PRIME LIRICHE 1901-1903 - EPOPEA GARIBALDINA - O Roma o morte - Tommaso Mario Pavese.

VI.
O Roma o morte.

Aspromonte
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Ecco: un grido di guerra da l' alma, Roma risuona
        l’ ombre di Camil, di Fabio eccitano a la riscossa.
        Da le feconde ceneri de gl' immortali sepolti,
        innumeri s' elevan faville, a ridestar de gli avi
        la prisca virtù. Ovunque d' itala vita, il sol, negli animi,
        germoglia una scintilla, alto di guerra incendio arde i petti.
        Già corrono, spontanee, le mani a' brandi fatali,
        lasciano i giovani le spose, fiutando la battaglia;
        in sè rinascere sentono i vecchi l’ antica possa.
        Sorge il divin Garibaldi, l' asta brandisce, fremendo,
        e l' inno «Roma o morte» percorre già l'aria, rombando.

*

Tranquilla d' intorno stendesi la regione càlabra,
        quali serpi immani si svolgono argentei i fiumi.
        Lene il vento, soffiando, l'odor porta de le foreste,
        brulli, in cerchio digradanti ne l' aria, de l' Appennino
        s'elevano i monti: lontan, laggiù, la Sicilia tace;
        l' immenso Mediterraneo bacia il cielo azzurrino.
        Vanno, intanto, i prodi, ne l’ afa soffocante di agosto,
        evitando la pugna, per balzi scoscesi e dirupi;
        stanchi ed anelanti, da la fame spossati e da 'l caldo:
        quand' ecco si vedon, di corsa, i bersaglieri venire,
        e lo scoppio de' fucili, continuo, l’ aria già fende.
        In piedi ritto, Garibaldi, mesto, a' suoi davante,
        — rosso foderato, il rnantel grigio su gli omeri posa —
        va ripetendo a' suoi fidi pur che non facciano fuoco.
        Ma, sibilando, una palla già solca l’ aria, tremenda!
        ferisce l’ Eroe, che in piedi sta ,ancor, maestoso,
        e «Viva l'Italia' - esclama - Non fate fuoco, figliuoli …..»
        Ahi, trista Italia! e fin quando durerà il servaggio ?
        Quando i figli benedirai, che votansi a morte per te ?
        Deh ! l' obbrobrio esecrando si scuota: sorgano deh ! gli anni
        del grande riscatto: o Italiani, discendenti di Marte,
        affilate le spade, a' tiranni immergetele in seno.
        Una fede, un patto, una speme, sotto un solo vessillo,
        vi accolga, fidenti de la patria ne' grandi destini.
        Da una terra foste tutti nutriti; unico è il sangue
        che scorre in voi tutti; stringetevi, fratelli, la mano,
        liberate la terra che, benigno, il Ciel vi donò.
        E, ne l’ giorno che l’ Italia, da l’ Alpe a 'l Mare, fia una,
        e un dolce soffio di pace andrà pe ‘l cielo sereno,
        brillerà su' campi italici, certo, il prisco splendor.
        Feriste, o fratricidi, con Garibaldi, anche la patria,
        che ora, con lui, su ‘l letto medesimo giace, dolori
        con lui alternando e speme di final redenzione.
        Pure, il suo cuore non odia: Egli odiar non può i fratelli,
        ma oblìa i propri mali, pensando a 'l lor fato crudele.
        Odia Ei solo i tiranni, ma sempre ama gli oppressi;
        e su 'l letto de 'l dolor, la mente sua slanciasi ancòra,
        di sogni vaga, ne' campi liberi de l’ ideale:
        mentre l' animo anela una pace tra' popoli eterna,
        e impreca a le guerre che seminano morte e rovina.
        Ma la palla funesta, ne ‘l corpo de l’ incilio Eroe,
        una forma, ecco, assume fatale: il romano valore,
        non ancora morto, ne gl' italici petti rivive,
        e Garibaldi, infisse ne le carni, le palle porta,
        come per incanto, mutate in romane aquile altere.
        E cava il piombo fraterno la più acerba ferita,
        ne 'l corpo e ne 'l nobile cuore de 'l magnanimo Eroe;
        essa soltanto, fra tutte, l' anima gli strazia e le carni,
        perchè fattagli da' fratelli, cui predilesse sempre.
        E, quando il divo capo biondo, sotto i colpi di morte
        piegò ridente — effusa era ne 'l volto calma mestizia —,
        solo una piaga cruciavagli ancora il corpo, profonda...

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