e poi, c’era riportata pure la stalla, frutto dell’abuso fatto. L’atto fu firmato dal Mag.co notaio Don Nicola Cataldo. Ma, per le conclusioni, il Giudice di Foggia decise : “ O nel giro di un giorno concordate su un nome di un tecnico che tiri le conclusioni o ve lo mando io”. Il giorno successivo, 30 Settembre c’era già l’atto pronto con il nominativo trovato di comune accordo. L’atto dice così: “ davanti a me Notaio Sauro Andrea di Vallata di anni 38, compaiono i fratelli Pavese, Mauro di Gennaro ed i due periti tecnici che hanno effettuato la perizia. Tutti concordano su di un nominativo, Pasquale De Lillo, di anni cinquantacinque, da tutti conosciuto e stimato essendo particolarmente versato nella Scienza della Matematica,  qui a Vallata svolge l’attività di agrimensore”. A lui furono affidate le conclusioni dei lavori fatti. Questi, fece un sopralluogo, prese le carte ed i documenti delle perizie fatte, sia la prima, sia la seconda e disse che i f.lli Pavese si trovavano dalla parte della ragione perché l’unico ad aver fatto abusi e soprusi era solo Mauro di Gennaro. Depositata la perizia, il Giudice della Regia Dogana, disse che avendo esaminato tutti gli atti e le perizie ed avendo constatato che il valore dell’immobile comprato dai Pavese era equo e non si trattava di falsificazione di atto pubblico, dichiarò chiuso il processo e condannò il di Gennaro al pagamento di tutte le spese processuali ed il tutto si concluse entro l’anno 1785.
        Poi, nel fondo del Consiglio d’intendenza- II Camera- decisioni, nella b. 132 appresi che il primo figlio di Mauro di Gennaro divenne un dottore in legge e fu anche Sindaco di Vallata, mentre  altri due figli continuarono l’attività paterna, incrementandola, tant’è che il 13 Settembre 1821, intentarono una causa nei confronti di Don Giuseppe Mastrangelo di Castel del Monte (AQ), noto proprietario di pecore di quella zona, circa un pagamento per la fornitura di cacio derivante da animali tenuti al pascolo sulle montagne abruzzesi. Questi due, dopo aver fatto un primo congruo pagamento ed aver  ricevuto una partita di cacio che era arrivato nella città di Vallata,  “s’era gonfiato e quindi spaccato”, ed allora non intesero pagare il saldo del pagamento e dopo tutte le formalità del caso e le perizie giurate, i f.lli di Gennaro non solo non pagarono il saldo, ma fu decretato che avevano diritto al rimborso dell’anticipo, perché trattavasi di cacio andato a male “sin dalla quagliatura fatta in Abruzzo e non per il caldo eccessivo”, come avrebbe voluto la controparte.
        Nella  Dg. IX dei Processi criminali,  b. 103 f. 1838  nel 1785 il Mag.co Don Giovanni Gallicchio di Vallata, nella sede della Regia Dogana di Foggia, chiese l’arresto per i suoi compaesani Rocco e Giuseppe Floia che tra loro erano rispettivamente zio e nipote per un furto a mano armata di pecore e capre avvenuto nel “Bosco delle Rose” ad un miglio e mezzo distante dalla città. Il fatto fu che a quei tempi, a Vallata c’era un bracciante agricolo di trentasei anni di nome Francesco lo Monaco che era un gran lavoratore che stava fuori casa tutto il giorno ed essendo sposato con Arcangela Floia, non vedeva di cattivo occhio che Luigi Floia suo cognato stesse sempre a casa sua dove viveva tutto il tempo a far compagnia alla sorella che gli faceva da mangiare e dormire, tanto che questi non pensava minimamente ad andar via, anzi, si prendeva cura delle sue 21 pecore gentili di corpo oltre che delle quattro capre. Questi animali lo conoscevano benissimo perché Luigi stava tutto il tempo con loro, ma un giorno, quando Francesco lo Monaco tornò assai stanco dal lavoro gli disse: “perché non ti dai da fare pure tu e ti guadagni la giornata?”. Luigi Floia, piegando il capo disse in modo triste al cognato: ”non ho la forza e la tua resistenza al lavoro!!”. Il cognato che capì di averlo offeso, gli fece una proposta di fronte alla quale Luigi non potette rimanere indifferente: ”portati le pecore e le capre al Bosco delle Rose e questo è più che un lavoro”. In effetti Luigi lo fece per tre volte, ma fare tutta quella strada, rimanere lontano senza la sorella che gli cucinasse qualcosa lo lasciò prima titubante poi, incontrando Don Giovanni Gallicchio, figlio del quondam Don Carlo, che si recava al Bosco delle Rose perché aveva le pecore e le capre che gliele guardava un pastore, gli venne la felice idea di fargli la proposta di aggregarle alle sue. Don Giovanni accettò e rimasero che i capretti e gli agnelli sarebbero stati la ricompensa per tale lavoro. Poi, libero da quell’impegno, si ritirò a casa della sorella e del cognato per stare lì tranquillamente a casa. Francesco lo Monaco che lo conosceva bene e sapeva che con lui non c’era niente da fare, non gli disse niente perché tutto sommato lo trovava di gran compagnia. Ma successe che alla fine del 1784, Luigi si fece male ed a seguito di quella ferita che cercò in ogni modo di curargli anche il dottor Mirabelli, perse la vita, senza un testamento. Allora quel gran lavoratore di Francesco lo Monaco, dovette sostenere pure le spese del funerale e pagare altri tanti piccoli debiti che Luigi aveva contratto. Ma, dopo aver fatto tanto per il cognato, un giorno a casa sua si presentarono Rocco Floia, fratello del cognato ed il nipote Giuseppe e lo minacciarono dicendo che poteva tenersi tutte le sue piccole cose che aveva lasciato a casa sua, ma le pecore e le capre, toccavano a loro per eredità.  Poi, temendo che Francesco lo Monaco lo precedessero nella visita da fare a Don Giovanni Gallicchio, organizzarono un piano. Mandarono un loro amico “carosatore e forestiero” tal Giuseppe Biancamano che aveva già avuto modo di conoscere Don Giovanni per motivi di “scaroso di pecore” e gli disse che adesso era il caso che le pecore ritornassero ai Floia e che erano stati proprio i due coniugi a mandarlo da lui. Don Giovanni Gallicchio disse che le pecore non erano più ventuno ma sedici e che le capre in compenso da quattro arrivarono a nove, perché lì nel Bosco delle Rose, andavano meglio le capre che le pecore ma aggiunse che avrebbe desiderato parlare con il vero proprietario degli animali che gli risultava fosse Francesco lo Monaco ed a questi glieli avrebbe personalmente restituiti. Il carotatore, tornato indietro, raccontò tutto ai due Floia che, a quel punto, organizzarono il piano numero due. Un giorno, si travestirono lo zio da Ufficiale Doganale ed il nipote da alguzzino e, facendosi credere provenienti dalla terra di Rocchetta Sant’Antonio, fecero un’incursione nel Bosco dopo essersi accertati che lì c’era solo il pastore di diciotto anni di Vallata, Saverio di Cosimo figlio del defunto Ciriaco. Il pastore, preso alla sprovvista, credé nella verità che i due gli stavano raccontando, perché continuarono dicendo con autorità “di sciurtare (=separare) le pecore dei Floia da quelle di Don Giovanni Gallicchio“ e che se quell’azione non fosse andata in porto, al suo padrone sarebbe stata inflitta una multa di 1000 ducati. Il giorno dopo i due, essendo riusciti nel loro intento, lasciarono le pecore nelle mani dell’incolpevole Michelangelo Garruto ed andarono ad iscriversi alla Regia Dogana, dove avevano tanto desiderio di apparire come locati di pecore. Ma, dopo che la notizia si diffuse in paese, Francesco lo Monaco andò da Don Giovanni Gallicchio e gli riferì le testuali parole : “ per quelle mie pecore e capre fui pure minacciato ma io sono povero ed ignorante e non saprei proprio cosa fare”. Ma, ci pensò Don Giovanni Gallicchio, che accompagnato dal Mag.co notaio Don Nicola Cataldo, si recarono alla Regia Dogana per chiedere l’arresto immediato dei due malfattori. Il Presidente della Regia Dogana, Barone Mascaro, aprì il processo e sentenziò che per quanto riguardava l’esame dei testimoni, era l’Ufficiale Doganale di Trevico, Don  Daniel Paglia, che avrebbe dovute acquisirle agli atti. Nell’occasione si diede un gran da fare il Mag.co Don Nicola Cataldo che portandosi nella sede comunale in compagnia di Mauro di Gennaro e di Giuseppe Maria Quaglia, andò a verificare se sull’Albarano le pecore risultassero dei Floia per effetto di qualche vendita ma così non fu, ed avutone certezza, redasse un atto come Notaio nel quale spiegava l’accaduto e, facendo un’autocertificazione, si disse sicuro che “gli animali erano di quel povero diavolo del bracciale Francesco lo Monaco”. Questo fu il primo documento costruito in sede ed inviato a Trevico; il secondo fu un attestato del Sacerdote Don Onorio Colella, che quale Procuratore della Rota del Clero di Vallata, attestò che fu proprio Francesco lo Monaco a pagare tutte le spese del funerale, quantizzate in dodici ducati meno un tarì. Infine, fu fatto un terzo atto dal Comune di Vallata, nel quale si scrisse che da parte dei Reggimentari di quel Comune, formati dal Sindaco Leonardo Antonio Batta, dal capo eletto Mauro di Gennaro, da Santo Pelosi eletto, da Angelo Cuoco eletto e Magaletta Fulgenzio eletto, risultava che Francesco lo Monaco era un bracciale povero ed onesto a cui furono rubati gli animali. Pasquale Lillo fu il cancelliere, mentre l’atto fu validato il 18 Agosto 1785 dal notaio Mag.co  Don Nicola Cataldo. Quest’ultimo, infine, prese sotto la sua protezione Francesco lo Monaco e lo portò a Trevico dove gli fece sporgere denuncia di furto di pecore. A Trevico oltre a lui, andarono il “carosatore” Giuseppe Biancamano, Antonio di Luca come guardiano del Bosco delle Rose, Michelangelo Garruto che testimoniò che Rocco Floia e Giuseppe, la mattina del 24 Maggio, correndo per un importante appuntamento, gli lasciarono le pecore e le capre dicendogli che sarebbero passati il giorno dopo e, per essersi prestato, si trovò inconsapevolmente coinvolto finanche con un deferimento da locato ed annotato sui registri per quell’anno 1785 a Foggia. Proseguirono le deposizioni a Trevico anche da parte di Don Giovanni Gallicchio e del figlio Vito che vollero perseguire i due rei fino in fondo, assecondando le idee ed i convincimenti del notaio Cataldo. Alla fine, tutto il processo fu assemblato a Foggia dove il 18 Ottobre comparve anche l’atto con il quale i valutatori del bestiame avevano fatto la stima del bestiame rubato per un valore di “viginti septem” ducati, anche se questo fu ritrovato e riconsegnato a Francesco lo Monaco. Il giudice così sentenziò: “avendo valutato l’azione criminale per aver contraffatto un falso mandato, condanno Rocco e Giuseppe Floia, contumaci innanzi a tale Corte a tre anni di reclusione”.
        Nella Dg. III serie, b. 162 f. 8172 il 13 Maggio 1784 Santo Mazzei di Vallata citò in giudizio presso la suddelegazione dei Cambi della Regia Dogana di Foggia, il suo compaesano Michele Paternoster per una cambiale scaduta a cui si sarebbero dovuti applicare anche gli interessi di mora. Ma, a fronte di un mandato di esecuzione per sessanta ducati, inviato dal Presidente Barone Geronimo Mascaro, che fu recapitato a Vallata il 29 Maggio, Michele Paternoster si oppose presentando le sue ragioni. Come prima cosa si recò dal notaio Francescantonio Gallo con la testimonianza di Don Nicola Silla e Giuseppe Furia dove mostrando l’atto fatto il 14 giugno 1772  dal notaio Novia dove apparivano ben chiare le date alle quali lui avrebbe potuto rimborsargli quel debito ed erano 4 date, la prima l’8 Febbraio 1773, la seconda il 14 Giugno 1776, l’8 Aprile 1780 ed infine la quarta avrebbe dovuto essere il 12 Maggio 1784. Anche l’ordinario giurato della Ducal Corte, Pietro Villano, attestò che le cose erano andate così, anzi, aggiunse che dagli atti risultò che come cauzione dei primi tre pagamenti Michele Paternoster diede prima l’8 febbraio un mulo dal pelo color castagno, il 14 Giugno 1776 un altro mulo dal color storno e per il terzo del 12 Maggio 1783 un cavallo color biancaccio e tutto era stato debitamente annotato dal notaio. Fu così che dopo aver redatto quell’atto dal notaio Gallo, Michele Paternoster lo portò a Foggia alla Regia Dogana dove il giudice De Dominicis, avendo preso atto che quegli animali nel tempo erano da considerarsi dei veri e propri pagamenti e non semplicemente una cauzione, fece i calcoli degli interessi maturati, di quanto avrebbero potuto valere a quel tempo quegli animali ed infine tirò fuori il suo resoconto: “Michele Paternoster entro sei giorni dalla ricezione della lettera d’esecuzione deve dare a Santo Mazzei ancora 42 carlini in monete d’argento “.
        Nella b. 340 f. 12152 della Dg. I il 30 Novembre 1786 Gennaro Villani di Vallata in Provincia di Montefusco, in Principato Ultra, desiderando diventare un Regio Agrimensore, avendo una pregressa esperienza di compassatore presso la corte locale di Vallata, chiese di poter sostenere l’esame di abilitazione. Così il Presidente della Regia Dogana, Don Nilo Malena che era anche Presidente della Regia Camera della Sommaria di Napoli, prendendo atto di quella volontà, l’affidò  ai Regi Agrimensori Giacomo De Laurentijs e Vincenzo Castiglione, affinché lo esaminassero. Il giorno dopo, 1° Dicembre i due Regi Agrimensori fecero la relazione che fu positiva, scrivendo testualmente: “avendolo esaminato, lo abbiamo ritrovato abile ed idoneo a poter disimpegnare ogni e qualunque misura e divisione dei corpi”. Poi, Gennaro Villani produsse formale richiesta di ottenere la patente, non senza aver fatto recapitare in quella sede l’attestazione con la quale s’impegnava, sotto pena pecuniaria di duecento ducati, a svolgere quel lavoro con puntualità e correttezza, tenendo sempre in evidenza di salvaguardare gli Interessi del Regio Fisco, alla presenza dei testimoni Don Alessandro Sorrentino e Francesco Saverio Ciampitti. Il Presidente Don Nilo Malena, tramite il suo segretario Nicola Spada, gli conferì tutti i Real Privilegi, tipici degli Ufficiali Doganali.
        Nella b. 177 f. 4130 della Dg I il 23 Novembre 1787 il Dottor Don Gerardo Rosato di Vallata chiese l’iscrizione come locato della Regia Dogana nella locazione di Vallecannella per cento pecore reali pur se ne possedeva duecentoquarantacinque. Così Don Gerardo presentò all’ Ill.mo Presidente Don Nilo Malena il certificato del Comune di Vallata redatto dal cancelliere ordinario Filippo Fiorillo nel quale fu specificato che aveva sempre pagato con puntualità le once dovute perché iscritto al libro della numerazione degli animali “inter cives” e che lo aveva fatto anche quell’anno 1787 e, quella puntualità l’aveva ereditata da suo padre il Mag.co Don Antonio Rosato che lo aveva fatto sin dal 1753. Il cancelliere Fiorillo continuando la sua dissertazione scrisse: “ essendo quella dei Rosato quasi la prima famiglia in Vallata, potrebbero avere varie centinaia di pecore perché hanno una masseria grande in questo distretto, ma è tutta messa a coltura e non c’è spazio per le 245 pecore, ed è solo per questo che il Dottor Don Gerardo vuole portarne 100 alla Puglia”. Il notaio della Ducal Corte don Romualdo Rosa di Vallata vidimò l’atto autenticandolo ed il Presidente della Regia Dogana Don Nilo Malena, che lo ricevette, ordinò agli scrivani Onofrio Marafeo e Pasquale del Conte, di iscriverlo nello Squarciafoglio per l’anno 1787/88 e gli concesse quel privilegio, dopo aver ricevuto l’atto di procura del dottor Don Gerardo Rosato, fatto a favore del Signor Don Antonio Giannini, alla presenta dei testimoni Giovanni Cerro e Michelangelo Cautillo, con l’autentica del Notaio Leonardo Zefilippo della Terra D’Apulia.
        Nella Dg III b. 180 f. 9173 il 13 Maggio 1787, dopo diversi anni d’attesa che maturassero certi eventi il Rev.do Padre Dottor Don Andrea Calabrese, canonico della Cattedrale di Trevico, recandosi a Foggia presso la Regia Dogana, lì dov’era la suddelegazione dei cambi presieduta da Don Filippo Mazzocchi e citò in giudizio gli eredi del quondam Marco Nuzzo della stessa città. Esponendo le sue ragioni il sacerdote fece rilevare come il quondam Marco Nuzzo fosse debitore di una prima cambiale contratta il 12 aprile 1768 di 50 carlini d’argento, nella quale s’impegnava “penes acta”, anche tramite i suoi eredi, a restituirli poi, ne fece una seconda l’8 Gennaio 1775, della somma di 4° carlini d’argento ed il notaio che le vidimò fu sempre il Mag.co Don Francesco Rossi abitante a S.M. d’Anzano, facente parte del tenimento di Trevico; nella prima cambiale i testimoni furono Paolo Rossi ed Euplio Mariniello e nella seconda, Ciriaco Cardinale e Vincenzo Rossi. Poi, nel 1777, Marco Nuzzo fece con lui un altro debito in carlini d’oro, con un atto fatto davanti al Notaio Vito Annolfi di Castel Baronia, alla presenza di Giuseppe Pelosi e Gaetano Torsi, entrambi di Trevico. Al Presidente della Regia Dogana che chiese il motivo di tanto ritardo nella riscossione dei suoi diritti, il sacerdote rispose che non si trattavano di due cambiali a scadenza ordinaria, ma avevano una scadenza decennale, per cui dopo aver protestato agli eredi la prima cambiale nel 1778, la seconda nel 1785, ora, essendo scaduta anche la terza nel 1787 e non avendo avuto alcuna soddisfazione, si rivolse a questa suddelegazione dei cambi di questo Tribunale competente affinché si facessero degli atti esecutivi a tutti gli eredi, cioè ai figli Domenico e Lorenzo Nuzzo, al fratello del quondam Marco, cioè Francesco ed a suo figlio Euplio. Il Presidente Don Nilo Malena, subentrato a Don Filippo Mazzocchi facendo i dovuti calcoli accertò che il Reverendo era creditore di 150 ducati ed ordinò che essendo da tempo scadute e protestate le tre cambiali, si procedesse a Trevico a verificare le proprietà del quondam. Così l’Ufficiale Doganale Don Daniel Paglia, tramite l’alguzzino straordinario della Regia Dogana di Foggia, comandato a svolgere le sue funzioni stabilmente nella città di Trevico, Giovanni Addesa, si recò a 5 miglia dal paese e sequestrò la masseria di 30 tomoli con corpo di fabbrica sita nel luogo detto “Le Gessare” che confinavano con i terreni di Teresa Gastaldi della città di Afragola ed un’altra di sei tomoli sempre con un altro corpo di fabbrica nel luogo detto “ Il Bosco di Contra”, confinante da una parte con la strada pubblica e dall’altra con i terreni di Don Giuseppe Todisco e con gli altri del Mag.co Dottor Don Giuseppe Verdoglia, oltre ad effettuare il sequestro di due bovi aratori, consegnati nelle mani del primo. Ma gli eredi di Marco Nuzzo furono fermamente convinti di dover arrecare quanto più disturbo possibile al Rev.do don Andrea Calabrese ed in particolare Domenico e Lorenzo Nuzzo, che erano anch’essi locati, prima addussero delle motivazioni di procedure errate perché il sequestro non poteva essere considerato valido non essendo state recapitate le lettere d’esecuzione, tanto che, tutto fu nuovamente  ripetuto, poi dissero che lo zio Francesco ed il figlio Euplio non entravano nell’eredità del padre, e, poi che avrebbero pagato loro i 150 ducati ma scrissero che il sacerdote non solo non li voleva ricevere, ma pretendeva pure gli interessi dell’8%. Alla fine di tutte queste motivazioni produssero un’istanza con la quale chiesero ed ottennero un “curatore dell’eredità” nella perdona del Mag.co don Giovanni Tafuri di Trevico. Quindi il Presidente della Regia Dogana don Nilo Malena fece un altro atto con il quale scrisse : “Intendo sapere qual’ è la quantità di debiti che gravano su quella proprietà dal momento che ho saputo da Trevico che sono comparsi altri creditori, pur essendo il Rev.do Padre il primo ed il principale di tutti loro”. Il Curatore dell’eredità, il Mag.co Don Giovanni Tafuri colse la palla al volo e scrisse al Presidente  che : “  Per accertare i debiti ed i debitori non solo è necessario bloccare la vendita e non immettere nel possesso il Rev.do Don Andrea Calabrese, ma devono essere ascoltati dall’ufficiale doganale don Daniel Paglia, tutti i testimoni che avevano firmato le cambiali assieme al quondam Marco Nuzzo ed altre persone che sono informate dei fatti”. La causa si allungò all’inverosimile e cominciarono a sfilare tutti i testimoni, ma tutti nei fatti confermarono quanto già si sapeva ed il Reverendo ne uscì particolarmente corroborato dopo che si presentarono il Mag.co Don Antonio Salvio di anni 50 ed il Mag.co Dottor Don Antonio Ferrara, dottore dell’una e nell’altra legge, di anni 70, entrambi di Trevico. Questi due confermarono e scrissero che gli eredi Nuzzo continuavano a disturbare il Rev.do Padre Dottor Don Andrea Calabrese con azioni irriverenti e pretestuose. A Foggia, dove arrivò tutto l’incartamento del processo, fu inviato nuovamente a Trevico affinché gli eredi Nuzzo si presentassero innanzi a quella Regia Corte entro sei giorni dalla ricezione della nota “ad informandum”, per essere interrogati dal Giudice. Intanto l’11 Novembre 1790 il Rev.do Padre fu immesso in possesso nelle due masserie e Don Daniel Paglia eseguì il provvedimento, come attestato dal comune di Trevico, rappresentato dal Sindaco Mag.co Don Giovanni Montieri, Euplio Palluottolo figlio di Pasquale eletto ed Don Innico eletto. Subito dopo l’immissione in possesso il Rev.do Padre tornò a Foggia e chiese alla suddelegazione dei cambi che si procedesse anche alla valutazione degli interessi maturati che gli furono subito riconosciuti in 46 grana e 2/3 e scrisse pure che gli eredi del quondam Marco Nuzzo continuavano imperterriti a disturbarlo. Questi, allora, furono a lungo sottoposti ad interrogatorio, fino a quando non tirarono fuori tutto ciò che avevano in corpo e cioè che : “ Ci siamo comportati così, non perché non riconosciamo il debito al Rev.do, ma perché quei terreni dovevano andare a Don Pietro Malleone che a Trevico rappresenta l’Erario dell’Ecc.mo Signor Marchese di questa terra per altri debiti contratti dalla buonanima, tanto che, in un primo momento, la Local Corte li aveva pure venduti al Mag.co Don Giuseppe Petrilli ma, poi, nonostante tutte le sue insistenze e lagnanze, aveva dovuto annullare l’atto di vendita e dare spazio agli interessi della Regia Corte che sono prevalenti rispetto a quelli del Marchese feudatario di Trevico”.
        Poi, gli eredi del quondam Marco Nuzzo sottolinearono e conclusero che: “ il Mag.co Don Giuseppe Petrilli ci istigava contro il Rev.do Don Andrea Calabrese, per una vecchia ruggine esistente tra di loro, per non parlare dell’inimicizia profonda tra Don Daniel Paglia ed il Mag.co Don Giuseppe Petrilli, alimentata a favore di quest’ultimo anche da Don Pietro Malleone, suo vecchio amico d’infanzia”. La causa finì il 13 Marzo 1792, con il prevalere delle ragioni  del Rev.do Don Andrea Calabrese.
        Nella Dg. I, b. 148 f. 2562 il 15 Aprile del 1796 il Rev.do Padre Don Vincenzo di Netta di Vallata, avendo in mente altri obiettivi, citò i suoi soci, i f.lli Alessandro e Ferdinando Cornacchia, Don Francesco Novia, Don Giovanni Travisano ed Don Andrea Sauro, cugino dell’omonimo notaio, che lo avevano abbandonato nell’affitto del terzo del Feudo di Migliano che spettava ai vallatesi. Quindi, recandosi alla Regia Dogana di Foggia, chiese che, essendo lui il principale affittatore di quelle terre, potesse essere considerato suo, il diritto di prelazione dei suoi ex soci che non erano nemmeno locati in nessuna delle 23 locazioni di quella Dogana. Per avvalorare le sue ragioni il sacerdote addusse una copia dell’atto fatto dal Notaio Pasquale Santoro di Sant’Agata di Puglia, con il quale venne concesso per 15 anni quell’affitto in cui avrebbero potuto seminare fino a 359 tomoli a frumento, sostituendo cioè una parte dell’erbaggio vernotico, lasciando inalterato l’erbaggio della cosiddetta statonica per gli animali. Il contratto doveva valere fino al 1811 ed ogni anno il 1° Settembre avrebbero dovuto dare nelle mani del Signor Don Andrea Curci, procuratore del Marchese di Trevico e Conte di Potenza che era anche il Principe di Migliano, la somma di 969 ducati all’anno. Il sacerdote continuò la sua esposizione dicendo che fu abbandonato dagli altri “per un puro dispetto”, perché i terreni che avrebbero dovuto sub affittare erano quelli posti nella località detta ”La Cicala” che a mezzogiorno confinavano con quelli dove si trovavano le Mofete(=terre gialle ricche di zolfo), dove per consuetudine i coloni seminavano su quelle terre grano, avena e granorinio(= dialetto della parola granturco), perché più facilmente potevano pagare l’estaglio. Concluse che : “ già in passato altri personaggi di Vallata si sono occupati di quel terzo del Feudo di Migliano, il 1°, circa 40 anni addietro, fu il Dottor Don Carmine Pelosi a cercare di far ordine tra i coloni per conto del Marchese di Trevico, nella stessa zona dove fece prendere l’usanza di far immergere le pecore nelle pozze delle Mofete per liberarle dalla rogna e dal vaiolo, dopo, quel compito fu affidato a Don Biagio Gallicchio poi, a Don Nunziante Pavese e poi, personalmente a me”. Fu così che : “per portare avanti questo lavoro mi servii di alcuni soci ma, tutti mi abbandonarono in quest’impresa ma, io adesso la voglio perseverare” e chiese, purché gli fosse riconosciuto quel diritto, di poter essere da solo ad occuparsi del terzo del Feudo, nel rispetto del contratto fatto da poco, in quell’anno 1796.
        Come prima cosa il Presidente Don Giuseppe Gargani che era anche il Presidente della Sommaria a Napoli, mandò i due scrivani del Real Patrimonio Giovambattista Quattrocchi e Pasquale del Conte a verificare la veridicità circa quegli ex soci non locati, così fu verificato che c’era un Travisano di Vallata con 100 pecore reali fisse nella locazione di Vallecannella ma era Don Pasquale e non Giovanni. Poi, prima di esprimere giudizi, chiese che si ascoltassero gli ex soci e che lo si facesse presso l’ufficio doganale di Trevico, alla presenza di Don Daniel Paglia, anche se, come scrisse, tutto lasciava intravedere che il sacerdote avesse le sue brave ragioni e diritti da far valere. Poi, comparve il certificato dei rappresentanti dell’Unità di Vallata, a firma del Sindaco Don Michele di Netta, capo eletto Vincenzo Rosato, eletto Giuseppe Cornacchia, eletto Pietro Mazzei, eletto Alberto Manna, con il sigillo del notaio Pietro Rosa di Vallata. Sul certificato c’era scritto: “Noi tutti conosciamo bene il Reverendo Padre Don Vincenzo, nostro concittadino e sappiamo che è l’erede del quondam Mag.co Dottor Fisico Don Felice di Netta”. Dalle città di Vallata e Trevico partirono le ingiunzioni a comparire degli ex soci, ma furono trovati solo Andrea Sauro e Francesco Novia, mentre i fratelli Cornacchia e Giovanni Travisano erano irreperibili ma, la seconda volta, l’alguzzino lasciò l’avviso nelle mani delle rispettive mogli, Teresa Branca per Giovanni Travisano, Santa Travisano per Ferdinando Cornacchia e Filippa Santarsiero per Alessandro Cornacchia. Quegli atti furono notificati alla presenza di Vito Polito e Modesto Librace. Ma, prima che questi fossero ascoltati, alcuni ex coloni del Feudo di Migliano si erano portati sotto casa di Don Daniel Paglia a Trevico e, rumoreggiando, chiesero udienza a questi nella veste di ufficiale doganale e gli esposero le loro ragioni: “ Siamo stati sub affittatori per 5 anni, siamo i coloni di Vallata e siamo stati cacciati da Migliano perché non si potevano seminare più quelle terre perché dovevano servire per l’erba vernotica per gli animali, adesso sentiamo dire che, per desiderio dello stesso Ecc.mo Marchese, si vorrebbe che si seminasse, mentre l’affittatore sarebbe contrario, dov’è la verità?”. Tutti furono d’accordo con questa tesi, firmando con il segno di croce: Carmine Colicchio, Bartolomeo e Domenico Strazzella, Angelo Cornacchia e Daniele Famiglietti di Frigento ma sposato a Vallata. Poi, fu il turno degli ex soci di Don Vincenzo di Netta, i quali concordemente, ma singolarmente ascoltati, fecero verbalizzare che la situazione in quella località detta “La Cicala” era insostenibile perché non c’erano regole per la semina e per gli erbaggi vernotici e statonici e vi era anche una certa pericolosità sociale per cui, avendo saputo da fonti certe e sicure che l’Ecc.mo Signor Marchese voleva maggiori rendite da tutto il Feudo, aveva permesso che fossero seminate più terre rispetto al passato e che l’affitto avrebbe potuto essere rivisto in aumento qualora l’annata agraria l’avesse permesso. Per tutte quelle ragioni chiesero la rescissione del contratto direttamente al Marchese e che da parte loro erano ben contenti se il Reverendo Padre gli subentrasse, ma gli sembrava che ciò non rientrasse nei piani del Padrone che essendo il Principe del Feudo poteva decidere ciò che voleva. In realtà, don Vincenzo di Netta, attaccando falsamente loro, invocava il Diritto del Regio Fisco, affinché per legge del Re, potesse entrare su quei terreni. Il processo tornò a Foggia e fu esaminato attentamente dal Presidente Gargani che chiese che si facesse un sopralluogo al Feudo e che questo dovessero farlo Don Daniel Paglia, Ufficiale Doganale a Trevico e Domenico dell’Abbate, Ufficiale di Rocchetta Sant’Antonio. Ma, entrambi si diedero prima per ammalati e poi scrissero che erano molto oberati di lavoro ed in seguito, ad un successivo invito, si presero dieci giorni, ma ne passarono più di venti e non inviarono nulla a Foggia e non l’avrebbero fatto se non fosse arrivato un sollecito per via di una lettera dal tono assai pesante del Reverendo Don Vincenzo di Netta. Il 21 agosto, dopo la lettera di formale protesta, i due ufficiali doganali scrissero che la situazione era difficilmente contabilizzabile, ma suggerivano che si inviassero due massari, uno esperto di campo e l’altro esperto in animali. Il Presidente della Regia Dogana decise che il 29 Agosto sarebbero andati sul posto due periti di Vallata di sua estrema fiducia, Don Domenico Batta e don Giuseppe Quaglia, perché entrambi conosciuti e grandi intenditori. Però, aggiunse, questi mi devono fare una relazione assai dettagliata al fine di verificare: 1) dove sta il pascolo e dove le culture; 2) devono distinguere e dividere l’uso della pastorizia in tre specie a) i saldoni, b) le nocchiariche, c) le ristoppie, poi, 3) se le ristoppie si riferiscono al pascolo della statatonica o se si tratta di ristoppie di vernotico e se questo sia il migliore e più confacente alle pecore figliate, 4)se gli animali hanno usufruito ed usufruiscono di pascoli derivanti da colture precedenti, 5) quali sono e dove stanno le maggesi. Ma, quando fu comunicata la nomina a Don Domenico Batta, questi, per detta di Don Vincenzo di Netta, “si dette fintamente ammalato” ed anche Don Giuseppe Quaglia che in un primo momento sembrava contento assai, poi, “avendo parlato col primo, anch’egli si diede fintamente malato”. A quel punto, il di Netta, chiese che si interpellassero altri periti di altre città perché lì a Vallata “tutti sono diventati sospettosi”. Il Presidente Gargani inviò uguali lettere nelle città di Trevico, Castel Baronia, Guardia Lombardi e Sant’Agata di Puglia, ma, quando s’apprendeva che era una causa contro l’Ecc.mo Signor Marchese di Trevico, nessuno era disponibile e così fu che non si riuscirono a trovare due esperti di campo, in un periodo in cui quel mestiere andava per la maggiore. Il Presidente Gargani, sconfortato,  ma non vinto, scrisse il 10 Settembre una lettera all’Ill.mo Governatore interino della città di Carife, sua vecchia conoscenza napoletana, Don Giuseppe Petrilli. Questi rispose che ce n’erano di bravi e disponibili e che poteva scegliere liberamente tra i nominativi che gli inviava: Leonardo Caruso, Giuseppe D’Alessio, Marciano De Angelis, Giuseppe Raffaele ed i due fratelli Santoro. Così il Presidente ne scelse due che furono : Giuseppe Raffaele e Giovanni Santoro. Questi, si portarono sul luogo detto “La Cicala” ed anche in luoghi vicini e nella relazione scrissero che lì ognuno aveva messo quello che aveva voluto, principalmente per il proprio comodo ed era impossibile far rispettare vincoli e programmare semine di qualsiasi genere poi, tutti alla fine facevano quello che volevano perché era impossibile controllarli e pare che questo l’Ecc.mo Marchese lo sapesse bene. A fine Settembre arrivò la sentenza con la quale si ordinava al sacerdote Don Vincenzo di Netta di lasciare entro 4 giorni la zona detta “La cicala”, perché lì non c’era nessun vincolo doganale come lui avrebbe voluto, ma il Marchese poteva disporre a suo piacimento del suo Feudo, ma gli fu concessa la possibilità di ricorrere avverso quella sentenza. Ma, Don Vincenzo di Netta, si appellò e ricorse chiedendo giustizia perché quell’atto del Presidente Gargani era palesemente nullo e poi, c’era il suo diritto di prelazione che andava assolutamente salvaguardato e, non contento, aggiunse pure che si “faccia presto a prendere qualsivoglia decisione perché i coloni devono seminare ed io non posso sostenere tutte quelle spese senza sapere se sono io l’affittatore del terzo del Feudo”. Il 10 Ottobre 1796 arrivò l’atto di Don Andrea Curci agente del Marchese di Trevico, l’unico che la Regia Dogana di Foggia scrisse fosse realmente deputato a prendere decisioni in merito al Feudo di Migliano. Con quell’atto si escludeva categoricamente che il reverendo Padre si potesse occupare di quelle cose e che se ne sarebbe occupato lui, d’ogni cosa, prendendosi anche l’incarico di andare a controllare le semine dei coloni, sempre che quelli non avessero opposto alcuna ragione ai dovuti pagamenti perché, dovevano pagare l’estaglio, indipendentemente se seminavano o meno. Per quello che riguardava il sacerdote, quello era conosciuto da tutti come “ un temerario litigante, ed i coloni della zona della Cicala l’hanno già messo in fuga e non viene più sul posto nella sua abitazione già da qualche giorno, perché era lui che impediva a questi di entrare nelle loro case ed andare a seminare”.
        Nella Dg. III b. 250 f. 12308 il 30 Aprile 1803 Don Filippo Fiorillo e suo figlio Vito Felice entrambi di Vallata citarono in giudizio civile Giovanni Cassitti della città di Bonito. La storia riguardava un debito dovuto ad una nota di cambio (=cambiale) che Don Filippo aveva contratto non con colui che stava allora citando nella causa, ma con suo fratello, noto sacerdote della città di Carife, tal Don Anselmo Fiorillo. Questi l’aveva convinto a firmargli una nota di cambio per il valore di centoventi ducati per “alcuni suoi affari personali”, promettendogli che c’era lui alle sue spalle e mai e poi mai gli sarebbe successo niente; anzi era più che sicuro che il fratello avesse gestito al meglio la faccenda e non si preoccupò più di tanto, pur sapendo che quella nota promissoria avrebbe trovato la sua naturale scadenza il 1° Agosto 1798. Invece, esattamente dopo un mese, stava attraversando il Ponte sul fiume Celone, quando essendo stato riconosciuto dall’ufficiale doganale del posto, tal Don Ignacio Luzzi, fu portato in carcere a San Giorgio, casale di Montefusco. Lì stava da sei anni pur soffrendo moltissimo il carcere, ma ricordò al Giudice della suddelegazione dei cambi e Presidente Don Vincenzo Sanseverino che lo stavano interrogando l’11 Luglio 1803, che quando fu arrestato nel 1798, tramite lo stesso ufficiale doganale che lo aveva portato in carcere, fece recapitare una lettera al fratello sacerdote Don Anselmo a Carife, ma con grande sorpresa quegli “fece orecchie di sordo e non intervenne, se non per rovinarmi di più”. Infatti, il sacerdote passò quella nota di cambio di 120 ducati ad un tal Pasquale Addimonti di Carife e quello a sua volta la girò a Giovanni Cassitti della città di Bonito. Quest’ultimo, si fece i conti degli interessi che erano maturati ed andò da suo figlio Vito Felice e gli fece firmare una cambiale di 100 ducati, poi, lo convinse a portare in carcere dal padre un’altra cambiale di 45 ducati e grana 20, dicendogli che se voleva che il padre uscisse di galera non c’era una strada diversa. Don Vito Felice che desiderava moltissimo che il padre innocente uscisse di galera, lo convinse a firmare. Così, adesso tutti e due, padre e figlio, stavano davanti al Presidente della Regia Dogana a Foggia per rispondere di una reiterazione della colpa, viziata all’origine ed aggravata da una seconda “ancor più improvvida decisione presa nelle carceri”. I due, furono però assistiti d’ufficio dal Signor Rosa, famoso avvocato di Napoli che immediatamente fece un’istanza al Presidente facendo mettere agli atti che i due imputati avevano tutti i favori legali del “Senatoconsulto Macedoniano”. Era evidente l’intenzione del Presidente di volerli aiutare, tanto che fu inviato a Vallata un alguzzino a chiedere che si trovasse un avvallante benestante per i due inquisiti. Così, apparve un atto del Comune di Vallata retto dal Sindaco Don Ciriaco Mirabelli, dal capo eletto Don Gaetano Pavese e dall’eletto Don Vito Gallicchio, che alla presenza del Notaio Andrea Sauro s’attestava che c’era una persona avvallante la nota di cambio, ed era il Mag.co Don Giuseppe Nicola Berardi che “è persona commoda e benestante che vive del proprio”. Allora il Presidente della Regia Dogana, nonché responsabile della suddelegazione dei cambi, Don Vincenzo Sanseverino, scrisse che Don Vito Felice Fiorillo era ancora, a quella data, sottoposto al potere del “pater familias” e non poteva assumersi quell’obbligo anche perché non era titolare del proprio patrimonio e che il “Senatoconsulto Macedoniano” derivante dal Diritto Romano, gli permetteva di annullare quella cambiale di 100 ducati che Giovanni Cassitti avrebbe preteso da lui. Poi, avendo trovato una persona che con la sua firma aveva fatto da fideiussore avvallante la nota promissoria di Don Filippo Fiorillo, dispose il sequestro di quanto possibile nella città di Vallata che si riferisse al patrimonio di Don Giuseppe Nicola Berardi, ma fu ritrovato solo qualche cavallo sparso in varie parti del paese, per far fronte alla cambiale di 45 ducati e grani venti. Furono, così, recuperati solo 23 ducati dalla vendita dei cavalli effettuata con il sistema dell’ultima estinzione di candela, ma così Don Filippo Fiorillo l’11 Ottobre 1803 riacquistò la tanto agognata libertà.
        Nella Dg. I b. 341 f. 12264 il 23 Maggio 1805 Felice Cirillo di Vallata andò presso la Regia Dogana di Foggia, ed adducendo che erano anni che svolgeva l’attività di compassatore nella sua terra per conto dei vari proprietari terrieri di quella sua zona d’origine ed anche nelle città convicine, chiese di poter sostenere l’esame per diventare Regio Agrimensore. L’Ill.mo Signor Presidente Don Goffredo De Bellis, prendendo atto della sua volontà, disse che l’avrebbe affidato non ai due soliti Regi Agrimensori del Real Fisco, bensì al loro Capo, che deteneva la 1a Cattedra a Foggia di “Fisica ed Agraria”, il Dottor Don Giuseppe Rosati, affinchè sostenesse il dovuto esame. Il giorno seguente il Dottor Giuseppe Rosati a cui, nella città di Foggia sono dedicate una strada ed un Istituto Tecnico Commerciale, portò la relazione al Presidente in cui c’era scritto letteralmente: “ Ho esaminato il giovane Felice Cirillo di Vallata in Principato Ultra nella teoria e nella pratica agrimensoria ed ho ritrovato il medesimo informatissimo di tutte quelle geometriche cognizioni che sono necessarie a poter, con intelligenza ed esattezza, esercitare un tal impiego, per cui posso concludere che possiamo concedergli il suo richiesto Privilegio”. Poi, Cirillo fece richiesta per la Patente e prestò il relativo giuramento, con il quale s’impegnò, sotto pena di ducati duecento, ad esercitare con dedizione e puntualità quel lavoro, ricordandosi sempre di far prevalere gli interessi del Regio Fisco, il tutto innanzi a due testimoni che furono Antonio Palatella ed il Mag.co Don Nicola Colabianco. Poi, dopo una settimana, comparve un’altra istanza di Felice Cirillo che ritornò a Foggia dopo alcuni giorni e supplicando chiese: ”Intervenga Lei, Illmo Signor Presidente, con la sua autorità, perché a Vallata il mastrodatti della Local Corte non intende rilasciarmi il certificato dei carichi pendenti che devo allegare all’atto di nomina di Regio Agrimensore”.  Così Don Goffredo De Bellis scrisse, tramite un ufficiale doganale, direttamente al Governatore e Giudice di quella Corte, Signor De Mattia, affinchè provvedesse ad ordinare al mastrodatti di verificare in Archivio se vi fissero procedimenti civili o penali a carico del Cirillo e che lo facesse a breve giro di posta. Allora, il Mastrodatti Pasquale Giliberti, scrisse che non c’era nulla a carico di Felice Cirillo e questo fu autenticato dal Notaio Francesco Saverio Crincoli.
        Nel fondo del Tavoliere II serie- b. N° 91- f. 151 il 14 Dicembre 1806 si recarono a Foggia Giandonato Travisano e suo fratello Domenico accompagnati da loro fratello, il Rev.do padre Don Vincenzo. In quella sede, il sacerdote definendosi eredi di Don Pasquale Travisano che era un vecchio iscritto alla locazione di Vallecannella, in virtù della Legge sull’abolizione del sistema feudale del 21 Maggio di quello stesso anno ma pubblicata il 21 Giugno, chiese che a lui ed ai suoi fratelli, per l’articolo 30, venissero assegnate le terre che fino ad allora avevano pascolato con il solo diritto dell’erbaggio statonico per le pecore. Il reverendo fece quella richiesta anche perché censuario assieme ai Di Netta ed ai Pelosi, della Posta Fissa di Monterocilio. Concluse la sua richiesta, chiedendo se si potesse subito sapere quanta fosse la terra che veniva loro concessa, dal momento che ne avevano tenute dodici versure e mezzo per le pecore e, soprattutto quale fosse l’importo annuale per la concessione dell’enfiteusi. I due Real scrivani portarono la richiesta firmata dal Notaio Petrus Rosa di Vallata, in cui comparivano le firme del Reverendo don Vincenzo, quella del fratello Giandonato ed il segno di croce per Domenico, all’esame dei Ripartimenti, dove il Responsabile Francesco Schiraldi che si definì “servo del Regio Fisco”, decretò che avevano diritto a dieci versure di terra, nei dintorni della Posta di Monterocilio, alla somma annua di ducati 29 e grani 99. da quello stesso giorno 14 Dicembre 1806 i tre fratelli di Vallata comparvero sul Borderò Ipotecario per quella somma, facente parte di un Tomo di Cambiali Ipotecarie conservate nella città di Lucera.

__________________________________________

Pagina Precedente Indice Pagina Successiva
Home