Il Fiero Popolo di Vallata - Lu scardalan e la f'lanara

"Lu Scardalan e la F'lanara"

I mestieri dello "scardalana" e della "f'lannara" erano affini e si completavano a vicenda. "Lu scardalan’" era l’artigiano che cardava la lana, cioè districava ed apriva quelle fibre grezze, trasformandole in "veli e nastri", con un attrezzo-machina, denominato "la carda", fatta con due tavole chiodate. Queste tavole, delle dimensioni di circa cm. 30x90, manovrate con perizia dal Cardatore, in avanti ed indietro, tramite il groviglio dei chiodi curvati, raschiavano e spalmavano la lana, a seconda della destinazione d’uso: si preparavano, ad esempio, i "mapponi", per le coperte imbottite, oppure i "candeloni", per la filatura dei gomitoli. Il vello lanoso, prima di essere cardato, veniva lavato e, poi, unto di olio, in maniera da agevolare il lavoro della cardatura stessa. La "f'lannara" era quella che filava la lana o la canapa. Comprava i grossi "nastri e candelotti" di lana, preparati dal Cardatore, e li lavorava con il fuso. La sua abilita consisteva nel ricavare e stendere il filo di lana, il più sottile possibile, senza farlo spezzare. Il filo si originava dal movimento rotatorio del fuso, per "trazione", dopo che la filatrice procedeva ad imprimergli il moto, ruotandolo sulla sua gamba destra. I fili così ottenuti si facevano a matasse con "lu matassar". Queste matasse venivano poi lavate, per togliere l’olio, e la lana cosi era pronta, per essere lavorata a mano, o tessuta, per ottenere le stoffe. La tessitrice era quella che utilizzava la lana, per ricavare le stoffe di lana o le coperte di lana. Molte tessitrici, oltre alla lana, tessevano la canapa, che in dialetto si chiamava "la vammacia", con un telaio azionato a pedali e/o a mano.

"La Cal’zittàra"
-Filastrocca-

E fila sfila la cal'zittàra,
cu’ cinch ‘firr’ la lana ‘nzahaglia
e face moll’, calzett’ e pirara,
lu jurn ‘passa e nun s'abbenda maje.
Bella uagnarda ca faj calzette,
lu mazzaridd’ ‘ndò ti Iu mitt?
Ie m’ lu mett ra quistu lot’
e fazz calzett’ a lu ‘nnammurót’.

Lucio Crincoli

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