Credito e Mercato della terra in un paese dell'alta Irpinia: Vallata

Prof. Ferdinando Di Dato

Credito e Mercato della Terra

In un Paese dell'Alta Irpinia:

Vallata 1860-1880. (Terra e Denaro)

 

Ai miei genitori
a mia moglie e
al mio piccolo Ciro

        «Ciò che noi forniamo sono, propriamente, osservazioni sulla storia naturale degli uomini; non però curiosità, ma constatazioni di cui mai nessuno ha dubitato e che sfuggono all’attenzione solo perché ci stanno continuamente sott’occhio”.

L. WITTGENSTAIN

INTRODUZIONE

        La ricerca è nata da motivazioni personali ed affettive, oltre che scientifiche, in quanto in Vallata ho le mie radici. Sin da piccolo venivo in questo paese dai nonni materni, Clelia e Raffaele, a trascorrere l’estate e qui ho conosciuto la mentalità, le abitudini contadine e l’importanza della terra per l’economia locale.
        Durante le mie passeggiate in campagna, ho avuto la fortuna di vedere, allora in due periodi differenti, la mietitura e la trebbiatura, notando la grande fatica per gli operai e nello stesso tempo la festa che i contadini facevano durante queste operazioni; ho notato anche il dualismo socio-economico e la diversa mentalità tra i vallatesi del paese e quelli di "fore", cioè della campagna.
        Questi momenti o “miti” sono sempre rimasti dentro di me, tanto da farne nel lontano 1990 una tesi di laurea sull’importanza della terra a Vallata nella seconda metà dell’Ottocento, ma solo alcuni mesi fa, ho riletto questo lavoro e rivedendolo ho pensato di renderlo pubblico.
        Muovendo dall’esame di documenti di Prefettura e protocolli notarili e quindi dell’analisi dei meccanismi economico-sociali che caratterizzano la circolazione della terra nel paese, si è notato, per il periodo compreso tra il 1860 ed il 1880, alcuni elementi fondamentali: il valore dato alla terra ed il conseguente ruolo sociale dei possidenti, le modalità del mercato della terra e delle figure ad essa legate e gli universi culturali che percorrono questo mondo che non pare esattamente in sintonia con quello che si ritiene, forse troppo schematicamente, lo sviluppo capitalistico del tempo.
        Le vicende di Vallata sono elementi di una realtà circoscritta che, però, si possono riscontrare anche in altre comunità del Mezzogiorno. Se analizzassimo comparativamente altri paesi, ci accorgeremmo di elementi che mettono in evidenza somiglianze e differenze: sembra però di poter dire che i vari paesi hanno tra loro peculiarità e, nello stesso tempo, atteggiamenti simili.

    Somma Vesuviana, maggio 2002

FERDINANDO DI DATO

        Colgo l’occasione per ringraziare quanti, in modo diverso, mi hanno stimolato e supportato nell’elaborazione del presente lavoro, a partire da mio figlio, cui spesso ho sottratto per motivi di studio e di approfondimenti dovuti parte del mio tempo, altrimenti dedicato a lui, e a mia moglie, che mi è stata vicino e mi ha seguito con pazienza durante il percorso.
        Mi è doveroso, infine, essere grato ai Proff. P. Villani e G. Montroni dell’Università degli Studi Federico 11 di Napoli che mi diedero l’opportunità di effettuare la scelta di questo argomento per la mia tesi di laurea; l’Ispettore Augusto Graniero per i consigli tecnici offertimi per l’occasione; il mio amico Prof. Gianni Buglione, per avermi profuso alcuni utili suggerimenti durante il lavoro di ricerca e soprattutto incoraggiato nella pubblicazione della stessa; la Prof. Gianna Disarmato per i suggerimenti e il sostegno morale nel portare a compimento la ricerca.

 

ABBREVIAZIONI

AndB = ARCHIVIO NOTARILE DISTRETTUALE DI BENEVENTO. PROTOCOLLI DEI NOTAI A. NETTA (1860-1870); F. A. NOVIA (1863-1880).

A S A = ARCHIVIO DI STATO DI AVELLINO
PREF. = PREFETTURA (ATTI AMMINISTRATIVI)
CATASTO NAPOLEONICO


MONETE BORBONICHE
1 ducato = 10 canini = 100 grani


MISURE
1 tomolo


MISURE
1 tomolo
DI SUPERFICIE
= 1 moggio = 24 misure = ha 0,33


DI CAPACITA’
= hl 0,33


MISURE DI PESO
1 libbra = kg 0,321
1 cantaio = kg 89,09

CAPITOLO I

LA SITUAZIONE AGRICOLA E SOCIALE IN ITALIA
NEGLI ANNI 1860-1880

        Dopo l’unificazione, e soprattutto dal 1866 al 1875, la produzione agricola italiana ebbe un incremento abbastanza consistente che continuò, sia pure con minore intensità, fino al 1880. Il commercio con l’estero aumentò rapidamente, trascinando dietro di sè l’aumento dell’esportazione di alcuni prodotti (agrumi, frutta secca, vino, olio d’oliva, canapa, seta greggia, bestiame) e la diminuzione dell’importazione di frumento.
        Non va sottovalutato il ruolo giocato dalla ferrovia che, insieme ad alcuni provvedimenti, contribuì alla costruzione di un mercato unitario collegato con il commercio internazionale, creando, così, le premesse per le produzioni specializzate, destinate alle esportazioni. L’aumento della produzione agricola rappresentò la voce attiva più importante della bilancia commerciale italiana e del resto l’agricoltura rimaneva, e sarebbe a lungo rimasta, il settore più importante del paese. Questo aumento non fu un fatto nuovo, ma una ripresa di una precedente tendenza all’accrescimento della produzione interrotta tra il 1853 e il 1863 da una crisi piuttosto grave, caratterizzata dalla diffusione dell’ “oidium” e dalla fillossera, che colpirono la viticoltura in molte regioni, dalla pebrina, che danneggiò la bachicoltura, dalle temporanee conseguenze negative dei rivolgimenti politici del 1839-60 e dal brigantaggio meridionale.
        Va, però, ricordato che non vi furono consistenti miglioramenti e modifiche nell’agricoltura italiana 1, per quanto riguardava le tecniche produttive, i tipi di contratti agrari 2 e le condizioni dei contadini 3.
        Numerose furono le inchieste parlamentari sulle condizioni dell’agricoltura e dei contadini, compiute tra il 1874 e il 1884, che confermano questo quadro generale. Tra le più importanti ricordiamo l’inchiesta Jacini (deliberata dal Parlamento del 1879), la quale, nel Proemio, metteva in evidenza: “Nessun altro paese dell’Europa occidentale presenta una parte aliquota così estesa di spazi improduttivi 3.600.000 circa sopra una superficie totale di ettari 29.600.00 e dei rimanenti 24.000.000 di ettari la denomina di terra produttiva è, per una metà almeno, un modo di dire piuttosto che una realtà. La media produzione del frumento è di 11 ettolitri per ettaro in Italia mentre ascende in Inghilterra a 32 ettolitri, a 22 in Olanda, a 20 in Belgio, a 13 in Francia, a 23 nell’Impero Germanico, paesi tutti verso i quali, dal più al meno, il sole si mostra cotanto avaro.
        L’Italia con una popolazione di tre quarti della popolazione francese e una superficie di più che la metà di. quella della Francia, produce per tre miliardi di annue derrate agricole, mentre quella nazione ne produce dodici miliardi” 4. Jacini attribuiva la scarsa produttività dell’agricoltura italiana all’arretratezza dei sistemi di coltivazione, alla miseria dei contadini, all’eccessivo peso delle imposte e dei debiti che gravavano sui proprietari. Però, nello stesso tempo sottolineava anche come “la scarsa produttività delle campagne era dovuta alla naturale povertà del paese, aggravata nei tempi passati dall’incuria dei governi e dai disboscamenti, che avevano favorito una larga diffusione delle paludi e della malaria e compiacendosi E...] dei progressi compiuti nei tempi più vicini in varie regioni, dalle colture specializzate e dall’allevamento del bestiame” 5.
        In base all’insediamento della popolazione e agli ordinamenti colturali, “sembrava abbastanza nettamente distinguere tre Italie: quella settentrionale, che per alcuni suoi caratteri specifici meglio sarebbe de- finire padana; quella centrale e infine quella meridionale e delle isole” 6.
        La zona più omogenea era quella dell’Italia centrale per la prevalenza dell’appoderamento mezzadrile, “la distribuzione della maggioranza della popolazione in piccoli nuclei inferiori a 500 abitanti e soprattutto in case sparse si accompagnava alla frequenza di veri e propri centri cittadini. Il modello era esaltato, soprattutto da chi preferiva la conservazione di equilibri sociali consolidati, nel rispetto di sicure e talora illuminanti forme di possidenza fondiaria alleate e confuse, da una parte con tradizioni nobiliari e aristocratiche, dall’altra con prudenti iniziative di mercanti cittadini in un orizzonte precapitalistico”7. Non a caso Marx giudicava la mezzadria, tipica di queste zone, come una forma di transizione dalle forme precapitalistiche della rendita fondiaria alla rendita capitalistica, anche se nello stesso tempo ne metteva in evidenza i limiti. Essa, però, nell’Italia centrale “ha cristallizzato e fissato i rapporti di produzione di un epoca in cui il capitale appena incominciava a differenziarsi dal seno della società feudale”8.
        Questi contratti li trovavamo anche in altre zone d’Italia, anche se c'era una notevole differenza; mentre nell’Italia centrale tra famiglia colonica e podere il legame era stabile, nel Mezzogiorno e nelle isole il rapporto era precario e il singolo colono riusciva ad avere l’appezzamento di terra di anno in anno solo accidentalmente in coltura. Infatti, “nel regime mezzadrile dell’Italia centrale la famiglia colonica resta legata al podere, non foss’altro, dall’abitazione sul fondo, dagli stabili investimenti che essa realizza nelle colture arboree, dai mezzi di produzione che essa possiede a metà col padrone”9.
        La coltivazione era mista, però si distingueva da quella dell’Italia settentrionale (Veneto) per la scarsa diffusione del mais, per la ridotta coltivazione del gelso e per la diffusa coltivazione delle colture arboree, in modo particolare di viti, olivi ed alberi da frutta. Comunque la forte coltura promiscua rendeva bassa la produttività del frumento, però assicurava ai contadini un nutrimento migliore che nei Nord, ma a prezzo di un intensissimo sfruttamento delle famiglie mezzadrii, spesso fortemente indebitate verso i padroni”10.
        Anche nell’Italia centrale, il contratto a mezzadria tendeva a trasformarsi, soprattutto nelle maggiori aziende, in un rapporto capitalistico, in quanto, come abbiamo già detto, la coltivazione mista, legata alla mezzadria e alla divisione dei poderi, non creava un accrescimento della produttività. Solo l’olio e il vino, destinati al mercato interno o all’esportazione, accrebbero i profitti dei grandi proprietari toscani, ma non erano paragonabili ai profitti che traevano i proprie- tari settentrionali dalla bachicoltura e dell’industria serica. Nelle zone di montagna invece l’agricoltura era più povera ed arretrata, le risorse principali erano la pastorizia e l’emigrazione temporanea per i lavori agricoli stagionali nella Maremma e nella pianura laziale. La coltivazione, quindi, era ancora legata alla cerealicoltura estensiva e all’allevamento ovino.
        Ai confini di quest’area centrale, come scrive Villani, “sia al nord che al sud la situazione si presentava più complessa per la presenza sia di zone intermedie, sia di fenomeni dinamici in corso, sia di intricati rapporti contrattuali”11. La regione più dinamica e progredita era la Lombardia, la quale sin dal 1700 aveva dato degli ottimi risultati per effetto di un secolare processo di sistemazione idraulica e di bonifica nella pianura irrigua tra il Ticino e l’Adda, che tendevano ad estendersi da un lato alla Lomellina e dall’altro alla pianura, tra l’Adda e il Mincio. In questa zona l’alternanza dei cereali con le colture foraggere aveva incrementato l’allevamento bovino e quindi la produzione lattiero-casearia, assicurando alla coltura granaria grandi quantità di concime naturale. Così, l’allevamento del bestiame aveva fatto importanti progressi anche dopo l’Unità: il numero dei bovini in Lombardia passò, infatti, da 298.000 capi nel 1837 a 346.000 nel 1869 e a 463.000 nel 188112. Questa era la regione dove prevalevano le aziende capitalistiche, condotte da grandi fittavoli, coltivate da salariati fissi e da braccianti giornalieri; mentre nella pianura asciutta e nella zona collinosa prevaleva il piccolo affitto, il contratto misto di mezzadria e fitto a grano. La terra, quindi, era coltivata a grano ed a mais: il primo serviva per pagare l’affitto ai padroni ed il secondo per l’alimentazione dei contadini.
        Accanto a questi prodotti si erano sviluppati la gelsicoltura, l’allevamento dei bachi e le industrie della trattura e della torcitura della seta: risorse importanti dell’Ottocento. Esisteva, quindi, uno stretto rapporto tra la produzione serica e l’agricoltura delle zone irrigue, poiché i capitali, accumulati con quest’ultima, avevano favorito lo sviluppo della prima e viceversa. Quindi i profitti dell’industria e del commercio della seta avevano trovato sicuri investimenti nell’agricoltura della bassa pianura.
        Lo stesso discorso vale per il Piemonte, infatti, nella pianura irrigua troviamo la grande azienda capitalistica dedicata principalmente alla coltivazione del riso.
        Più arretrata, invece, era l’agricoltura emiliana, dove, però, agli inizi del 1880 era in atto, nella bassa padana, una trasformazione capitalistica.
        Lo sviluppo agricolo dell’Emilia fu determinato da una grande opera di bonifica, da un forte aumento della produzione cerealicola e zootecnica, da un grande accrescimento del proletariato agricolo e da un generale accentuarsi della lotta di classe.
        Molto più statica era la situazione del Veneto dove prevalevano il piccolo affitto, con canoni in grano e in vino, e la coltura mista. E’ importante ricordare che nel corso dell’Ottocento la coltivazione del gelso si era largamente diffusa in tutte le campagne venete, affiancandosi a quella già consolidata della bachicoltura. Però, non si sviluppò un’industria serica come quella lombarda, infatti, buona parte del prodotto della bachicoltura veniva lavorata in Lombardia. L’agricoltura veneta, quindi, era la più arretrata del settentrione ed era legata ad un equilibrio economico-sociale molto precario, perciò gli effetti generali della crisi agraria saranno nella regione particolarmente gravi13.
        Molti furono, infatti, i contadini di queste zone che durante gli anni ‘80 emigrarono verso gli altri paesi europei e verso le Americhe. Gli emigrati erano soprattutto contadini, salariati fissi e braccianti, che non avendo visto migliorare le loro condizioni economico-sociali e colpiti dalla pellagra dovettero espatriare.
        L’altra zona, quella con un’agricoltura diversa, era il Mezzogiorno d’Italia. L’agricoltura del Mezzogiorno presentava due grandi settori: quello cerealicolo e quello delle colture specializzate. Il primo, come aveva già messo in evidenza il Granata, comprendeva due diversi tipi di aree: le aree di montagna e quelle occupate dalla grande cerealicoltura estensiva. Le aree di montagna, comprendenti circa il 40% di tutto il territorio dell’ex-regno delle Due Sicilie, avevano avuto per secoli la loro principale risorsa nella pastorizia transumante, integrata dalla piccola cerealicoltura. Questa agricoltura veniva effettuata con mezzi rudimentali da piccole imprese contadine su fondi di proprietà degli stessi, oppure presi in affitto o ancora su parti di demani avuti in uso dopo le quotizzazioni. Il declino della pastorizia, dovuto sempre alla scarsa redditività dell’allevamento ovino e all’allargamento delle coltivazioni nelle terre di pianura, causò nel XIX secolo un crescente dissodamento di terre di montagna, poco adatte alla coltivazione, che non solo non portò ad un miglioramento economico dei contadini, ma arrecò danni alla stabilità del suolo e al regime delle acque. Questo allargamento delle colture non bastò ad assicurare il sostentamento delle popolazioni, sicché l’agricoltura della parte montuosa del Mezzogiorno entrò in crisi prima degli anni ‘80; tanto è vero che già negli anni ‘70 abbiamo le prime partenze per le Americhe; le regioni particolarmente interessate a quest’esodo furono Abruzzi, Mouse, Basilicata e Calabria.
        Le aree della grande coltivazione estensiva comprendevano i declivi collinari, le basse vallate e parti più o meno estese delle pianure, come il Tavoliere delle Puglie, la piana del Volturno e del Sele, le basse valli lucane, le valli del Grati e del Nato in Calabria e la piana di Catania. Queste occupavano una superficie complessiva pari a circa un terzo del territorio dell’ex-Regno borbonico. Si tratta però di zone aride,terre che erano state sottratte alla pastorizia transumante nel corso dell’Ottocento e buona parte destinate alla cerealicoltura fin dall’antichità. La siccità, la mancanza di sistemazioni idrauliche e la grande diffusione della malaria rendevano necessaria la coltivazione estensiva del grano, ovviamente alternato col pascolo e il maggese, anche se scarso era l’allevamento bovino e quasi inesistenti le colture arboree. Si potrebbe dire, quindi, che il Mezzogiorno si presta poco alle colture miste e dove queste ultime riuscivano ad imporsi, come in Puglia, arretravano quelle cerealicole. In queste aree cerealicole prevaleva il latifondo, la grande e la media proprietà borghese, che spesso venivano affittate ai grandi affittuari, oppure a fattori chiamati “massari”. La proprietà borghese si era formata in parte con i vecchi possessi degli “ex-baroni”, in parte con terre ecclesiastiche acquistate alle aste nell’età napoleonica o dopo l’Unità, o in parte con demani usurpati. L’aristocrazia, però, aveva ancora una posizione preminente nella proprietà terriera siciliana (dove gli ex-feudi erano condotti dai grandi affittuari chiamati “gabellotti”), mentre nel Mezzogiorno continentale era stata soppiantata, in parte notevole, da famiglie borghesi. Non mancava, però, nel Mezzogiorno, la proprietà particellare dei contadini in genere, che però era poco redditizia tanto da spingere gli stessi contadini a prendere in affitto o a colonia appezzamenti di latifondo.
        Perciò molti coltivatori lavoravano anche come braccianti per brevi periodi dell’anno nelle parti di latifondo condotte dai proprietari o dai grandi affittuari. Le grandi e medie imprese agricole, invece, coltivate da braccianti giornalieri e da pochi salariati fissi, producevano per il mercato14. Comunque, queste imprese non investivano una forte quantità di denaro, perché minima era l’attrezzatura tecnica, poco il bestiame ovino e bassissimi i salari dei lavoratori. Solo un quarto del territorio del vecchio regno borbonico era caratterizzato dalle colture specializzate: ne facevano parte, infatti, le aree irrigue della Campania, destinate alle colture orticole, le aree agrumarie della Sicilia (zona etnea etc.) e soprattutto le aree dedicate alle colture dell’olivo e della vite nelle Puglie, da cui si esportavano questi prodotti non solo nelle altre regioni italiane ma anche in Europa. Da questo anche se sommario quadro dell’agricoltura italiana emergono le forti peculiarità regionali e il forte squilibrio tra l’agricoltura settentrionale e quella meridionale già esistente al momento dell’Unità, nonostante l’aumento delle colture specializzate in alcune zone del sud e la persistenza nel nord di zone statiche ed arretrate. L’agricoltura ita- liana, comunque, continuò a svilupparsi secondo le linee tracciate dal Settecento in poi; in generale l’aumento della produzione, quando si realizzò, fu più il risultato della crescente applicazione di forza lavoro all’agricoltura e dell’allargamento delle aree coltivate che degli investi- menti di trasformazione fondiaria e dell’impiego di vasti capitali15.
__________________________________________
1 Per ulteriori approfondimenti: L.Musella, Proprietà e politica agraria in Italia, Napoli 1984.
2 Per ulteriori approfondimenti: G. Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna, Torino 1974.
3 Per ulteriori approfondimenti: E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Torino 1976.
4 Atti della Giunta Parlamentare per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola. Roma 1883-86, vol.I. pp. 7-8.
5 G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Voi. VI, Lo sviluppo del capitalismo e del movimento operaio (1871-1896), Milano 1978, p.l94
6 P. Villani, Agricoltura e differenziazioni regionali dopo l’Unità. L’impostazione dell’inchiesta Jacini in Società rurale e ceti dirigenti (XVIII-XX sec.), Napoli 1989, p. 113.
7 lbid.
8 E. Sereni, Il capitalismo cit., p.l79.
9 Ivi,p. 180
10 G. Candeloro, Storia dell’Italia cit., p. 197.
11 P. Villani, Agricoltura cit., p. 113.
12 M. Romani, Un secolo di vita agricola in Lombardia 1861-1961. Milano, 1963, p. 34.
13 Per ulteriori approfondimenti: M. Berengo, L’agricoltura veneta dalla caduta della repubblica all’Unità. Milano 1963, p. 230.

14 G Candeloro, Storia cit. p. 200. Oppure per ulteriori approfondimenti P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia Meridionale dall’Ottocento ad oggi, Roma 1993.
15 Per ulteriori approfondimenti: E. Sereni, Il capitalismo cit.; Id., Storia del paesag- gio agrario italiano, Bari 1972. Oppure A. Del Monte-A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, Bologna 1978, p. 49.

__________________________________________

CAPITOLO II

DESCRIZIONE GEOGRAFICA ED ECONOMICA
DEL PRINCIPATO ULTRA NEGLI ANNI 1860-1880

        Il Principato Ultra è diviso in tre circondari: il circondano di Avellino, di Ariano e quello di Sant’Angelo dei Lombardi. I tre circondari presentavano , presentano ancora oggi, caratteristiche agrarie e rurali diverse. E del resto anche Villani nota come non c’è un modello, ma “modelli campani”1 infatti la Campania “manca di una struttura produttiva omogenea distribuita sul territorio regionale”2.
        La prima zona agraria è costituita dai comuni posti a sinistra del fiume Ufita. Questo circondano si distingueva per la prevalenza della coltura intensiva e “per un maggior frazionamento proprietà cui corrispondeva una maggiore densità di popolazione (130 abitanti per chilometro quadrato) nel 1879”3 ; il latifondo è quasi del tutto assente. Questa zona è quella più sviluppata e meno toccata dalla ristrutturazione fondiaria, quella dove si verificò un maggior sviluppo del mercato agricolo, vi abbondano, infatti, le colture pregiate: viti, nocciole e castagni. Le castagne vengono esportate anche all’estero e la zona di maggior produzione si trova nei comuni di Bagnoli e Montella.Le viti, invece, abbondano nei comuni collinari come Tufo, Taurasi, Lapio, Montefredane e Castelfranci.
        Per quanto riguarda la produzione del vino, già Valagara, nella sua relazione per l’inchiesta agraria Jacini, così si esprimeva: “questa produzione è la principale vena da cui la provincia trae il suo benessere, sia se si tenga conto dell’attuale importanza del suo prodotto e dell’esportazione che si è fatta; sia se si consideri il più prospero avvenire”4. Comunque le terre erano coltivate in buona quantità a granturco: il territorio complessivo coltivato a granturco nella provincia è di ettari 35500 circa, dei quali 24.670 sono nel circondano di Avellino, 6530 nel circondano di Ariano e 4.300 nel circondano di Sant’Angelo. Nelle tre zone agrarie la maggior parte dei terreni è coltivata “nelle fresche valli, le quali seguono il corso dei fiumi e dei principali torrenti che scorrono nella provincia e quivi prospera meglio che altrove trovandosi in terreni formati dai depositi alluvionali “5.
        Il secondo circondano è caratterizzato dalla “coltura estensiva, da un minor frazionamento della proprietà, dalla presenza di alcuni latifondi nei comuni vicini alla Capitanata e da una minore intensità di popolazione (79 abitanti per chilometro quadrato)”6. Vi erano, anche, un gran numero di braccianti, i quali durante le annate negative emigravano temporaneamente o nella prima zona o nelle province limitrofe. In questa zona la coltivazione è a frumento, che si coltivava anche a 1.200 metri di altezza, anche se dopo l’Unità, quando la zona sarà toccata dal fenomeno della quotizzazione dei beni ecclesiastici e comunali, questa coltivazione a frumento si accentuerà, anche a spese del bosco, sino a raggiungere il raddoppio della produzione negli anni ‘70. Il sistema di produzione rimase, però, quello tradizionale. Infatti, durante gli anni Ottanta, quando la depressione agraria investì l’Europa e si farà sentire anche in Italia, l’agricoltura avellinese andrà incontro ad una delle crisi più acute della storia della provincia: “i mercati internazionali si chiudono così ai prodotti irpini svantaggiati anche dalla guerra doganale con la Francia e dall’immissione sul mercato di prodotti provenienti da nazioni sino ad allora ai margini del commercio internazionale. In questo modo crollano i prezzi del vino e delle colture pregiate mentre in alta Irpinia all’isterilimento dei terreni, dissodati e sfruttati in maniera errata e senza pause, fa seguito un grave dissesto idrogeologico (cui non è estraneo lo stesso disboscamento selvaggio) al quale si può porre rimedio solo col passar di lunghi anni”7 . Secondo Jannino la crisi appare di difficile soluzione soprattutto perché negli anni di relativa espansione la struttura sociale delle campagne è rimasta quasi immobile; infatti, qualsiasi tentativo di stimolare l’agricoltura è sempre fallito perché non è stato accompagnato da un effettivo miglioramento della società. Questo discorso vale anche per gli intellettuali più avanzati come Valagara che non riescono a proporre cambiamenti strutturali, soffermandosi, invece, solo sulle necessità di miglioramenti tecnici ,come ad esempio la continua e a volte ossessiva richiesta di introduzione di scuole di vario grado8 . Non è un caso che una serie di amministratori si formeranno altrove, in particolar modo a Portici. Se si sfogliano,infatti, gli elenchi dei laureati in Scienze agrarie a Portici ci si rende conto che molti proprietari, sotto la spinta incessante della modernizzazione dell’agricoltura, ritennero indispensabile una preparazione più specifica9 .
        Il circondano di Sant’Angelo dei Lombardi, invece, presenta caratteri tipici dell’agricoltura di montagna, quindi di pura sussistenza, a bassissimi livelli tecnico-produttivi, con proprietà molto frazionate. Il grano veniva coltivato anche a 1.200 metri di altezza; dopo la quotizzazione dei beni ecclesiastici la coltivazione del frumento, che prima era meno diffusa, andrà progressivamente aumentando; un dissodamento selvaggio delle aree montane aveva lentamente sostituito il bosco di alto fusto o la pastura con il campo da messe. Questo avveniva, soprattutto, per ex-beni ecclesiastici dove gli acquirenti disboscavano selvaggiamente per vendere la legna e con il ricavato pagavano la quota della terra10 .
        Comunque era abbastanza povera la produttività agricola in alta Irpinia; infatti Valagara sosteneva che “nei territori di non pochi comuni si dice buonissima l’annata, e dalla povera gente si fa festa, qualora il prodotto del frumento raggiunga i dieci ettolitri per ettaro, la si dica buona quante volte se ne abbiano sette ettolitri; cattiva, se discendasi a quattro. Infelicissima condizioni codesta di numerosi popolazioni, le quali son ridotte a giudicare buono un prodotto quasi inferiore al minimo che può dare una terra mediocre sufficientemente concimata e sottoposta a coltura avvicendata. Costoro non si mostrerebbero di così facile contentatura, qualora sapessero di essere ormai dalla scienza constatata che la ragione minima del prodotto oscilla tra i sette e gli Otto ettolitri di grano per ogni ettaro, quando diasi alla terra una sufficiente coltura; e che scendendosi al di sotto della detta proporzione, il prodotto ragguaglia appena le spese di coltivazione ed il lavoro del povero contadini è malamente retribuito”11. Quindi bisogna ricordare l’economia povera, di autoconsumo, in cui si trova, in questi anni, il circondano e tutta la provincia, “che ancora non sembra rendersi conto dei condizionamenti del mercato, anche se poi, direttamente o indirettamente, è costretta a subirli e viene coinvolta nel grande fenomeno dell’emigrazione”12. Infatti “i lavoratori non arrivano a ritrarre dal loro lavoro giornaliero tanto quanto basta per menare innanzi la vita, e ciò deriva dal salario che non accede il suo limite minimo, lasciando non poco a desiderare perché migliorasse almeno di tanto da poter soddisfare a tutti i bisogni necessari per la vita dell’operaio e non costringerlo per la mancanza del lavoro e per la mitezza del salario ad abbandonare padre e famiglia ed emigrare in cerca di migliore fortuna”13. Questo fenomeno, che fu forte soprattutto dopo gli anni Ottanta, cominciò a diffondersi in tutto il Mezzogiorno a causa della scarsa penetrazione del capitalismo nelle campagne e del prevalere numerico dei contadini poveri14. Mentre questi ultimi in Valpadana difesero i loro interessi con la lotta, “l’emigrazione, invece, fu l’atto conclusivo della disgregazione meridionale, il socialismo fu la risposta ‘aggregante’ che i braccianti padani diedero alla condizione precaria della loro vita, costruendo quello che è stato definito forse l’unico esempio di civiltà contadina moderna emerso nella società italiana” (Cafagna)15.
        Oltre alle grandi ondate migratorie oltre-oceaniche, vi era anche una forte mobilità interna, quindi una migrazione regionale ed interregionale.
        I contadini si spostavano da un circondano all’altro (es. da quello di Sant’Angelo o di Ariano a quello di Avellino) o da provincia a provincia, se non addirittura da regione a regione (es. dal circondano di Ariano alla Puglia). Questi movimenti erano importanti in quanto “senza queste migrazioni regionali e interregionali una serie di operazioni agricole che, come la mietitura, richiedono un’alta quantità di braccia da lavoro, non sarebbero state possibili”16. Comunque bisogna ricordare che “le vicende demografiche, scandite da pesti ed epidemie nell’antico regime, da massicci flussi migratori nell’età contemporanea, assumono un rilievo importantissimo se non determinante nella strutturazione della società rurale e più generalmente di tutta la società in rapporto sia alla conformazione del territorio sia alla disponibilità e allo sfruttamento delle risorse“17.

__________________________________________
1 P. Villani, L’eredità storica e la società rurale, in Storia d’Italia, le Regioni (La Campania), Torino 1990, p. 70.
2 G.Montroni, Mercato della terra ed elites patrimonial4 in Storia d’Italia, Le Regio- ni (la Campania), Torino 1990, p.3 il.
3 E Jannino, La destrutturazione dell’economia irpina nei primi decenni unitari. L’Irpinia nella crisi dell’unificazione, in “Quaderni storici irpini” a cura di A. Cogliano. Avellino, 1989, p.l34.
4 R. Valagara, Relazione su agricoltura, la pastorizia e l’economia in Principato Ultra. Avellino, 1879, p.110.
5 ASA, Prefettura, inventano 8, busta 58.
6 F. Jannino, La destrutturazione cit., p. 135.
7 Ivi, p. 136.
8 Ibid
9 E. Musella, Proprietà cit., p. 54. Vedi anche Orlando, Storia della politica agraria in Italia dal 1848 ad oggi, Bari 1984, pp. 49-51.
10 R. Valagara, Relazione cit., p. 67. I disboscamenti venivano effettuati negli ex-beni ecclesiastici dagli stessi acquirenti, che per poter subito pagare la quota vendevano la legna ricavata dai boschi.
11 Ibid.
12 P. Villani, L’eredità cit., p.42.
13 ASA, Pref., mv. 10, busta n. 13.
14 Per ulteriori approfondimenti: E. Sereni, Il capitalismo cit.; G.Galasso, Il problema più doloroso: l’emigrazione, in Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, 1965, pp. 352-376; E. Sori, L’emigrazione italiana dall’unità alla seconda guerra mondiale, Bologna 1979.
15 G. Carocci, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Milano 1977, p. 69.
16 G. Montroni, Popolazioni e insediamenti in Campania (1861-1981), in Storia d’Italia; Le Regioni (La Campania), Torino 1990, p230.
17 P. Villani, L’eredità cit., p. 76.
__________________________________________

CAPITOLO III

ASPETTO CREDITIZIO E MERCATO DELLA TERRA
IN UN PAESE DELL’ALTA IRPINIA: VALLATA
(Valore, uso, destinazione e significato economico-sociale della terra)

1) IL PAESE

        Alla testa dell’Ufita, affluente del Calore, Vallata sorge tra le colline e i monti che segnano il confine tra l’Irpinia e la Puglia, sulla strada, “la 91, che collega con un tortuoso cammino Benevento ad Eboli. A una settantina di chilometri da Avellino, è arroccata a quasi 900 metri sul livello del mare. Quando è sereno, i vallatesi vantano che lo sguardo spazi dai monti della costa adriatica al Vesuvio”1, come ci ricordano questi versi popolari: “A mò di nave verso il ciel proteso di valli apriche sentinella pare, l’occhio spazia per l’immensa distesa fino al Vesuvio e al Garganico mare”. Al di là dell’Ufita ci sono paesi cari ai cultori di me- morie desanctisiane: Morra, Andretta, Bisaccia, Calitri, Lacedonia.
        Vallata, dunque, è uno dei nuclei principali del Principato Ultra, nel circondano di Ariano Irpino. Aveva nel 1880 una popolazione di 3.771, una superficie agro-forestale di 3.136 ettari ed una densità di 0,23 abitanti per ettaro2. “Il villaggio, tutto concentrato in se stesso, appariva opporre all’agricoltura estensiva l’esclusiva valorizzazione di ciò che riusciva a racchiudere nei suoi più immediati interessi e per la precarietà delle vie di comunicazione dei grossi canali del commercio , riservato ad incettatori e monopolisti soprattutto di cereali, prevaleva il mercato locale [...]. L’altra alternativa concessa ai cereali era il pascolo che dava maggiori percentuali di rendita nei comuni con territorio più ampio,Vallata e Trevico (3,23 % e 3,36%): in alcune zone si avevano quindi le caratteristiche di un’economia cerealicolo-pastorale [...]. La pastorizia, anche se vagante, finiva per presentarsi come più incentivante dell’agricoltura estensiva nonostante la decadenza che registrava in seguito alla divisione dei demani; e ciò non per propri meriti, ma per l’appiattimento economico rappresentato dal latifondo non capitalistico”3. “L’area montagnosa tra l’Irpinia e la Baronia è, senza dubbi, quella con caratteri più poveri e più arretrati della Campania: infatti grano ed orzo, grano ed avena, grano e mais, cui succede il riposo della terra per due o più anni, si inerpicano qui nelle zone più accidentate fino alla roccia nuda”4.
        Nel paese vi erano 969 “case di abitazione”, 9 “molini”, 16 “case di abitazioni nelle campagne”, 4 “taverne”, 7 “forni”, i “centimoli”, 3 “fornaci”5.
        Dalle indicazioni catastali, con precisi riferimenti alla qualità e alla posizione delle terre, contenuti in quasi tutti i contratti di compravendita rogati dai notai, si possono raccogliere utili informazioni sulla natura dei terreni e sulle colture praticate nella zona. Come si può notare analizzando i contratti, numerose erano le terre appartenenti alla 3a classe e ciò metteva in evidenza la bassa produttività delle stesse. I notai indicano, per i singoli appezzamenti di terra, l’estensione, sempre l’ubicazione, i confini, l’eventuale presenza di edifici rurali e fonti d’acqua, il tipo di coltura, più raramente il numero e la specie degli alberi, che evidentemente vi si trovano. Attraverso la loro minuziosa attenzione, possiamo ricostruire i caratteri tipici dell’agricoltura, anche se questi dati potrebbero essere integrati con informazioni provenienti da altre fonti. Dalle descrizioni dei notai vallatesi, quindi, possiamo dire che il paesaggio appariva così articolato: il seminativo nudo, il seminativo alborato, il seminativo arbustato, seminativo e vigneto, vigneto ed orto.
        Ci sono alcune zone che il più delle volte erano caratterizzate dalla sola presenza della vigna, dando anche il nome alla zona, infatti la toponomastica prendeva il nome da questa: “Festola”, “Miezzo”, “SanPietro”, “Vignale”, “Vignarulo”, “Macchiavino”, “Vitino” e “Mulini della vigna”. “Alcuni di questi toponimi conservano nella loro struttura lessicale evidenti tracce di una presenza consolidata e di antica tradizione della viticoltura, segno non trascurabile di precise connotazioni nel lungo periodo del paesaggio agrario“6.
        Vallata economicamente era un paese prevalentemente agricolo, quindi la terra era il motore di tutto ed era simbolo evidente, per quantità e valore, dello status sociale di ciascun abitante, di cui costituiva per altro l’unica fonte di ricchezza, di reddito, di sostentamento. Infatti, nelle campagne irpine si consolidò “un sistema previdenziale surrettiziamente fondato sulla proprietà della terra”7.

__________________________________________
1 T. De Mauro, Prefazione a D. M. Cicchetti, Un'isola nel mare dei dialetti meridionali, Vallesaccarda, 1988, p. 5.
2 M. A. Barra, Liquidazione delL’asse ecclesiastico e il mercato della terra, in L’Irpinia nella società meridionale, Annali del Centro G. Dorso, Torno I, Avellino, 1987, p. 108.
3 R. De Lorenzo, Aspetti dell’habitat rurale del Principato Ultra nei rilevamenti del catasto napoleonico, in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre, Napoli, 1985, pp. 190-191; M. Rossi-Doria la considerava “agricoltura dell’assurdo”, vedi Struttura e problemi dell’agricoltura meridionale, in Riforma agraria e azione meridionalista, Bologna, 1956, pp. 10-11.
4 G. Montroni, Società e mercato della terra . Napoli 1983, p.Y1.
5 ASA, Catasto Napoleonico. Comune di Vallata vo1. I, Tav. 11.
6M.R. Pellizzari, Per una storia dell’agricoltura irpina in età moderna,in Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, a cura di A. Massafra, Bari 1981. p.l92.
7M.A. Barra, Mercato cit., p.7l.
__________________________________________

2) ASPETTO CREDITIZIO E MERCATO DELLA TERRA.

        E’ proprio sulla centralità del ruolo della terra che ci soffermiamo: in particolar modo sulla compra-vendita della stessa nel periodo che va tra il 1860 al 1880. Dagli atti notarili si può notare che è il 5,27% di terra che passa di mano in mano. Nel corso di questi 20 anni a Vallata furono stipulati 259 contratti per la vendita di 270,62 ettari di terreno, che rappresentano circa la ventesima parte del territorio comunale, si hanno, quindi, poche centinaia di vendite e solo il 28,4% di terre vendute raggiungono l’ettaro. Da questi dati si può dedurre che ci troviamo di fronte ad una proprietà terriera ben consolidata, che in qualche modo mette in evidenza l’esistenza di un ceto di proprietari agiati o esenti dalla necessità di vendere. Pertanto, abbiamo un ulteriore rafforzamento di questi ultimi a discapito dei ceti più poveri, dei contadini in particolare.
        Potremmo riassumere così: “la terra si compera ma non si vende”.
        Non va dimenticato, però, l’andamento crescente dei prezzi delle derrate agricole, che in questo periodo spinsero le élites locali a spendere la maggior parte del denaro ricavato dalla commercializzazione delle derrate verso il mercato fondiario. Questo, forse, è stato determinato dalla decadenza economica dell’Irpinia dopo l’unità d’Italia, “in grande misura connessa alla crescente marginalizzazione commerciale di Avellino che confina i gruppi economicamente più forti in una dimensione esclusivamente immobiliare, con evidenti processi di impoverimento”8, quest’ultimo dovuto anche alla mancanza di denaro liquido rastrellato dai “piemontesi”, oltre che per mezzo della tassa fondiaria, con le vendite di terre ecclesiastiche e demaniali e con l’offerta del debito pubblico.La marginalizzazione, comunque, fu dovuta alla costruzione del tronco ferroviario NA - BN - FG, che tagliò il Principato Ulteriore dalla sua vecchia e fortunata via dell’intermediazione commerciale tra la Puglia e Napoli.
        Alcuni personaggi di spicco vengono fuori dalla analisi del paese; essi venivano dai notai classificati con il “Don” iniziale e di “condizione civile”, mentre le altre figure sociali sono il proprietario, il contadino, il muratore, il colono, il prete, il farmacista ed il notaio.
        Il mercato della terra a Vallata, in questi anni, è dominato da due personaggi: Don Biagio Gallicchio e Don Gaetano Pelosi. I signori Don Biagio Gallicchio e Don Gaetano Pelosi erano anche coloro che svolgevano attività creditizia.
        Nel marzo del 1859, Don Biagio Gallicchio faceva credito “di ducati 344 pari a lire 1.462 a Gaetano Pavese che si obbligava a pagani nell’agosto dello stesso anno con l’interesse alla ragione del 6%. Vito Pavese sapendo che il padre Gaetano non poteva saldare il conto per mancanza di mezzi,esso medesimo si era proposto di estinguerlo con i propri denari ricavati dai lucri dotali della moglie. Egli sborsava la somma di lire 1.462 con interessi maturati da agosto sino ad oggi in ducati 10 pari a lire 42 e centesimi 50”9.
        Numerosi erano i motivi per ricorrere al prestito, variabili erano le somme prese in prestito ed anche la durata era diversa: il denaro passava di mano in mano per pochi mesi o per una decina di anni. Anche il tasso di interesse variava da creditore a creditore, da debitore a debitore ed esso oscillava dal 3 % al 10% . Vi è anche un caso in cui non vi era tasso di interesse, quando Don Pietro Sauro prendeva a “mutuo gratuito da Don Biagio Gallicchio lire 141 e centesimi 40 e che si obbligava a pagarli il 20 novembre del 1868”10.
        Qualora i debitori non avessero saldato il debito, erano costretti a vendere i loro beni o addirittura a cederli al creditore, come si può constatare da un mutuo effettuato dal signor Don Biagio Gallicchio a pro di Don Leopoldo Crincoli e di suo figlio Don Francesco, entrambi proprietari”. Don Biagio gli aveva prestato una cifra di lire 1.213 e centesimi 37 che Don Leopoldo e Don Francesco Crincoli si impegnavano a pagare con un tasso di interesse del 10%. I Crincoli, inoltre, sottoponevano a speciale ipoteca alcuni loro beni “costituiti da un fondo vitato e seminatorio”, dell’estensione di ettari 1, are 17 e centiare 4511. Oppure vi è il caso di Saverio Rauseo di Trevico, proprietario, “che avendo preso in affitto da Don Gaetano Pelosi un comprensorio di terreno di ettari 61, are 61 e centiare 38, per l’annuo estaglio di ettolitri 86 e litri 66 di grano ed essendovi verificato un arretrato e non avendo i mezzi per pagano, attende il prossimo raccolto”. Qualora, però, alla data stabilita non fosse stato compiuto il pagamento dovranno aggiungersi, fino al saldo del debito, gli interessi al 10% 12.
        Gaetano Pelosi nello stesso giorno stipulava con i signori Venanzio Andreotta, Vito Chiavuzzo e Felice Steritti, tutti contadini e domiciliati in Trevico, un altro contratto.
        Questi cittadini, non avendo mezzi per seminare i terreni di proprietà del signor Gaetano Pelosi, prendevano in prestito “da costui ettolitri 20 di grano, ettolitri 5 di orzo ed ettolitri 4 e litri 44 di avena, del valore complessivo di lire 533 e centesimi 34, secondo il prezzo che attualmente corre in piazza”; i debitori si impegnavano a pagare la somma ricevuta nel giro di un anno e mezzo (da ottobre 1871 ad agosto 1872) senza interessi “ma qualora non si fosse rispettata la data prestabilita scattavano gli interessi alla ragione del 10%“13.
        Anche dopo l’Unificazione nazionale, nella provincia e nella regione, esistono forme di anticipazioni, in denaro o in semenza (di grano, frumento, avena, orzo ecc.), ai lavoratori agricoli con restituzione in derrate agricole “che, come nel meccanismo tardo settecentesco del contratto alla voce, consentono speculazioni giocate sul semplice ciclo annuale dei prezzi” ; il denaro anticipato andava restituito in prodotti subito dopo il raccolto, “pagamento all’estaglio”, quando i prezzi erano a livelli più bassi dell’anno. Atteggiamento tipico non solo della Campania ma “di agricolture povere, afflitte cronicamente da bassa redditività lontane dal mercato e dai circuiti monetari”14.
        Da ciò che si è esaminato, si può notare che la terra si vendeva solo per necessità, come una scelta obbligata dopo una situazione debitoria. Inoltre “la terra viene molto spesso vendute a rate in piccolissimi lotti staccati successivamente dallo stesso fondo; la terra era insomma per i proprietari come una sorta di conto in banca dal quale è possibile attingere nei momenti di bisogno”15.
        Vi sono come esempio alcune famiglie vallatesi indebitate, appartenenti a ceti di contadini e “benestanti”, insomma, quelli che risultano dagli atti notarii come “proprietari”. Vi è l’esempio di Salvatore Colicchio, contadino, che per una situazione debitoria era costretto a vendere al suo creditore Don Simplicio Tanga, sacerdote, “un fondo seminatorio”16. Una situazione simile la riscontriamo con i germani Mazzei, i quali essendo debitori e non avendo i mezzi per pagare alienavano “in favore di donna Angiolina Serafini un comprensorio di case rurali e una stalla da bovi con pagliera come pure l’intero fondo di sua natura parte seminatoio e parte arbustato (con vigne e pozzo d’acqua sorgiva) dell’estensione di are 12 e centiare 30”17. Il ricavato andava nelle tasche dei loro creditori, in quelle della signora Serafini che non solo comperava i beni dei Mazzei, ma intascava anche una parte dei soldi che lei stessa aveva precedentemente sborsato; l’altra parte, invece, andava al signor Don Nicola Cataldo ed a Donna Maria Domenica Sauro.
        Con una procedura diversa, veniva saldato il debito della signora Santa Adiramandi, “che aveva venduto la sua proprietà a Rosa Cataldo per saldare un debito di L. 212 e centesimi 30, fatto da suo marito Nicola Zamarra con il signor Giuseppe Di Netta, il quale riceveva le sue E. 212 e centesimi 30, con i cari interessi lievitati in un anno”18. Troviamo anche la vendita di un pezzo di terra, che donna Generosa Cataldo effettuava per estinguere un debito, contratto per garantire “alla figlia un corredo e vari mobili”19. La vendita di terra per acquistare la dote alle proprie figlie era frequente in queste realtà, dove non circolava denaro contante, in quanto la dote poteva essere formata dal corredo, e/o da mobili e rarissime volte da denaro, mentre i beni immobili, la terra o la casa, andavano al primogenito maschio.
        Le vendite di terre per estinguere i debiti si possono dividere in due gruppi: quelle in cui ad acquistare era il creditore e quelle in cui ad acquistare erano i terzi. Molte volte non troviamo espressa la cancellazione dei debiti nell’atto di compra-vendita: bastava che il pagamento fosse stato effettuato prima della stipulazione del contratto. In alcuni atti, invece, troviamo anche alcune formule espresse così: “il venditore volendo far cosa grata al compratore oppure “han pregato l’altro”. Questi erano atti declassanti per il venditore necessitato a vendere in un momento di bisogno, per cui gli atti sono pieni delle “giustificazioni dei venditori Vita Antonia Chiavuzzo, ad esempio, “non potendo più lavorare a causa della sua pessima salute aveva deciso di alienare il suo bene al signor Don Gaetano Pelosi, un seminatoio alborato dell’estensione di circa are 42 e centiare 70”20. Il signor Don Gaetano Pelosi comprava il fondo “per far una cortesia alla sua compaesana e “la pagherà ogni anno a durata di costei vita, tomoli 6 di grano di buona qualità pari a ettolitri 3 e litri 34” 21.
        Oppure vi è un altro caso e sistema di vendita, come quello dei germani Bartolomeo e Caterina Silla che per saldare un debito erano costretti a vendere “un seminatoio alborato” con la possibilità di riscattarlo nel giro di due anni dal signor Donato Quaglia22.
        Altro sistema di vendita era con possibilità di riscatto, quasi sempre entro un periodo variabile da uno a cinque anni. E’ evidente, però, che in questi contratti il venditore non agiva allo scopo di svendere la sua terra, ma essenzialmente per ottenere un mutuo; così il compratore era mosso, oltre che dalla volòntà di acquistare, anche dalla disponibilità a concedere un mutuo, fermamente garantito dall’anticipata acquisizione della proprietà di un fondo almeno di uguale valore. E nel caso ci fosse stato un mancato riscatto , si imponeva al compratore il pagamento di un conguaglio, da definirsi sulla base del riapprezzo del fondo, o la terra rimaneva al compratore. Si può dire, quindi, che la terra era più importante del denaro, anzi solo attraverso essa lo si poteva ottenere. Infatti, solo chi possedeva la terra, un vigneto o un orto poteva facilmente ottenere un mutuo, servendosi di essa come garanzia: “cedendone parzialmente o totalmente al prestatore lo sfruttamento diretto oppure assicurandogli una quota determinata della produzione o un censo corrispondente in denaro, fino al momento della completa redenzione del prestito, cioè fino all’estinzione del debito”23.
        Quando non si poteva ricorrere al semplice prestito ed era necessario vendere della terra, lo si faceva, quasi sempre, conservandosi la possibilità di riscatto. In verità, si aveva paura di vendere un pezzo di terra: “scambiare terra con denaro significava per la gran comunità (vallatese), imboccare un vicolo cieco“24.
        A proposito è pregnante applicare l’osservazione marxiana di “merce-denaro-merce” (M-D-M), dove M-D rappresenta la vendita e D-M rappresenta l’acquisto. Lo scambio delle merci, secondo questa formula, è sintetizzabile con l’espressione: “vendere per acquistare”. Però non si verifica l’aspetto opposto cioè la formula “Denaro-Merce-Denaro” (D-M- D); dove l’acquisto è D-M e la vendita è M-D; solo che ora l’acquisto precede la vendita, quindi il processo è pertanto sintetizzabile con l’espressione “acquistare per vendere”. In questo caso il denaro non ha più, come nel caso di M-D-M, valore d’uso, ma di scambio: il denaro iniziale si trasforma in merce con l’acquisto per, poi, ritrasformarsi in denaro con la vendita25: cosa che non avviene per la comunità vallatese. L’economia rurale si concentrava tutta sulla terra, ma questa era ben lontana dall’essere, come si è detto precedentemente, una merce nel senso capitalistico del termine: non sempre, infatti, le vendite seguivano la logica del mercato, ma variabili extraeconomiche.
A Vallata, quindi , è il 18% che vendeva con la clausola del riscatto e precisamente su 259 atti di vendita 49 erano stipulati con questa possibilità. Confrontando questi dati con quelli elaborati da M.A. Barra per Guardia dei Lombardi, per Nusco e Solofra, ci accorgiamo che Vallata aveva un atteggiamento simile a quello di Nusco e di Guardia, in quanto le vendite con possibilità di riscatto rappresentano per il primo il 17 %, per il secondo il 18% mentre per Solofra soltanto il 5% dei totale. Anche se ciò non vuoi dire che a Solofra i proprietari terrieri avessero meno bisogno di credito, qui le vendite stipulate per soddisfare i debiti costituivano il 22%, invece a Guardia e a Nusco 11%, e a Vallata il 6,9% del totale. Ciò stava ad indicare che il denaro a Soiofra era meno legato alla terra e il bisogno di credito trovava altre vie dalle vendite con possibilità di riscatto. Comunque il caso Solofra è importante per mettere meglio in evidenza “il carattere arcaico di quel forte intreccio, che si è evidenziato tra mercato della terra e credito”26 nei vari paesi irpini con forte persistenza alla ruralità.
        In altri casi, la terra veniva anche presa in affitto dal venditore, come si potrà constatare nel capitolo relativo agli affitti dei terreni. Per quanto riguarda le vendite con possibilità di riscatto a Vallata, possiamo citare quella in cui troviamo Don Biagio Gallicchio che comprava un seminatorio alborato di are 16 e centiare 80” dal signor Francesco Cataldo. La vendita era effettuata per il prezzo di L. 127, però il signor Francesco Cataldo aveva concluso il contratto con la possibilità di riscattare il fondo venduto nel giro di tre anni27. Tre anni prima Don Biagio aveva comprato da Giovanni D’Enrico un altro fondo “di natura seminatorio alborato dell’estensione di ettari 3, are 13 e centiare 11, la vendita era stata effettuata per L. 1.400 e centesimi 75 però il venditore Giovanni D’Errico vendeva con la possibilità di poterlo riscattare nel giro di quattro anni e mesi quattro”28.
        Vi è un caso analogo, quello di Don Angelo Maria Travisano, il quale vendeva a Don Giuseppe Rogata “un seminatorio di ettari 2, are 69 e centiare 19. La vendita veniva effettuata per L.764 e centesimi 98 con il patto della ricompera nel giro di anni 5 “29. Un altro esempio è la vendita effettuata da Maria Di Netta, di condizione proprietaria, “di un fondo seminatorio di ettari 1, are 68, centiare 24” a Vincenzo Pavese, anch’egli definito nel protocollo proprietario. Il fondo veniva venduto per ducati 1.50 pari a L. 637 e centesimi 48”. La venditrice, però, aveva pattuito che poteva ricomprare il seminatorio nel giro di tre anni30.
        Negli atti notarili troviamo, anche, un caso di compravendita di due pezzetti di terreno staccati da uno stesso fondo più grande, in due momenti diversi, sempre però con la clausola del riscatto. E’ il caso di Nicola Cornacchia e di Angela Rosa Monaco, entrambi proprietari e domiciliati in Vallata. Quest’ultima, con due atti dello stesso anno, vendeva a Nicola Cornacchia prima “un seminatorio alborato dell’estensione di are 41” per L. 216 e centesimi 7531, poi “un fondo macchioso di are 13 e centiare 41” per L.8532. Per il primo fondo la durata del riscatto era di tre anni, mentre per il secondo quattro. Purtroppo, pochi saranno coloro che riusciranno a riscattare le terre alienate: solo 9 individui riusciranno nel loro intento; ciò dimostra che la mancanza di un vero e proprio mercato o la lontananza da quest’ultimo, importante per la capitalizzazione dei possibili prodotti locali e, quindi, per la circolazione di denaro, faceva si che non sempre i vallatesi riuscissero a riscattare le loro terre precedentemente vendute.
        Altro fattore da non trascurare è il numero delle vendite con possibilità di riscatto, dove, però, l’acquirente era un confinante, infatti, su 49 atti in ben 21 gli acquirenti sono confinanti. Quindi, come si può ben notare, all’interno delle reti di vicinato il flusso degli scambi era continuo, poiché la sua circolazione nell’area delle relazioni del venditore era una condizione per il suo recupero; infatti, più stretti erano i legami con l’acquirente maggiore era la garanzia di un ritorno dei beni immobili eeduti. Come più volte è stato detto, la terra era una risorsa vitale e proprio per questo lo sforzo dei vallatesi era teso a conservarne la proprietà.
        A Vallata, come in molti altri paesi del Mezzogiorno con economia povera, non esisteva un vero e proprio mercato della terra, ma essa diveniva oggetto di scambio per necessità: insomma “la terra si compra ma non si vende”.
        Accanto a queste vendite tra privati, non vanno dimenticate quelle dei beni ecclesiastici che riguardavano 792 ettari in un territorio comunale con una superficie agro-forestale di 3.136 ettari, quindi il 17,87% del territorio. Il mercato “pubblico” della terra presentava peculiarità ben diverse da quello “privato”, in quanto quest’ultimo era legato alla piccola comunità rurale vallatese, dove vi era una prevalente economia di sussistenza, i cui rappresentanti erano legati tra loro da una netta rete di parentela e relazione ed attorno alla “proprietà” vi erano molteplici interessi ed affetti. Le vendite dei beni ecclesiastici, invece, non legate a problemi di stretto rapporto di parentela, di interessi e di affetti, mettevano in evidenza una pura e semplice convenienza economica nella scelta dei compratori: il mercato privato evidenziò il suo carattere arcaico33.

__________________________________________
8 G. Montroni, Mercato cit., p. 300; per ulteriori approfondimenti: G. Moricola, Tra centro e periferia: appunti per la storia dell’Irpinia in età liberale, in Centro di ricerca G.Dorso. Annali 1987-1988. Avellino, 1989. pp. 385-386.
9 AndB, Not. F. A. Novia, Vallata 7 marzo 1865.

10AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 24 novembre 1867.
11AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 14 novembre 1871.
12AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 13 ottobre 1871.
13 AndB, Not. EA. Novia, Vallata 15 ottobre 1871.
14 G. Montroni, Mercato cit., p. 298. Per il contratto alla voce: P. Macry, Ceto mercantile e azienda agricola nel regno di Napoli: contratto alla voce nel XVIII secolo, in “Quaderni Storici”, Bologna, 1972, pp. 85 1-910.
15 G. Montroni, Mercato cit., p. 296.
16 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 30 aprile 1871.
17 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 16 novembre 1863.
18 AndB Not. F.A. Novia, Vallata 27 novembre 1867.
19 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 2 febbraio 1878.
20 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 4 novembre 1872.
21 AndB, Not. FA. Novia, Vallata 13 settembre 1867.
22 AndB, Not. FA. Novia, Vallata 21 settembre 1869.
23 G. Giorgetti, Contadini cit., p. 85.
24 G. Civile, Il Comune Rustico, Bologna 1990, p. 43.
25 K. Marx, Il capitale (traduzione di De/io Cantimori), libro I, cap. III, pp. 126-136, libro I sez. Il, pp.l78- 179, Einaudi, Torino 1978.
26 M. A. Barra, Liquidazione cit., p. 74.
27 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 12 febbraio 1873.
28 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 10 aprile 1870.
29 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 4 novembre 1868.
30 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 5 settembre 1867.
31 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 18 marzo 1871.
32 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 22 maggio 1871.
33Per approfon dimenti: M.A. Barra, Mercato cit., p. 53-108.

__________________________________________

3) I PREZZI.

        Per quanto riguarda i prezzi delle terre, vi sono vari motivi per comprendere l'andamento del mercato fondiario: deprezzamento della moneta, pressione demografica accentuata o clima economico euforico. Ma è ben chiaro che il valore dei beni fondiari segue strettamente il corso dei cereali: rallenta la sua progressione quando questo è in caduta, ritrova la sua forza nello stesso momento in cui il prezzo del frumento ricomincia a lievitare.
        Per ragione speculativa o per mimetismo, il mercato fondiario segue l'indice dei prezzi. Il prezzo della terra aumenta in base ad una dinamica propria legata alla congiuntura e alle risorse dei proprietari. Non considerando questa congiuntura e sempre supponendo che in un campione sufficientemente grande si possa disporre di un insieme di terreni di qualità e situazioni comparabili, il valore di vendita resta un prezzo nato dal confronto dei soli venditori e compratori.
        Questa ricerca, però, incontra un forte limite nell'impossibilità di individuare l'influenza sui prezzi delle varie circostanze che abbiamo analizzato. Sarebbe stato possibile ciò, solo se avessimo avuto un'omogeneità tra i fondi venduti; e nel nostro caso, trattandosi di terreni morfologicamente non uniformi con colture diverse, spesso sottoposte a canoni ed a censi e con irregolare distribuzione di peculiarità agricole, non è possibile effettuare un confronto tra prezzi
calcolati per unità di misura. Non va dimenticato, come sottolinea M.A. Barra, che il periodo considerato "vede un rapporto straordinariamente alto tra territorio e popolazione, tale periodo ha alle spalle l'imponente crescita demografica del XIX secolo, mentre è appena lambito dal fenomeno dell'emigrazione, che falcidierà, nei decenni successivi, le popolazioni meridionali. Nello stesso periodo, inoltre, forme di collocazione fruttifera del risparmio — si pensi, in particolare, al debito pubblico — risultavano diffuse ed accettate. Queste circostanze non potevano non incidere sul prezzo della terra ancorandolo in modo particolarmente stretto al valore effettivo dei fondi, cosicché le oscillazioni connesse ai rapporti fra i contraenti ovvero a situazioni di pressante bisogno del venditore o particolare interesse del compratore ad un determinato fondo, risultassero, salvo casi eccezionali, contenute"34. I formulari variano, di solito, da notaio a notaio. A Vallata, per questo periodo, troviamo due notai: Francesco Alfonso Novia e Alfonso Netta (anche se per quest'ultimo troviamo atti che coprono un arco di tempo che va dal 1860 al 1870). Da contratti rogati da questi ultimi siamo riusciti a formulare la seguente tabella, contenente il numero, gli ettari, le percentuali ed il prezzo medio per ettaro dei fondi venduti.

 

SUPERFICIE AGRO-FORESTALE DI VALLATA HA 5.136

Anno N. fondi venduti ha venduti % Prezzo\ha
1865

1866

1867

1868

1869

1870

1871

1872

1873

1874

1875

1876

1877

1878

1879

1880
10

7

15

8

13

13

39

18

10

20

18

21

18

30

26

27
4,8453

12,8042

10,4807

13,8304

4,0431

12,2640

30,6642

43,1477

7,3505

11,5809

12,1962

22,9445

20,4106

25,0755

20,0921

18,8900
0,094

0,249

0,204

0,269

0,078

0,238

0,597

0,840

0,143

0,225

0,237

0,446

0,397

0,488

0,391

0,367
259,40

423,50

1092,37

642,46

1020,62

1071,65

498,97

430,70

523,08

499,89

504,93

496,79

750,41

756,94

568,20

428,06

TOTALE 270,62 HA 5,27% del territorio. Prezzo medio £.664,46 per ettaro: calcolato escludendo i prezzi delle terre dove vi gravavano censi enfiteutici.
__________________________________________
34Ivi, p. 57.
__________________________________________

4) CANONI ENFITEUTICI E CONGREGAZIONI DI CARITA'.

        Tra gli atti di compravendita troviamo 67 contratti dove, oltre al prezzo per l'acquisto del fondo, si dovevano pagare canoni in natura o in denaro al comune di Vallata, o alla Congregazione di Carità, o al "Reverendo Clero" o allo "Stabilimento di San Biagio". Infatti, troviamo ben 19 contratti che impongono il pagamento del canone enfiteutico alla Congregazione di Carità. A Vallata c'erano ben due congregazioni: quella del Purgatorio e quella del S.Sacramento. La Congregazione di Carità assunse il compito di amministrare i beni destinati ai poveri e di erogare le entrate, quindi di aiutare i poveri o i bisognosi in genere. Essa incise notevolmente oltre che sul ruolo del potere politico, culturale ed economico, anche su quello assistenziale del clero, avvantaggiando, così, il notabilato locale a discapito di quello ecclesiale.
        La Congrega era composta da un presidente e da quattro membri nominati dal consiglio comunale ed il suo compito era quello di amministrare le Opere Pie presenti nel paese35, di raccogliere le somme di beneficenza per i poveri, sia attraverso gli atti di liberalità fra i vivi, sia attraverso i testamenti. Inoltre, alla Congregazione toccava il compito di compilare l'elenco dei poveri presenti nel paese, con i vari chiarimenti, ossia specificando se i poveri erano "strutturali" o "congiunturali", per poi aiutarli. Il povero, quindi, diventava una qualifica ufficiale, la cui attribuzione era competenza esclusiva della congregazione.
        Ritornando ai contratti di compravendita, in ben 15 atti troviamo l'obbligatorietà del pagamento dell'annuo censo ed in 4 del canone enfiteutico alla congregazione, come ci dimostra la vendita di un pezzetto di terra di are 24, da parte di Vita Maria Chirichiello a Divina Cautillo, entrambe vedove e contadine, "per la cifra di L.100". L'acquirente, però, oltre al contributo fondiario doveva pagare anche "l'annuo canone enfiteutico di litri 10 e centilitri 40 di grano, dovuto alla Congregazione di Carità, stando che il fondo è di dominio diretto di quest'ultima"36.
        Non va dimenticata che l'autonomia della Congregazione nei confronti del consiglio comunale era più apparente che reale, in quanto gli esponenti delle congregazioni erano scelti da quest'ultimo, di solito, tra i parenti, gli amici e così via: questo avveniva per poter gestire le congregazioni indirettamente. Alcuni consiglieri comunali li troviamo, addirittura, come membri delle congregazioni, ad esempio possiamo citare il Cav. Don Vito Gallicchio, figlio di Don Biagio, che oltre a ricoprire la carica di assessore comunale, era anche il presidente della Congregazione di Carità37.
        Troviamo anche 27 contratti in cui i contraenti dovevano pagare l'annuo censo enfiteutico al comune di Vallata. Alcune terre erano state in passato quotizzate e distribuite a persone non possidenti, sin dalle leggi sull'eversione della feudalità del 2 agosto 180638, seguita, poi, dalla legge del lo settembre 1806, dal regolamento dell'8 giugno 1807 e da molti altri decreti, dalle istruzione sulle ripartizioni di terre già feudali e da altri provvedimenti che dopo l'unità d'Italia mirarono allo stesso intento. Molti furono gli acquirenti che vendevano, successivamente, le terre demaniali acquistate alle aste: le quote assegnate furono troppo piccole (al massimo un ettaro le terre più fertili) perché potessero sostentare, in regioni dove prevaleva la coltura estensiva e la pastorizia, le famiglie degli assegnatari, i quali furono costretti a lavorare come braccianti o come coloni sulle terre dei grandi e medi proprietari. Non va dimenticato che la maggior parte degli assegnatari erano contadini spesso poveri ed indebitati per potersi procurare, oltre alla semenza e al necessario per vivere in attesa del raccolto, anche il concime e tutto ciò che occorresse per far fruttare i loro fondi. Sicché erano costretti a lasciarli a riposo un anno ogni tre o quattro, mentre dovevano pagare il canone annuo al comune. Ci sono molti casi in cui, pochi anni dopo le vendite, le quote ritornavano ai comuni per il mancato pagamento del canone, oppure erano cedute dagli assegnatari ai grandi proprietari del paese per somme irrisorie.
        A Vallata troviamo alcuni esempi di rivendite di ex-beni demaniali, tre di origine comunale e due di origine ecclesiastica. Le vendite dei fondi venivano effettuate "con il metodo della "candela vergine" e che lo stabile sarebbe definitivamente giudicato al miglior offerente che avesse soddisfatto all'obbligo del deposito del decimo" 39. Numerosi sono gli acquirenti finiti come il signor Pasquale Stanco che, dopo aver preso la quota assegnatagli il 4 dicembre del 1877, era costretto per mancato pagamento del canone a lasciarla nell'ottobre del 188140; analoghi i casi di Antonio Rosa e Francesco Travisano 41.
        Oltre ai canoni enfiteutici con le congregazioni ed il comune, troviamo in 31 contratti fondi su cui gravavano canoni enfiteutici tra privati. Il nome di spicco è quello del principe Chigi che, su 21 contratti con canoni enfiteutici, compare come "direttario" in ben 5 casi. Il principe, però, risiedeva a Roma, come in alcuni contratti è specificato, quindi l'enfiteusi era una forma contrattuale che consentiva al principe assenteista di ricavare, senza alcuna spesa, una rendita fissa in denaro o in natura da terreni incolti e per lui difficilmente valorizzabili, se non attraverso questa concessione ai contadini. Comunque, per quanto riguarda il canone enfiteutico o, più in generale, le rendite perpetue che gravavano su questi fondi, bisogna dire che eliminavano ogni forma di libertà al diritto di proprietà. O meglio su questi fondi "si cumulavano i diritti di soggetti diversi, non di rado molteplici: situazione ai margini di quell'individualismo agrario che della modernizzazione delle campagne fu, nel bene o nel male, essenziale condizione"42

__________________________________________
34 Ivi, p. 57.
35 Per approfondimenti: M. Piccialetti, Il patrimonio del povero, in "Quaderni storici" n 45, Ancona-Roma 1980, pp. 918-941.
36 AndB, Not. EA. Novia, Vallata 3 aprile 1878.
37 ASA, Prefettura, inv. lo, busta 142.
38 Per ulteriori approfondimenti sulle vendite dei beni demaniali nel periodo napoleonico in Italia: P Villani, La vendita dei beni dello stato nel Regno di Napoli. Milano 1964; Id. L'Italia Napoleonica, Napoli 1978. Per le vendite dei beni ecclesiastici dopo l'Unità: G. Montroni, Società cit.
39 ASA, Pref., inv. n. 4, vol. 25. 40 Ibid.
41 Ibid.
42 M.A. Barra, Liquidazione cit., p. 54
__________________________________________

CAPITOLO IV

AFFITTI DI TERRENI

        La forma contrattuale di locazione dei terreni più diffusa a Vallata, tra il 1860 e il 1880, era l'affitto: su 38 contratti troviamo solo due a colonia parziaria e due ad enfiteusi. L'esame dei pochi contratti di concessione di terre in affitto sembra mettere in evidenza la durezza dello squilibrio sociale. Si tratta di 38 contratti quasi tutti a favore di contadini, tutti per un canone annuo alto e quasi tutti in natura. Vi è l'esempio di Don Biagio Gallicchio che concedeva in affitto ai fratelli Francesco ed Antonio Nuzzo, contadini, per nove anni un fondo rustico di ettari 5 con casa colonica. "I detti coloni Francesco e Antonio Nuzzo di Trevico, per un tale affitto si obbligavano solidalmente di pagare in beneficio del signor Don Biagio Gallicchio l'annuo estaglio di tomoli 10 di grano di buona qualità", quest'ultimo doveva essere misurato alla casa del signor Gallicchio. L'affitto, come si può vedere, andava pagato in natura e subito dopo il raccolto quando i prezzi erano a livelli più bassi dell'anno. "I coloni dovevano aver cura per il fondo, per tutti gli alberi ivi esistenti, da buoni padri di famiglia, lavorando, ingrassando e seminando le terre nelle stagioni convenienti secondo l'arte colonica e senza cambiare la coltura o alterarne l'estaglio in minor parte"1. Oppure vi è il caso dei fratelli Don Gaetano e Don Pietro Sauro, proprietari, i quali "concedevano in affitto" a Vito Rauseo, contadino di Trevico, una casa rurale con ettari 23, are 55 e centiare 50 di terreno. La durata dell'affitto era di tre anni e "il Rauseo durante il triennio era nell'obbligo di fare i coltivi necessari al fondo locato secondo l'arte e la consuetudine di Vallata" e "di pagare all'estaglio, ai germani Sauro, la quantità di ettolitri 55 e litri 59 di grano in ogni mese di agosto di ciascun anno". Il grano, però, doveva essere "asciutto non terroso e ben crivellato a spese del conduttore Rauseo" e doveva essere trasportato a Vallata nei magazzini dei locatori. Il Rauseo, però, non doveva "allontanare dal fondo le spighe ed altri prodotti, dovendole trebbiare" in esso. Nello stesso tempo, "in ogni anno, cinque muratori per cinque giorni" dovevano restaurare la casa colonica. "Anche il letame delle pecore e dei boi doveva riporlo nel fondo locato". Nello stesso contratto vi è anche un patto a soccida di tre anni per i seguenti animali: tre vacche, una "giovenca" e 56 pecore. Per la soccida il Rauseo doveva pagare ai locatori 65 lire e tre centesimi per il fitto di "bovi" e 61 lire e 40 centesimi per le pecore. Non solo, ma bisogna ricordare altre imposizioni importanti come le onoranze a vantaggio del locatore, che nell'atto erano ben sottolineate; infatti, Vito Rauseo era "obbligato di portare in ogni Natale di ciascun anno, una coppia di formaggio a Don Gaetano e un'altra a Don Pietro e a Pasqua un agnello per ciascuno e nel tempo della coagulazione del latte doveva dare ad entrambi i germani un rotolo di ricotta fresca in ogni mese"2. Un caso analogo è quello del già citato Don Biagio Gallicchio il quale aveva affittato ai fratelli Antonio, Michele e Raffaele Ragazzo, coloni di Trevico, "una tenuta di seminatorio, dell'estensione di ettari 20, are 18 e centiare 92" per la durata di sei anni. I coloni si obbligavano "di pagare l'annuo estaglio in grano di ettolitri 34 e litri 99; di buona qualità non scaglioso o terroso ed esso (doveva essere trasportato) direttamente nei magazzini del signor Don Biagio Gallicchio e misurarsi in essi"3.
        Come si può vedere molti affittuari venivano da fuori paese, in particolar modo da Trevico, come i fratelli Nuzzo, i fratelli Ragazzo e il Rauseo, così via. Erano, quindi, intere famiglie a prendere in affitto le terre vallatesi e sempre con un canone in natura
4. Il canone in denaro, per le terre dei notabili, era quasi del tutto assente, in quanto, come già detto nel capitolo precedente, il paese, avendo una posizione troppo marginale rispetto al mercato e per la scarsa circolazione di moneta, difficilmente offriva ai vallatesi la possibilità di realizzare denaro. Il grande proprietario, quindi, otteneva facilmente più una rendita in natura, che egli stesso negoziava sul mercato più vicino con un margine di guadagno maggiore, anziché una rendita in denaro. Per il piccolo fondo, invece, il canone era quasi sempre in denaro, in quanto era per il proprietario la strada più facile per ottenere moneta contante.
        Frequenti erano i contratti di affitto di terreno dopo la vendita con possibilità di riscatto, infatti ne abbiamo 10 per questi anni. Vi è il caso del signor Alfonso la Villa, di condizione colono, il quale vendeva "a Don Giustino Gerundo, proprietario, un di lui seminatorio alborato dell'estensione di ettari 1, are 17 e centiare 30 per lire 425". La Villa vendeva il fondo con la possibilità di riscattarlo nel giro di 4 anni, durante tale periodo il fondo restava nelle sue mani, costui però doveva pagare "in ciascun anno il fitto di L.42 e centesimi 50"
5. Potremmo citare un altro caso in cui i coniugi D'Enrico Vitantonio ed Angela Rosa Crincoli, di professione contadini, vendevano "a Donato Quaglia, proprietario, una vigna di are 20 e centiare 90". La vendita veniva effettuata per lire 106 e centesimi 25 "col patto di ricompera nel giro di anni 4 e per lo stesso prezzo". Nel frattempo, la vigna veniva affittata agli stessi venditori "con l'obbligo di pagare al signor Quaglia, in ogni agosto, iniziando dal 21, il convenuto estaglio di lire 10 e centesimi 62"6 . Altro caso interessante di vendita, con la clausola del riscatto e per saldare vari debiti, è quello di Don Gaetano Pelosi, con la "vidua" Caterina Lisi. La vedova, però, aveva premesso che essendo debitrice "e non avendo mezzi come poterli estinguere pregava a Don Gaetano Pelosi", affinché questi accettasse di acquistare un suo fondo, vitato e seminatorio, con casa rurale e pozzo d'acqua sorgiva dell'estensione di ettari 9 ed are 2, situato in contrada Maggiano. Tutto questo. però, col patto di poter riscattare il fondo nel giro di 5 anni. Alcuni sono i punti del contratto che mettono meglio in evidenza i momenti fondamentali: "tale vendita è stata effettuata mediante il prezzo netto di lire 2.490 e centesimi 20, e che sono rimaste depositate presso di noi Notar, per estinguere nella maggior parte del credito che vanta il signor Antonio De Rosa di San Sossio, restando perciò a nostra cura, fare con lo stesso l'analoga quietanza". Però "il signor Pelosi volendo agevolare" sempre di più la venditrice Lisi le cedeva in fitto "l'intiero fondo con le casi rurali e vigneto ai seguenti patti e condizioni": la durata di detta locazione doveva essere "parimenti di anni 5 senza esservi bisogno di concedi; l'estaglio annuale fissato per lire 250 che la conduttrice Lisi si obbligava a pagare in ogni mese di ciascun anno principiando dal 21 del 1873 e nell'agosto di ciascun anno a partire dal giorno 21 la vedova doveva depositare presso il locatore, signor Pelosi, tanta quantità di grano per quanto sarà l'ammontare del fitto. Mancandovi ad un pagamento restava abbreviato il termine della dilazione sopra accordata pel riscatto", e sarebbe stata la signora Lisi espulsa dal fondo, che passerebbe "in piena ed assoluta proprietà del signor Pelosi". Si era, anche, stabilito che non si potevano "estrarre dai fondi locati le spighe 117 e qualsivoglia altro prodotto"7. Un altro caso di affitto, dopo la vendita con possibilità di riscatto, è quello fra il sacerdote Don Michele Gerundo e Biagio di Fonzo, "di condizione pastore". Il sacerdote Don Michele Gerundo comprava il fondo e poi lo fittava per 4 anni allo stesso Biagio di Fonzo, il quale doveva "pagare in ogni anno i pesi annessi. Si stabiliva, anche che se ci fossero state "delle migliorie e piantagioni, queste dovevano valutarsi da un perito, scelto di consenso" e pagato dal sacerdote Gerundo8. Altro caso di vendita di terra con possibilità di riscatto nel giro di due anni, poi data in affitto al venditore, è quello tra Caterina Silla e Vito Chirichiello. Caterina Silla vendeva a Guido Chirichiello "un seminatorio alborato, con acqua sorgiva, di are 4 e centiare 17". La vendita veniva effettuata per lire 104 e centesimi 12,però il fondo rimaneva in affitto alla venditrice Silla: "costei doveva pagare in ogni agosto di ciascun anno, a beneficio del Chirichiello, l'estaglio in lire 10 e centesimi 40 di grano"9. A questo punto è lampante un altro esempio: l'affitto di una quota comunale di ettari 2 e are 20 da parte di Antonio del Sordi a beneficio di Giuseppe Cornacchia. Nel contratto si mettevano in evidenza delle condizioni ben precise: la durata, che era stabilita di tre anni; "il dovuto estaglio a beneficio della locatrice Antonia Del Sordi, di ettari 10 di grano, nonchè ettolitri 5 di granone in ogni agosto di ciascun anno"; il trasporto del grano al deposito del locatore a spese dell'affittuario; la buona qualità del grano, il patto che non fossero alterate le abitudini locali di coltivazioni, "e siccome nel fondo vi è una casa rurale, il Cornacchia doveva in ogni anno fare quattro giornate con bovi" su richiesta della locatrice. La casa rurale alla scadenza del contratto doveva essere "in buono stato locativo"10. Questi esempi ci dimostrano che l'affitto della terra, dopo la vendita, dava maggiore possibilità di poter riscattare il fondo precedentemente venduto.
        I grandi proprietari, quindi, non conducevano direttamente le proprie terre, ma si limitavano "a fittare i propri fondi o a concederli a colonia o ad altro patto, a secondo delle condizioni dell'area in cui operavano"
11. Così, come abbiamo visto, il patrimonio immobiliare, come era consuetudine, veniva concesso in affitto. Va, quindi, ricordato:
        a) la breve durata dell'affitto che di solito non va oltre i quattro anni, con alcune eccezioni;
        b) la rinuncia sistematica alle condizioni straordinarie previste dalla legge a favore del fittavolo;
        c) la riserva del "soprassuolo" al locatore;
       d) la totale subalternità del fittavolo per ciò che riguarda l'assetto colturale del fondo. I patti, infatti, imponevano lavori di miglioria, come l'impianto di alberi o l'ingrassamento di terre, quindi davano la possibilità al locatore di intervenire indirettamente per modificare l'assetto. "Tutto questo conferma una situazione di valenza economica e sociale al tempo stesso: restavano costanti la precarietà dell'affitto e il ruolo subalterno del fittavolo che era quello di un semplice gestore assai più che di un imprenditore agricolo, mentre il proprietario, lungi dall'essere un astratto percettore di rendita, controllava in maniera totale ciò che avveniva sulla sua terra"
12 .
__________________________________________
1 AndB, Not., F A. Netta, Vallata 13 Aprile 1860.
2 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 23 luglio 1866.
3 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 22 maggio 1867.
4 Come ci dimostrano i vari contratti d'affitto stipulati dal notaio F.A. Novia nei giorni del 28 febbraio 1868; H 23 settembre 1867; il 1° aprile 1872.
5 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 29 ottobre 1870.
6 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 28 Febbraio 1868.
7 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 4 novembre 1972.
8 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 1° aprile 1872.
9 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 24 settembre 1867.
10 AndB, Noi. FA.Novia, Vallata 16 settembre 1878.
11 G. Montroni, Mercato cit., p. 314.
12 G. Civile, Il comune rustico cit., p. 120; per un'analisi più approfondita sui contratti agrari in Italia: G. Giorgetti, Contadini cit.
__________________________________________

CAPITOLO V

UN NOTABILE LOCALE: DON BIAGIO GALLICCHIO

        La famiglia Gallicchio è stata tra le famiglie più autorevoli di Vallata, come ci dimostrano il palazzo settecentesco, che domina il paese, e l'esistenza di una strada già in nome del Cav. Vito Gallicchio, figlio di Don Biagio Gallicchio. Quest'ultimo era tra le persone più ricche della comunità vallate-se ed era di tendenze liberali, infatti nel periodo borbonico fu segnalato tra i carbonari di Vallata dal sottointendente del distretto di Ariano per cui fu "depennato dal ruolo della guardia urbana e, in seguito, confinato a Salerno"1.
        Don Biagio era marito di Donna Olimpia Pelosi, sorella di Don Gaetano, quindi appartenente anch'ella ad una delle famiglie più importanti del paese, e padre del cav. Vito e di Donna Giacomina.
        Nel periodo post-unitario, o meglio dal 1860 al 1880, Don Biagio era l'unico notabile del paese, insieme a don Gaetano Pelosi, che comprava la terra senza mai venderla; infatti su 270,62 ettari di terreno, venduti in questi anni, 26,2485 venivano comprati dal Gallicchio, quindi il 10%, segno di ricchezza, saldezza socio-economica e di prestigio, in quanto la terra era considerata come "simbolo e garanzia di uno stato sociale "
2 .
        Per un notabile come Don Biagio "la terra si comprava ma non si vendeva", e, come sostiene il Banti, questi erano gli atteggiamenti tipici delle "élites borghesi non imprenditoriali, dai comportamenti tradizionalistici, sia in campo economico che sociale": acquistare terre o fare credito significava arricchirsi non solo di un patrimonio economico, continua il Banti, "ma anche di un patrimonio di solide relazioni sociali"
3. Questi personaggi erano consapevoli di esercitare un'autorità sulla comunità in virtù della loro posizione, più che delle loro idee o di programmi politici. Per queste élites, la terra andava comunque comprata, anche se poi andava in fitto con canoni quasi sempre in natura, a causa della posizione del paese troppo marginale rispetto al mercato e di conseguenza con scarsa circolazione del denaro. Proprio per questi motivi, come si è già detto nel capitolo precedente, il locatore otteneva facilmente una rendita in natura che poi egli stesso vendeva sul mercato più vicino, con guadagno maggiore.
        Don Biagio, comunque, non solo possedeva parte dei terreni vallatesi, ma anche parte di quelli nei paesi circostanti, come in Trevico ed anche nella vicina Capitanata come ad Anzano, Accadia, Monteleone etc. Le terre, infatti, venivano affittate anche a persone non vallatesi e l'affitto non andava oltre i 4 anni, con 2 eccezioni: uno per 9 e l'altro per 6. Questi lunghi affitti, quasi sempre, venivano stipulati per le terre con bassa produttività; a pagamento veniva sempre effettuato in natura ed in agosto in un periodo di alta congiuntura, quindi, subito dopo il raccolto, quando il prezzo del grano era ai livelli più bassi dell'anno. Non bisogna dimenticare le imposizioni sulla qualità del raccolto: infatti, il grano doveva essere "ben crivellato", "non terroso" e doveva essere trasportato a spese del fittavolo nel granaio del locatore. Però, bisogna dire che in 20 anni questi patti rimangono statici, sempre con le stesse imposizioni di tipo feudale.
        Tra le attività di Don Biagio c'era anche quella creditizia, che in questo periodo assumeva un ruolo importante, "si può dire che fino alle soglie del XX° secolo, in modo particolare nelle aree interne, le possibilità di procacciarsi il denaro dipendevano quasi esclusivamente dai tortuosi canali dell'intermediazione creditizia privata"
4. Don Biagio era tra i maggiori creditori del paese; gli atti di prestito e di mutuo, in cui si trova il suo nome, sono numerosissimi e si arrestano solo nell'anno della sua morte, avvenuta il 29 settembre 1880.
        Egli, comunque, prestava da alte somme di denaro a pochi centesi- mi ed i suoi tassi di interesse variavano dal 10% al prestito senza interessi. Don Biagio contrattava con contadini poveri e con grandi proprie tari, con vallatesi e "forestieri", tanto da crearsi una rete di relazioni che andavano al di là del paese ed addirittura al di là della provincia.
        Nella vita pubblica, in base alla nostra documentazione, era indirettamente impegnato nella vita politica locale, attraverso suo figlio, il cav. Vito Gallicchio, il quale più tardi non solo sarà consigliere comunale, incaricato agli "affari dei boschi", e presidente della Congregazione di Carità, ma anche consigliere provinciale.
        Cercare di qualificare il valore dei beni di Don Biagio nel territorio vallatele è importante, anche se non si può che ricorrere a calcoli indica- tivi ed approssimativi, con l'aiuto che ci viene dalle fonti del notarile e del catasto. Varie erano le entrate da cui il Gallicchio traeva i capitali o i beni in natura di cui disponeva. Si potrebbero, a proposito, indicare alcuni punti da cui il notabile raccoglieva il capitale:
        1) dalle terre, che di solito andavano in affitto ed il loro valore, tenendo presente il prezzo medio (664,46 L. per ettaro) delle terre comprate e vendute fra il 1860 e il 1880, era di L.96.067,62, anche se non bisogna dimenticare l'approssimazione del prezzo della terra dovuta alle varie congiunture, alla qualità dei terreni ed, anche, ai vari fabbricati presenti sui fondi.
        2) Dalle case, che erano la rendita più incerta, perché non tutte affittate. Egli possedeva, in questi 20 anni, 31 fabbricati, anche se, poi, 27 saranno venduti.
        3) Dai prestiti: su 42 contratti di prestito e di mutuo rogati in Vallata in ben 11 troviamo Don Biagio, che prestava in totale Lit. 6.882,22. Questo si è calcolato tenendo presente solo gli atti ufficiali, cioè quelli stipulati alla presenza di un notaio.
        Mancano, però, tutti i crediti effettuati con scrittura privata o semplicemente a voce, consistenti in prestiti in denaro o in granaglie, a favore di contadini poveri con i dovuti interessi.
        Nel testamento, che il notaio Francesco Alfonso Novia rogava il 18 settembre 1880, Don Biagio dichiarava: "Lascio a mio figlio Vito l'intiera quota disponibile della proprietà" mentre "l'altra parte dei miei beni che forma la legittima, voglio che sia divisa in due parti uguali tra l'anzidetto mio figlio Vito, e la femmina a nome di Giacomina". Il testamento continuava: "Voglio e comando che l'anzidetta figlia Giacomina nel liquidare la parte che le toccherà della mia legittima non dovrà imputare nella sua quota beni immobili, che intendo che siano compresi tutti nella mia disponibile disposta a favore dell'anzidetto mio figlio Vito"
5.
        Come si può ben osservare, gli immobili di casa non venivano venduti ma trasmessi ai figli maschi "secondo una logica del cognome", che ricordava il modello del maggiorascato nobiliare, nonostante il nuovo codice del 1865 sostenesse che la divisione della proprietà andasse fatta tra i vari figli, abolendo, così, il maggiorascato e portando poi ad una frantumazione della proprietà. Le grandi famiglie ten devano a conservare le vecchie abitudini, cosa molto importante ed insostituibile, in quella realtà, per la continuità materiale e il prestigio del casato
6.
        Giustino Fortunato, in questo periodo, metteva in evidenza due aree di azione in cui si muovevano le élites locali: una patrimoniale e "l'altra per così dire legata al denaro". Don Biagio, però, sembrava avere un atteggiamento intermedio tra questi due gruppi. Al primo, appartenevano i grandi proprietari terrieri, che saranno poi tartassati dal ciclo agrario e dalla fondiaria. Questi si affideranno ad una serie di amministratori, i quali sapranno arricchirsi alle loro spalle, e non riusciranno ad aumentare la pressione sulle rendite né ad indirizzare il surplus verso investimenti capitalistici nella terra o in altri settori, ma verso il debito pubblico. Quelli appartenenti al secondo avevano una posizione intermedia fra il mercato e lo Stato, grazie alle loro capacità di gestire le occasioni poste dalla finanza pubblica. Questa categoria era "coinvolta in un fruttuoso sistema di credito a privati, il suo denaro rendeva interessi ben maggiori di quello investito nel debito pubblico e, per la frequente insolvenza dei debitori, ricadeva spesso in immobili acquistati a buon prezzo, a saldo delle pendenze inevase. La prima aveva un patrimoniale di famiglia accorporato, perfino simbolico, sicché erano complesse le strategie familiari per non dividerlo. La seconda aveva un patrimoniale con quote non di rado cospicue di terre e case, ma un patrimoniale frammentato in numerosi piccoli cespiti, ciò che ovviamente rendeva più flessibile e garantita la rendita, più moderna la sua successione in sede testamentaria, più commerciabile e di fatto commerciato questo o quel cespite"
7. Però, come ben sostiene Macry: "il notabilato, insomma, va ampiamente articolato, e forse questa dicotomia che si rivela qui è uni ulteriore semplificazione"8. Infatti, Don Biagio sembrava avere un atteggiamento in comune con entrambi i gruppi: era un grosso proprietario terriero, che affittava i suoi terreni ed incaricava amministratori ed agenti a controllare ed a dirigere le sue proprietà; quest'ultima, poi, per non essere divise andavano al solo al figlio maschio. Però il notabile, nello stesso tempo, prestava denaro ed era poco interessato al debito pubblico ed indirettamente, tramite suo figlio, era coinvolto nella vita politica locale.
        Con la crisi agraria, cambierà il rapporto che i proprietari avevano con le loro terre. "Dopo gli anni ottanta , chi poteva, chi aveva a portata di mano soluzioni alternative cominciava a lasciare le proprietà rurali,per cercare altre strade per i suoi investimenti. Oppure, ancora più di quanto non fosse avvenuto prima ,si creavano dei "fronti di famiglia": a un figlio la gestione della terra; agli altri il compito di farsi una posizione in altri ambiti del mercato del lavoro"
9. Molti figli del notabilato, di fronte a tali problemi, tenderanno la fortuna con gli studi universitari,con possibili rischi, sorprese e delusioni come ci ricorda Barbagli, per poi entrare come professionisti nella pubblica amministrazione10. La laurea rappresenterà la speranza di rendere più facile il raggiungimento di un'autonomia, di un reddito che possa controbilanciare la diminuzione delle rendite provenienti dal patrimonio familiare.
__________________________________________
1 G. De Paola, Vallata. Rassegna storica, civile e religiosa. Ricerche storiche di G. Zamarra. Valsele tipografica. Napoli 1981, p. 118.
2 M. Aymard, La transizione dal feudalesimo al capitalismo, in Storia d'Italia; Annali I (Dal feudalesimo al capitalismo), Torino 1978, p. 1172.
3 A. M. Banti, Alla ricerca della "Borghesia Immobile". Le classi medie non imprenditoriali del XIX secolo, in "Quaderni Storici", 50 (1982) pp. 629-651; Id., Storia della borghesia italiana. L'etàliberale. Roma , 1996, pp. 65-92.
4 G. Moricola, Usurai, prestatori, banchieri. Aspetti delle relazioni creditizie in Campania durante l'Ottocento,in Storia d'Italia, in Le Regioni (La Campania), Torino 1990, p. 636.
5 AndB, Not. F.A. Novia, Vallata 23 settembre 1866, questo testamento anticipava quello del 18 settembre 1880.
6 Per ulteriori approfondimenti: P. Macry, Ottocento. Famiglie, élites e patrimoni a Napoli, Torino 1988.
7 P. Macry, Dietro uno stereotipo.Le elites locali nel Mezzogiorno del secondo Ottocento, in Centro di ricerca G. Dorso. Annali 1987-1988, Avellino 1989, pp. 374 -375.
8 Ivi, p. 375.
9 Banti A .M., Storia cit., p. 96.
10 Per ulteriori approfondimenti: Barbagli M., Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna 1974.
__________________________________________

CONCLUSIONI

        L'analisi condotta per Vallata ci porta ad osservare come, anche, dopo l'unità d'Italia, nelle zone interne dell'Irpinia, persistevano degli atteggiamenti tradizionali, sia nel campo economico, sia nella mentalità. La terra rimaneva al centro dell'interesse delle élites locali che tendevano a comprarla e non a vederla, e se la vendevano lo facevano solo per necessità: per saldare un debito, per assicurare la dote alla figlia, per inviare un figlio a studiare a Napoli, e così via. La terra era considerata come "un conto in banca" da utilizzare solo nei momenti di bisogno, infatti, solo la proprietà faceva da garante: il denaro lo si poteva ottenere solo attraverso essa.
        A Vallata, come in molti paesi del Mezzogiorno con economia povera, non si formò un vero e proprio mercato della terra, ma quest'ultima divenne oggetto di scambio solo per necessità, nonostante il crescente prezzo delle derrate agricole dopo l'Unità, che favori l'aumento della produzione locale e spinse i notabili verso l'acquisto di terra. Le numerose vendite con la clausola del riscatto ci dimostrano che il venditore alienava la terra essenzialmente per ottenere un mutuo e in seguito avrebbe cercato di riscattarla. Si può notare, quindi, il forte intreccio tra mercato della terra e credito, in quanto solo attraverso la terra si poteva ottenere un prestito. La terra, insomma, non era considerata un vero e proprio investimento di tipo capitalistico ma oggetto d'uso, cioè il mezzo per ottenere un mutuo, un prestito nei momenti di bisogno, o per il sostentamento familiare.
        Ad acquistare le terre vallatesi erano i notabili locali: i quali, avendo già raggiunto la loro prima maturità e coscienza durante il "decennio francese", associandosi, poi, alla vecchia possidenza agraria di origine nobiliare, poterono tranquillamente, in questo periodo, raggiungere l'egemonia del potere economico e politico. Questi notabili erano i grandi proprietari terrieri, non capitalistici e neanche grandi fittavoli, che tendevano solo ad appropriarsi del surplus contadino, dietro sfruttamento diretto degli stessi contadini o attraverso contratti di affitto, che rimanevano statici da secoli e con canoni quasi sempre in natura. Questi contratti mettevano in evidenza il ruolo subalterno del fittavolo che non dirigeva come un imprenditore agricolo la terra, ma subiva le imposizioni contrattuali, mentre il proprietario non era un semplice percettore di rendita ma controllava in maniera totale ciò che avveniva sulla sua proprietà, imponendo, come si può ben notare dall'analisi dei contratti di affitto, i sistemi e i tipi di coltivazione. Accanto a ciò, non vanno dimenticati i vari censi che gravavano sulle terre, fungendo da ostacolo all' individualismo agrario, "che, nel bene o nel male, fu necessario per lo sviluppo capitalistico nelle campagne"
1.
        Da ciò che si è detto, si può sostenere che il potere era legato al dominio sociale e politico dei grandi proprietari attraverso il sistema delle anticipazioni e dei prestiti, in denaro o in natura: atteggiamenti che saranno da ostacolo allo sviluppo di un'economia capitalistica. Il prelievo del surplus contadino, quindi, veniva preso dai proprietari, non più attraverso i diritti feudali e neanche attraverso il libero gioco delle forze economiche, ma in nome del diritto di proprietà, in quanto i proprietari mirarono solo, ed essenzialmente, alla ricerca della rendita. Il prestigio e la forza dei proprietari, come Don Biagio Gallicchio o Don Gaetano Pelosi, erano ottenuti solo attraverso la proprietà e non attraverso il mercato, infatti, la proprietà era considerata come "simbolo e garanzia di uno stato sociale", di saldezza socio-economica e di prestigio. Questi notabili, quindi, non investirono i loro denari per fini capitalistici e per creare delle innovazioni, come sopra abbiamo accennato, ma li sperperarono in spese d'acquisto o di prestigio, piuttosto che di miglioria.
        Il quadro economico e sociale del paese, così, si presentava alla vigilia della crisi agraria. Quest'ultima colpì soprattutto le zone che rimasero arretrate, le quali non riuscirono a ristrutturare la loro economia. Essa colpì, insomma, dove i rapporti di produzione e di coltivazione della terra rimasero legati ai sistemi tradizionali.
__________________________________________
1 M.A. Barra, Liquidazione cit. p. 54.
__________________________________________

CONTRADE


        SEZIONI CATASTALI

        A = PAESE

        B = PIANO DELLE ROSE

        C = TERZO DI MEZZO

        D = IAllANO

        E = CUPONE

        F = CESINE

        G= CALAGGIO

        UBICAZIONE delle CONTRADE

                            F                                             E

                D                         A                                     B

                                G                                 C

GLOSSARIO

        Accumulazione originaria, concetto espresso da Karl Marx nel libro I, cap.XXIV del "Capitale"per indicare il "processo storico di separazione dei produttori dai mezzi di produzione": tale processo anticipa la Rivoluzione industriale. Uno degli aspetti più importante determinato dalla privazione dei contadini dei mezzi di produzione e spinti a cercare un lavoro nelle nuove fabbriche industriali.
        Vendite (o Alienazione dei beni ecclesiastici), momento storico in cui i beni di proprietà degli enti ecclesiastici (conventi, monasteri, terre ecc) sono stati incamerati dallo Stato e poi venduti a privati. Le vendite si ebbero durante il Decennio francese nel Regno di Napoli dal 1806 al 1815 e dopo l'unità d'Italia con la legge del 15 agosto 1867.
        Braccianti, lavoratori privi di terra e di mezzi di produzione, pagati con un salario quasi sempre in denaro. Vi sono due categorie: i braccianti fissi ed i braccianti stagionali.
        Colonia parziaria, contratto agrario mediante il quale un proprietario concede un fondo ad uno o più coloni in cambio di una quota variabile dei prodotti ricavati dalla terra.
        Mezzadria, può essere considerata come una sorta di colonia parziaria, è dunque la concessione di un terreno ad una famiglia colonica, contro il pagamento della metà dei prodotti ricavati dalla terra.
        Maggiorascato, forma di trasmissione ereditaria al primogenito maschio. Agli altri figli vengono assegnati quote minori, alle figlie, invece, si riserva la dote. Il sistema, diffuso tra i nobili, aveva lo scopo di conservare la ricchezza ed il nome della famiglia nel corso dei secoli.
        Colture arboree, coltivazione di piante legnose agricole (es. vigneti, oliveti, agrumeti, frutteti, ecc.
       Colture estensive, coltivazioni con mezzi tecnici tradizionali, con alternanza dei prodotti coltivati, in genere con il Maggese, e quasi sempre con scarso impiego di capitali.
        Colture asciutte, coltivazione di cereali con scarso impiego d' acqua.
        Colture irrigue, coltivazione a cereali e foraggi, con ampio uso di acqua irrigua. Nel Mezzogiorno d' Italia si indicano le colture ortofrutticole.
        Congiuntura economica, insieme delle condizioni che caratterizzano l'attività economica di un paese o di un settore produttivo in un dato momento.
        Pellagra, malattia da carenza di niacina, presente nel latte, nella verdura e nei cereali a esclusione del mais. La malattia era dovuta a regime alimentare dei contadini poveri che, nelle regioni produttrici di mais, non avevano quasi null' altro con cui sfamarsi.
        Fillossera, insetto omottero che arreca danni gravissimi alle viti. Originaria dell'America, venne accidentalmente importata in Europa verso il 1860.
        Oidio (Oidium), in fitopatologia, stadio conidico di funghi parassiti che provoca malattia delle piante (es. la vite).
        Liberismo, dottrina economica fondata sulla libertà d'iniziativa, sul libero commercio e sulla visione di una naturale tendenza armonica del mercato, quindi contrario all' intervento dello Stato nella vita economica del paese.
        Terre demaniali, beni dello Stato venduti in "quote" dopo F unificazione nazionale. Per il passato erano destinate all' uso collettivo per il pascolo, raccolta di legna, etc.
        Crisi agraria, fase di caduta dei prezzi dei prodotti agricoli (cereali in genere), avutasi agli inizi degli anni 80 dell'800 e che durò per circa quindici anni a causa dell'importazione di grano dalle Americhe e dalla Russia.
        Emigrazione transoceanica, il termine descrive il grosso flusso migratorio di contadini in cerca di lavoro che, a partire dagli anni 80 dell' 800, confluì verso il continente americano a causa della disoccupazione creata dalla crisi agraria.
        Maggese, campo lasciato per qualche tempo a riposo, senza essere seminato, dopo essere stato coltivato a cereali o altro.
        Protezionismo, politica di difesa dei produttori nazionali adottata dai governi attraverso dazi doganali.
        Regalie, regali in natura che gli affittuari di terre dovevano fare al proprietario. Di solito i regali erano polli, uova, formaggio, agnello, frutta, etc.
        Tomolo, antica unità di misura in uso nell' Italia meridionale per il grano; un tomolo equivaleva a 4,54 litri.
        Transumanza, migrazione annuale di greggi o mandrie dalla pianura alla montagna e viceversa.
        Usura, prestito concesso ad un interesse maggiore rispetto a quello corrente e legale.
        Tariffe doganali, elenchi delle merci che un paese scambia con F estero, con indicazione, per ciascuna di esse, del dazio doganale applicabile.
        Inchiesta parlamentare, indagine avviata dai parlamentari su delibera delle camere per conoscere ed approfondire un determinato problema dello Stato. Ricordiamo l'inchiesta agraria sulle condizioni delle classi agricole, nota come l'inchiesta Jacini, l'inchiesta sulle condizioni dei contadini meridionali (1910), o sulla miseria (1951-52 ) e più di recente sulla mafia.
        Quota, pezzo di terra del demanio acquistato dai contadini poveri dopo l'unità d'Italia.
        Notabile, personaggio consapevole di esercitare un'autorità sulla comunità in virtù della sua posizione, più che delle sue idee o progetti politici.
        Imprenditore (o individualismo agrario), proprietario di un'impresa o azienda che ha il compito di reperire e investire il capitale, organizzare la produzione e la sua destinazione per ricavare un profitto. Esso affronta un rischio connesso al fatto che le risorse per la produzione devono essere da lui anticipate prima che il prodotto possa essere venduto.
        Latifondismo, sistema di organizzazione della produzione agraria di vastissime estensioni di terre di proprietà di pochi personaggi. Molte volte il termine è usato per indicare terre coltivate in maniera estensiva e con tecnologie arretrate, cioè senza investimenti di capitale.
        Eversione della feudalità, abolizione , nel Regno di Napoli con la legge del 2 agosto 1806 ad opera dei napoleonidi, dei diritti feudali (proibitivi, personali e giurisdizionali) e dei privilegi fiscali di cui godevano molti grandi proprietari terrieri.
        Rapporti feudali, di tipo feudale, nel lessico degli storici marxisti sono quei rapporti di soggezione economica e sociale dei contadini nei confronti dei proprietari terrieri, che ricordano quelli feudali. In questo quadro, i contadini posseggono i mezzi di produzione (attrezzi agricoli e bestiame) più o meno rudimentali o in quantità insufficienti e sono legati al padrone da vincoli che non sono stabiliti dal contratto, ma di ossequio e dipendenza personale.
        Mercato, luogo dove avvengono le contrattazioni, gli scambi e la formazione dei prezzi tra gli operatori economici. Nella teoria economica, il termine perde ogni riferimento al luogo geografico, fisico, per riferirsi alle relazioni tra gli operatori economici pur lontani fisicamente, purchè collegati in modo adeguato.Tali relazioni sono quelle fra i venditori, che cercano di scambiare merci e servizi contro moneta (offerta), e acquirenti, che desiderano scambiare moneta contro merci e servizi (domanda). Il punto di equilibrio tra domanda e offerta di un determinato bene è dato dal suo prezzo.
        Enfiteusi, con il codice civile del 1865 diventa contratto di concessione di terre per lunghi anni (di solito 20 anni) contro il pagamento in natura o in denaro; le terre affittate erano fondi da apportare migliorie, quindi con bassa produttività. L'affittuario poteva sia vendere il diritto di coltivare il fondo che trasmettere tale diritto ai propri eredi.
        Rendita fondiaria, parte del prodotto della terra, o il suo equivalente in denaro, data al proprietario terriero per l'affitto della proprietà. Di solito l'ammontare della rendita e le modalità d'uso della proprietà vengono fissate in un contratto agrario.
        Profitto, in generale, differenza tra il valore di un prodotto ed il suo costo di produzione. Argomento trattato da vari economisti con posizioni diverse (Mari, L. Walras, K. Wichsell).
        Contratto alla voce, forma di prestito del Settecento diffusa solo nel Mezzogiorno d'Italia, nella quale il debitore riceveva del denaro da restituire al creditore al momento della mietitura successiva sotto forma di grano. La quantità di grano da restituire veniva fissata convertendo il valore monetario del prestito nel valore del grano al momento della raccolta (che era la "voce"), quindi nel momento in cui il prezzo del grano era alla sua punta più bassa: "il creditore concedeva al debitore in autunno o in inverno 10 ducati (che in quella stagione, al prezzo del grano a ducati 2,70 per tomolo, equivalevano a 3,7 tomoli di grano); ma alla mietitura, quando la "voce" (cioè il prezzo del grano) era scesa a ducati 1,70, il grano da restituire am montava a tomoli 6. Se prestatore avesse atteso l'inverno per vendere questi 6 tomoli e se il prezzo unitario del grano fosse salito al livello dell'inverno precedente (ducati 2,70 per tomolo), egli dalla vendita avrebbe ricavato 16 ducati (6 + per 2,70 d). Quindi-in pratica- il prestatore aveva concesso 10 ducati, contro la restituzione di 16 ducati a breve scadenza, con un interesse del 60M (A. M. Banti).

 

BIBLIOGRAFIA

        1. Atti della Giunta Parlamentare per l'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Roma 1883-86, vol. 1.

        2. Aymard M., La transizione dal feudalesimo al capitalismo, in Storia d'Italia, Annali I. Dal feudalesimo al capitalismo. Torino 1978.

        3. Banti A. M., Alla ricerca della"borghesia immobile".Le classi medie non imprenditoriali del XIX secolo, in "Quaderni storici" 50, Bologna, 1982.

        4. Banti A. M., Storia della borghesia italiana. L'età liberale. Roma, 1996.

        5. E Barra F., Chiesa e società in Irpinia dall'Unità al fascismo, Roma, 1978.

        6. Barra M. A., Liquidazione dell'asse ecclesiastico e il mercato della terra, in L'Irpinia nella società meridionale, Annali del Centro G.Dorso, Tomo I, Avellino, 1987.

        7. Berengo M., L'agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all'Unità. Milano, 1963.

        8. Bevilacqua P., Breve storia dell'Italia meridionale dall'Ottocento ad oggi. Roma, 1993.

        9. Candelore G., Storia dell'Italia moderna, voll. V-VI. Milano , 1978.

        10. Carocci G., Storia dall'Unità ad oggi. Milano, 1977.

        11. Civile G., Il comune rustico, Bologna, 1990.

        12. Covino G., Contadini e proletari nel Mezzogiorno. Il caso dell'Irpinia, Avellino, 1986.

        13. De Lorenzo R., Aspetti dell'habitat rurale del Principato Ultra nei rilevamenti del catasto napoleonico, in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre. Napoli 1985.

        14. Del Monte A. - Giannola A., Il Mezzogiorno nell'economia italiana, Bologna, 1978.

        15. De Mauro T., Prefazione a D. M. Cicchetti, Un'isola nel mare dei dialetti meridionali, Vallesaccarda, 1988.

        16. De Paola G., Vallata. Rassegna storica, civile e religiosa. Ricerche storiche di G. Zamarra, Napoli, 1981

        17. Galasso G., Il problema più doloroso: l'emigrazione, in Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, 1965.

        18. Giorgetti G., Contadini e proprietari nell'Italia moderna. Torino, 1974.

        19. Iannino F., La destrutturazione dell'economia irpina nei primi decenni unitari (L'Irpinia nella crisi dell'Unificazione), in "Quaderni storici irpini" a cura di A. Cogliano. Avellino, 1989.

        20. Macry P., Ceto mercantile e azienda agricola nel Regno di Napoli: contratto alla voce nel XVIII secolo, in "Quaderni storici", Bologna, 1972.

        21. Macry P., Dietro uno stereotipo.Le elites locali nel Mezzogiorno del secondo Ottocento, in Centro di ricerca G. Dorso, Annali 19871988, Avellino, 1989.

        22. Macry P., La città e la società urbana, in Storia d'Italia, Le Regioni (la Campania), Torino, 1990.

        23. Macry P., Le elites urbane: stratificazione e mobilità sociale, le forme del potere locale e la cultura dei ceti dirigenti, in Mezzogiorno preunitario. Economia, società e istituzioni, a cura di A. Massagra, Bari, 1988.

        24. Macry P., Ottocento. Famiglie, elites e patrimoni a Napoli, Torino, 1988.

        25. Marx K., Il Capitale (traduzione di D. Cantimori). Torino, 1978.

        26. Montroni G., Mercato della terra ed elites patrimoniali, in Storia d'Italia, Le Regioni (La Campania), Torino, 1990.

        27. Montroni G., Popolazioni e insediamenti in Campania (1861-1881), in Storia d'Italia, Le Regioni (La Campania), Torino, 1990.

        28. Montroni G., Società e mercato della terra. Napoli, 1983.

        29. Moricola G., Tra centro e periferia: appunti per la storia dell'Irpinia in età liberale, in Centro di ricerca G. Dorso, Annali 1987-1988, Avellino, 1989.

        30. Moricola G., Usurai, prestatori, banchieri. Aspetti delle relazioni creditizie in Campania durante l'Ottocento in Storia d'Italia, Le Regioni (La Campania), Torino, 1990.

        31. Musella L., Proprietà e politica agraria in Italia, Napoli, 1984.

        32. Orlando G., Storia della politica agraria in Italia dal 1848 a oggi, Bari, 1984.

        33. Pellizzari M.R., Per una storia dell'agricoltura irpina in età moderna, in Problemi di storia delle campagne meridionali nell'età moderna e contemporanea, a cura di A. Massafra, Bari, 1981.

        34. Piccialetti M., Il patrimonio del povero, in "Quaderni storici" n. 45, Ancona-Roma, 1990.

        35. Petrusewicz M., Latifondo. Economia morale e vita materiale in una periferia dell'Ottocento, Venezia, 1989.

        36. Rossi-Doria M., Struttura e problemi dell'agricoltura meridionale, in Riforma agraria e azione meridionalista, Bologna, 1956.

        37. Rossi-Doria M., Scritti sul Mezzogiorno, Torino, 1982.

        38. Romanelli R., L'Italia liberale, Bologna, 1979.

        39. Romani M., Un secolo di vita agricola in Lombardia 1861-1961. Milano, 1963.

        40. Sereni E., Storia del paesaggio agrario italiano. Torino, 1972.

        41. Sereni E., Il capitalismo nelle campagne, Torino, 1976.

        42. Sori E., L'emigrazione italiana dall'Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, 1979.

        43. Storia d'Italia, Dall'Unità ad oggi, vol. IV, Tomo I (La storia economica a cura di V Castronovo), Torino 1975.

        44. Valagara R., Relazione sull' agricoltura, pastorizia e l'economia in Principato Ultra, Avellino, 1879.

        45. Villani P., Agricoltura e differenziazioni regionali dopo l'Unità. L'impostazione dell'inchiesta Jacini, in Società e ceti dirigenti (XVIII-XX sec.), Napoli, 1989.

        46. Villani P., L'eredità storica e la società rurale, in Storia d' Italia, Le Regioni (La Campania), Torino, 1990.

        47. Villani P., La vendita dei beni dello stato nel Regno di Napoli (1806 - 1815), Milano, 1964.

        48. Villani P., L'Italia napoleonica, Napoli, 1978.

        49. Villani P., Feudalesimo, Riformismo e Capitalismo agrario in Italia, Bari, 1977.

        50. Villani P., Mezzogiorno tra Riforma e Rivoluzione, Bari 1974.

        FONTI d'ARCHIVIO

        Archivio di stato di Avellino: Prefettura (Atti amministrativi) e Catasto napoleonico.

        Archivio notarile distrettuale di Benevento: Protocolli dei notai A. Netta (1860-1870) e F.A. Novia (1865-1880).

 

Finito di stampare a Luglio 2002
presso Arti Grafiche "La Stampa"
S. Giuseppe Vesuviano (NA)

 

        ERRATA CORRIGE

        p. 16, rigo 3: in luogo di sebbene il contratto a mezzadria tendeva a trasformarsi, soprattutto nelle maggiori aziende in un rapporto capitalistico si legga il contratto a mezzadria tendeva a trasformarsi, soprattutto nelle maggiori aziende, in un rapporto capitalistico.
        p. 19, rigo 19: in luogo di nelle parti, di latifondo si legga nelle parti di latifondo.
        p. 22, rigo 19: in luogo di coltivazione frumento si legga coltivazione a frumento.
        p. 33, rigo 5: in luogo di l'altra parte , invece andava al signor si legga l'altra parte , invece, andava al signor
        p. 34, rigo 12: in luogo di mosso oltre si legga mosso, oltre
        p. 34, rigo 12: in luogo di fermamente garantito, dall'anticipata si legga fermamente garantito dall'anticipata.
        p. 40, rigo 10: in luogo di Essa incise notevolmente oltre che sul ruolo del potere politico si legga Essa incise notevolmente, oltre che sul potere politico.
        p. 41, rigo 7: in luogo di Don Biagio, che oltre a ricoprire si legga Don Biagio, che, oltre a ricoprire.
        p. 41, rigo 19: in luogo di un ettaro nelle terre meno fertili si legga un ettaro le terre più fertili.
        p. 41, rigo 26: in luogo di i loro fondi. Sicchè erano si legga i loro fondi, sicchè erano.
        p. 45, rigo 20: in luogo di Don Gaetano Pelosi, con la vidua Caterina Lisi si legga Don Gaetano Pelosi con la vidua Caterina Lisi.
        p. 45, rigo 25: in luogo di Tutto questo. però, col patto si legga Tutto questo, però, col patto.
        p. 46, rigo 16: in luogo di "pagare in ogni anno i pesi annessi" si legga "pagare in ogni anno i pesi annessi".
        p. 47, rigo 12: in luogo di Va, quindi ricordato si legga Va, quindi, ricordato.
        p. 47, rigo 24: in luogo di quello di non semplice gestore si legga quello di un semplice gestore.
        p. 50, rigo 28: in luogo di sono numerosissimi, e si arrestano si legga sono numerosissimi e si arrestano.
        p. 51, rigo 8: in luogo di Cercare di qualificare si legga cercare di quantificare.
        p. 51, rigo 31: in luogo di 18 settembre 1880 si legga 22 settembre 1866.
        p. 62, rigo 10: in luogo di (offerta) e acquirenti si legga (offerta), e acquirenti.
        p. 65, rigo 9: in luogo di F.Barra F. si legga Barra E
        p. 67, rigo 3: in luogo di A. Massacra si legga A. Massafra.

__________________________________________

Pagina Precedente Home