PRIME LIRICHE 1901-1903 - Da Orazio - Libro 3, ode XXVII - Tommaso Mario Pavese.

XI.
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Libro 3, ode XXVII.

De 'l gufo l' iterato canto lugubre
        e una gravida cagna o lupa rossa
        ratta da' campi di Lanuvio uscente,
            guidino a gli empii il passo.

E il loro stabilito cammin rompa
        serpe che come dardo fugga, a' muli
        grande spavento. Ma, per quella che amo,
            io, auspice accorto e saggio,

prima che uccel presago d' imminenti
        piogge ritorni a le immote paludi
        da l'oriente invocherò, pregando,
            corvo de 'l fatar conscio.

O Galatea, dove più a te piace,
        sii felice e di noi memore vivi;
        nè picchio, né vagabonda cornacchia
            a te l' andare tolga.

Ma, vè con qual tumulto Orion precipita,
        ratto, in un sol baleno. Io ben conosco
        de 'l mar di Adria le furie e le minacce
            de 'l Iapige sereno.

Le mogli ed i figliuoli de' nemici
        sentano l' impeto d'Austro che sorge
        e il fremito de 'l negro mai tremante
            sotto le sue percosse.

Così, la bella Europa a Giove infido,
        il niveo fianco affidò, temeraria;
        poi temè il mar di mostri brulicante
            e de 'l toro le insidie.

Ella che dianzi gìa cogliendo fiori,
        per farne vaga a le Ninfe corona;
        ne la silente notte altro non vide,
            che mare e lucidi astri.

Siccome a Creta per cento cittadi
        potente si accostò: «O padre ? disse ?
        o nome e amor di figlia che da Amore
            invasa, abbandonai!

Ma, d' onde io qui venni?. Solo una morte
        leggiera è pena a virginale colpa.
        Ma, son desta io che piango il turpe fallo,
            o me, di vizi priva,

inganna vana larva da l’ eburnea
        porta de' sogni uscente? Qual fu meglio,
        misera errar tra' flutti procellosi,
            o coglier freschi fiori ?

Se alcun l’ infame giovenco a la mia ira
        desse, or co 'l ferro franger cercherei
        le corna a 'l falso mostro che (ahi, stolta !)
            poco fa molto amai.

Ignara i patrii penati lasciai,
        impudente, or ne l' Orco indugio a scendere:
        deh, se alcun de gli dei mi ode, concedami
            d' andar tra' leon nuda !

Prima che squallor turpe le mie rosee
        guance occupi, e che il sangue da la tenera
        preda scorri, di me, or bella, o tigre,
            vieni, ti prego, a pascerti.

O vile Europa, grida il padre assente,
        perchè a morire indugi ? Da quest' orno
        puoi il collo reciderti co 'l cinto
            che a ragion ti portasti.

O, se a morte ti allettano più i sassi
        e le rupi, su, via, a la turbinosa
        procella affidati, se pur non vuoi,
            tu di sangue reale,

filare, infame ancella, presso barbara
        donna .» Venere, perfida ridendo,
        e Amor, con l' arco allentato, sen vennero
            a lei che sì lagnavasi.

Quand' ebbe riso abbastanza la dea:
        « Da l' ire astienti — disse — e da gli odii:
        ecco già torna a te l' inviso toro,
            recidigli le corna.

Non sai che moglie sei di Giove invitto,
        doma i singulti, a sopportar tua grande
        fortuna impara: una parte de 'l mondo
            prenderà da te nome. »

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