Vallata - brevi cenni storici -
"Quando la Cronaca diventa Storia"

"Spuntava l'alba del risorgimento nazionale"

      Il primo Luglio 1820, in Nola, l'Italia si desta al grido di Morelli e Silvati. E' un "Viva" a Dio, al Re, alla Costituzione.

      Non è un "Abbasso": non invoca la morte di alcuno. Quel duplice "Viva" però echeggia vicino e lontano, fiero e possente come una diana di guerra. L'Italia s'è desta: è l'alba del suo Risorgimento. Tra gli animosi che circondano e seguono i due ufficiali borbonici vi è un Vallatese: Vito Pelosi (1). E, proprio nei primi giorni di quell'indimenticabile Luglio, un altro Vallatele "si segnalò, armato, in Avellino": (2) Gaetano Monaco,, il quale, nell'ultima riunione dell'Alta Vendita Carbonara di Avellino era stato nominato Capo della Vendita di Vallata (3).

      Il Monaco era un Cospiratore (4).

      Era stato, ai tempi di Napoleone Bonaparte, Novizio Redentorista e condiscepolo del Venerabile Vito Michele di Netta (5).

      Non era però carattere da adattarsi alla vita religiosa; tutt'altro : egli si sentiva attratto alle lotte politiche.

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       (1)      Flaminia prof. Nicola. St. di Ariano 1883, pag. 250.
       (2)      Samnium. Riv. Stor. Anno III - N. 1 - Gennaio - Marzo 1930.
       (3)      Cap. Settimio Monaco; Biogr. di Gaetano Monaco (suo padre) inedita.
       (4)      Samnium - Num. e luogo cit.
       (5)      P. Antonio di Coste - L'Apostolo delle Calbrie - ossia il Vener. Vito Michele Di Netta - Valle di Pompei - 1914.

      "Alla testa di 30 settari" egli raggiunse Morelli e Silvati sulle alture di Monteforte Irpino e, il 4 Luglio combattè contro il generale borbonico Campana (6).

      Nel medesimo giorno, un terzo Vallatele - Vincenzo Rosa - sposò la causa della Rivoluzione (7).

      Come vediamo, Vallata fu ben rappresentata nel moto rivoluzionario del 1820, quel moto che giustamente può definirsi la "poca favilla che gran fiamma seconda". L'Italia, ridesta, si cingeva il capo dell'elmo di Scipio, assetata di vittoria, smaniosa di abbatetre le barriere che la dividevano, per sedere libera, una, indipendente al Convito dei popoli.

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      Il numero dei Carbonari Vallatesi, come appare da quanto abbiam detto, non fu certo trascurabile.

      Tra gli amministratori e impiegati comunali destituiti dal Re delle Due Sicilie, tra il Dicembre 1826 e il primo semestre del 1827, s'incontrano i nomi di Don Nicola Netta Sindaco, Don Antonio Rosati Decurione e Cassiere Comunale, Vincenzo Rosa (non De Rosa) (8), Decurione "antico ed effervescente settario che, in sostegno della Rivoluzione, partì il 4 Luglio" (9).

      Gaetano Monaco, intanto "affiancato il noto Cappuccio", il 5 Luglio si reca a Salerno per unirsi a quei rivoltosi, per cui l'Intendente lo giudicò "irriconciliabile" (10).

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       (6)      Cap. Settimio Monaco; Biogr. Cit.
       (7)      Vincenzo Cannaviello - Gli Irpini nella Rivoluzione del 1820 e nella Reazione - Avellino - Tip. Pergola - 1941 - pag. 337.
       (8)      I Rosa sono vallatesi. I De Rosa provengono da S. Sossio B. e si sono stabiliti in Vallata da poco.
       (9)      Vincenzo Cannaviello. Op. Cit. pag. 377.
       (10)     Samnium - Numero cit. Il Cappuccio era un canonico carbonaro di Mirabella Eclano.

      Nel 1820, un certo Angelo De Angelis di Carife, si dava da fare per esser nominato Tenente dei militi di Vallata. Ciò, naturalmente, dispiacque ai Vallatesi.

      Il De Angelis, non sappiamo perché, il 10 Agosto di quell'anno fu ucciso da un tal Nicola D'Antico da Vallata.

      I Carifani, che in quel giorno festeggiavano il loro Compatrono S. Lorenzo Martire, avuto sentore dell'omicidio, "si mossero in massa contro Vallata" (11).

      La clamorosa spedizione punitiva morì sul nascere, forse per opera di persone prudenti ed influenti che dovettero far comprendere ai più accesi la folla del tentativo.

 

Gaetano Monaco carbonaro dinamico
e rivoluzionario

      Organizzate le milizie civili, il Monaco fu nominato Primo tenente della "Legione Irpina" comandata dal Maggiore Felice Florio di Ariano Irpino (12).

      Dopo il Congresso di Lubiana, 50 mila Austrici calarono in Italia col Gen. Frimont per ristabilire in Napoli l'antico regime, ed allora, il Monaco combattè presso Rieti, fra le truppe guidate da Guglielmo Pepe (13).

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      La cittadinanza Vallatese fu presa da gran timore pel rigore usato dalle Autorità Regie verso i Liberali.

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       (11)    Il fatto è ricordato da una tortola conservata in casa Monaco.
       (12)    Cap. Settimio Monaco - Op. Cit.
       (13)    Cap. Settimio Monaco - Op. Cit.

      Monaco, colpito da mandato di cattura dalla Gran Corte Speciale di Napoli (14), si diè alla latitanza: meglio uccel di bosco che di gabbia! Allora, per ordine del Principe Capece, Ministro di polizia, in casa Monaco presero stanza sei soldati austriaci, a ciascuno dei quali la famiglia doveva corrispondere giornalmente vitto e quattro carlini, pari a lire 1,70 (15).

      Il 2 Maggio 1822, Gaetano Monaco si costituiva alle Autorità Giudiziarie di Avellino. Tradotto in Napoli, dopo molte sofferenze, nel 1824 esulava a Roma con la moglie e una figlia.

      Verso il cadere del 1824, la Curia Romana riferiva al Nunzio Apostolico in Napoli, essere veramente angustiante ritenere in Roma circa 500 espulsi, in gran parte privi di mezzi di sussistenza.

      Re Ferdinando concesse di tanto in tanto delle somme che, dal suo Ministro in Roma, furono assegnate a 12 dei più bisognosi, di buona condotta, in ragione di un paolo (moneta argentea romana del valore di 56 cent.) al giorno per ciascuno. Monaco fu uno dei dodici irpini beneficiati dal Regio provvedimento.

      Il Romano Pontefice — sempre Padre di tutti - accolse benevolmente nel Novembre 1827 una supplica firmata da 14 persone, di cui ben nove irpine, e perorò la loro causa presso il Re Francesco I, successo nel 1825 al padre Ferdinando; il quale, il 1° Aprile 1828 ordinò al suo Ministro in Roma di concedere a tutti gli espatriati più bisognosi non condannati giudiziariamente, due paoli al giorno, ed uno ai preti (16).

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       (14)       Samnium - ivi - cfr. Arch. Stor. Napoli Alta Polizia. Fascicolo 40.
       (15)     Cap. Settimio Monaco - Op. Cit.
       (16)     Vincenzo Cannaviello: Gli Irpini nella Rivoluzione del 1820 ecc. pagg. 188 - 189. Cfr. 1 Rivoluzionari Irpini nell'esilio - Av. Tip. Pergola 1929.

      In Roma, nel Febbraio 1829, il Monaco fu sorpreso in seduta carbonara, in una casa di via della Longara, con D. Fabbrizio Cappuccio, D. Vincenzo Miroballo, D. Rubino Lanziello, D. Francesco Saverio Valentina ed altri cinque fuorusciti. Arrestati, e in seguito scarcerati, furono destinati alla deportazione in Marsiglia (17).

      Monaco, sprovvisto di passaporto, nel Novembre 1829 approdò. pel cattivo tempo, nella rada di Livorno, ma non gli fu permesso di sbarcare. Né s'imbarcò per Marsiglia "per esser men reo d'altri... e per aver seco la famiglia" (18).

      Ritornato a Roma fu compreso nella misura generale di espulsione adottata dal Governo Pontificio, in occasione dei torbidi avvenuti nella Capitale (19).

      Non si taccia d'eccessiva severità il Governo Pontificio.

      Sotto il governo di Leone XII e di Pio VIII lo Stato s'era mantenuto in pace; ma con l'ascensione alla Tiara di Gregorio XVI scoppiarono delle turbolenze. Si temette che gli esuli napoletani potessero fomentare disordini, e si dispose l'allontanamento di quei soggetti. che avevano più gravi precedenti (20). Rimase però in Roma (21). Il Re di Napoli lo fe' munire di passaporto per Gaeta, ove doveva essere trattenuto fino a nuovo ordine.

      Nel consiglio del 22 aprile 1831, il Re chiese informazioni sulla condotta del Monaco in Roma, specialmente sulle ultime vicende.

      Gli fu concesso il ritorno in Napoli, in occasione dell'onomastico del Sovrano, il 30 maggio 1831 (22).

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       (17)    Cannaviello pag. 194. Samnium pag. 94.
       (18)    Cap. Sett. Monaco, Biogr. Cit. Op. Cit. pag. 210. Cannaviello.
       (19)    Cannaviello Op. Cit. pagg. 210.
       (20)    Cannaviello Op. Cit. pagg. 210.
       (21)    Cap. Settimio Monaco - Biogr. Cit.
       (22)    Cannaviello - Op. Cit.

      La tradizione ha ricordato la permanenza degli Austriaci in Vallata. Si mostrarono voraci e ghiottoni. Divorarono le pecore più grasse delle greggi pascolanti nelle nostre mezzane, per cui i cittadini appiccicarono loro il nomignolo di... "Mangia-grasso". Non furono esosi e immorali come i Francesi.

      Nel 1828 si costituiva a Vallata la "Guardia Urbana" e D. Bartolomeo Pelosi ne veniva nominato Capitano.

 

      I cospiratori del 1847

      Abbiam notizia d'una cospirazione ordita dall'ex Ganfaloniere Beneventano Barone Salvatore Sabariani, allo scopo di staccare dallo Stato Pontificio il Ducato di Benevento, per unirlo al Regno di Napoli. Il Governo pontificio, subodorata la cosa, se ne lamentò con quello borbonico, per cui il Ministero della Polizia Napoletana invitò l'Intendente di Avellino a indagare in merito. Si accertò che, effettivamente, il Sabariani era stato in Irpinia in cerca di aderenze (23). L'Intendente Mirabelli si vide allora costretto a pregare il giudice regio di Andretta di perquisire improvvisamente la casa di D. Vincenzo Frieri in Cairano e di D. Giuseppe Miele in Andretta, e sequestrare ogni carta compromettente.

      Gli indiziati vallatesi di cui si fa cenno nel documento sono:

      1.   Don Ciccio Bufalo
      2.     “    Michele Netta
      3.     “    Gaetano Monaco
      4.     “    Domenico Bufalo
      5.     “    Domenico Netta
      6.     “    Ercole Sciarassi (Sciaraffa)
      7.     “    Generoso Di Gennaro
      8.     “    Paolo Cirillo
      9.     “    Vincenzo Cavese (Pavese)
      10.   “    Porfirio Zamarra
      11.   “    Antonio Batta (24).

      Epilogo della congiura fu la sentenza di morte contro il Sabariani, Andrea Zannichetti, Francesco Gaeta e Giuseppe del Prete commutata poi dal Pontefice con la reclusione a vita in data 22/6/1852. Non sappiamo se ad altri furono. applicate sanzioni.

      Qui ci domandiamo: perché Gaetano Monaco, già fervido avversario dei Borboni, nel 1847 cospira per ingrandirne lo Stato e la potenza? Non certamente per simpatia verso di loro!

      Indebolire il potere temporale dei Papi era nelle sue mire.

      Egli vedeva nel Pontefice una potenza più forte, più temibile : abbattuta questa, il trono di Napoli sarebbe stato più facilmente scosso. Le medesime viste doveva avere il focoso liberale Don Michele Netta. Si osserva ancora: Vallata ha avuto in ogni tempo cittadini amanti delle novità: nel 1496 (combatte contro il proprio Sovrano); nel 1800, (tempo della dominazione francese); nel 1820, (moti di Nola e di Avellino); nel 1847, (la suddetta congiura); nel 1848, come vedremo ha i suoi moti con spargimento di sangue! Il 4 settembre 1860 sulle balze di Ariano dei venti cittadini di Vallata ivi accorsi per proclamare il Governo Provvisorio, due vi lasciarono miseramente la vita.

 

Il 13 marzo 1848

      Il 28 gennaio 1848, Ferdinando II di Borbone, Re delle Due Sicile, concedeva ai suoi sudditi la Costituzione.

      Paolo Emilio Imbriani, nominato Intendente di Avellino, da quel giorno si sforzò di favorire le Associazioni Liberali, indicendo un'assemblea in Avellino, alla quale partecipò anche Gaetano Monaco. In quell'assemblea si decise di organizzare in ogni Comune un Comitato per la diffusione dell'idea Libero-costituzionale. Monaco, ritornato in Vallata, nei primi giorni di marzo, convocò nella sua abitazione circa 30 liberali.

      "In quella prima ed unica riunione, tra la nomina del Presidente, avvenuta nella distinta persona del Dottor Fisico Cav. Michele Netta, con altre cariche secondarie e della dichiarazione dello scopo per cui si erano riuniti, conformemente alle istruzioni e fini dell'Intendente Imbriani, null'altro venne trattato e stabilito" (25).

      I Borbonici, conosciuta la cosa, si riunirono in casa di Donato Quaglia con intenzioni aggressive.

      "Per tale deplorevole precedente, la domenica 13 marzo, nelle ore pomeridiane, una turba di circa 50 persone preventivamente ubbriacate... giunte al largo della Fontana (26) se la divertivano andando a zonzo" (27).

      Gaetano Monaco, D. Michele Netta (presidente dei liberali) e Vincenzo Netta passavano in quel mentre.

      Furono assaliti e si salvarono con la fuga...

      Vi furono clamori e sparatorie.

      Il tumulto di quel giorno - causato non solo da motivi politici, ma anche da beghe e bizze personali - fu causa di lutto per più famiglie, perché si ebbero tre morti (28).

      Vive ancora, a distanza di un secolo, la memoria del triste fatto, e le frasi "Faccio un'48", "Faccio tornare il "48" vengono usate da chi, accecato dall'ira, minaccia un eccidio.

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       (23) Nota dell'Intendenza della Provincia di Principato Ultra Gabinetto N. 258 - Avellino, 24 - 6 - 1847.
       (24) Cfr. A. Zazo. Il Ducato di Benevento nel 1847 - 9 - Napoli.
       (25) Cap. Settimio Monaco. Biogr. Cit. Cap. V.
       (26) Oggi Piazza Vittorio Em. III.
       (27) Cap. Sett. Monaco. Luongo cit.
       (28) I loro nomi non sono registrati nel Liber mortuorum 1843 - 1851.

      Non mancò l'intervento di persone influenti per placare gli animi ed evitare guai maggiori. Si deve ad esse la esiguità del numero delle vittime.

      Dal pergamo, in quell'anno, il Poeta Irpino P.P. Parzanese (non si ricorda in quale occasione) esortò il popolo alla calma. Egli terminò la sua orazione panegirici con la triplice esortazione: "Pace, Pace, Pace!"

      Mentre tramonta un regno e ne sorge un altro

      Tra i Carbonari di Vallata va notato D. Biagio Gallicchio fu Biagio, il quale, con ordinanza del Direttore Generale della Polizia "fu depennato dal ruolo della Guardia Urbana" (29) e, in seguito, confinato a Salerno (30).

      L'anno dopo, D. Vincenzo Pavese di Vallata e D. Michelangelo Errico di Castelbaronia furono accusati di spargere il malcontento contro il Governo in Vallata, ma la Gran Corte Criminale di Principato Ultra - Presidente Angelillo, "dichiarò a voti uniformi non esservi luogo a procedere" contro di essi (31).

      Da ciò si vede che molte volte, per paura, si prendevan lucciole per lanterne, ovvero si esageravano le cose.

      Nella medesima sentenza vennero rinviati a giudizio del Giudice Regio di Castelbaronia (Magistrato minore) i seguenti Vallatesi: Sac. D. Epifanio Villani e suo fratello D. Gennaro (32), D. Domenico Netta, D. Domenico Bufalo, D. Francesco Bufalo, tutti imputati di minacce contro il Sindaco Nicola Cataldo e il Capo Urbano Carmine Pelosi.

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       (29) Dalla comunicazione uff. originale del Sott'Intendente del distretto di Ariano al Sindaco di Vallata del 12 Nov. 1959, n. 1065 di proc. conservata in casa Gallicchio.
       (30) Da notizie familiari dei Gallicchio.
       (31) Sentenza del 6 Dic. 1850 - Arch. dei Gallicchio.
       (32) Buon pittore e figurista, nipote dell'Arciprete D. Felice Villani, fratello di D. Felice, ottimo pittore.

      Maturava intanto l'idea della Unità d'Italia, ma nessuno avrebbe mai potuto prevedere il nascere ed incalzarsi dei rapidi eventi che abbatterono la Monarchia borbonica ed unirono al resto d'Italia il Regno delle Due Sicilie!

      Tramontava così un Regno: ne sorgeva un altro assai più vasto, del quale il caduto non era che una parte. L'unità d'Italia era un fatto compiuto.

      Il nostro Comune, eccetto i liberali, era totalmente devoto a Francesco II di Borbone. In Vallata si appresero quindi con dispiacere i successi di Garibaldi, la sconfitta Borbonica del Volturno. Tutti si appartavano mesti. I liberali, invece, ebbri di gioia, mentre la campana maggiore squillava a festa, percorrevano le vie del paese cantando:

      "Sotto le mura di Gaeta
      si sentiva suonar la banda:
      Franceschiello non più comanda!
      E' Vittorio il nostro Re!"

      Ultimo Sindaco Borbonico fu il Sig. Giuseppe De Matteis, nonno materno di chi scrive queste pagine. Si dimise esclamando: "Re nuovo... Sindaco nuovo!".

      Il 4 settembre 1860, tre giorni prima che Garibaldi entrasse in Napoli, 20 Vallatesi guidati da Oreste Monaco, figlio di Gaetano, si recarono in Ariano Irpino per la proclamazione del Governo Provvisorio. I Liberali colà convenuti furono assaliti dagli Arianesi e lasciarono sul terreno una trentina di caduti, tra cui il Vallatese Giuseppe Zamarra. Così il Cap. Settimio Monaco (33).

      Il Prof. Vincenzo Cannaviello però, oltre Giuseppe Zamarra i (il cui nome nei documenti non fu trascritto fedelmente, trovandosi La Marra per Zamarra), nell'elenco dei morti include un altro Vallatese Gaetano Gallo (34). Non sappiamo renderci ragione perché il Cap Monaco abbia omesso questo nome (35).

      Il Clero di Vallata (21 Sacerdoti partecipanti, comprese le tre dignità di Arciprete, Primicerio e Tesoriere) doveva contare un discreto numero di Liberali e di simpatizzanti. Lo si desume dal fatto che, dopo la vittoria di Gaeta, nella nostra Chiesa parrocchiale, con grave infrazione liturgica, fu celebrato un solenne rito di ringraziamento con paramenti tricolori.

 

Un sacerdote liberale: Don Francesco Paolo Gallicchio

      Intelligente, colto, di ampie vedute, il Sac. D. Francesco Paolo Gallicchio fu un ardente patriota. Non poteva soffrire che un popolo, uno di lingua e di altare, vedesse la patria divisa da sette destini, spezzata da tante barriere! Cadano le barriere: l'Italia sia una; non più figuri sulla carta d'Europa con tanti diversi colori; sia una, dal Cenisio alla balza di Scilla! L'Unità le darà quel rispetto che più non gode, la renderà forte e temuta: non più Due Sicilie, Toscana, Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, ma Italia: l'Italia di Dante e di Virgilio!

      L'Italia s'era destata dal suo lungo letargo. Il valore antico era sempre vivo, latente, se vogliamo, ma vivo! A Barletta, nel 1503, aveva mostrato il suo fulgore; sui campi del Piemonte, della Lombardia e del Veneto, tra fasti e nefasti aveva fatto comprendere che l'unità delle menti e dei cuori, l'ardore e il sacrificio avrebbero maturato i destini d'Italia; che non era impossibile la sua unificazione.

      Don Francesco Paolo - lo ricordiamo vecchio cadente, ma sempre arzillo e di carattere fiero - conquiso da un tal ideale, si unì in amicizia con liberali di primo rango, quali Francesco Paolo Stanislao Mancini ed altri, e collaborò con l'opera perseverante e col sacrificio alla realizzazione del sogno di tanti Patrioti e di tanti Martiri.

      Garibaldi sbarca a Milazzo, conquista la Sicilia, raggiunge la Penisola... sta avvicinandosi a Napoli... L'Unità d'Italia non è più un sogno...

      L'animo ardente, il cuore riboccante di gioia, palpitante di lieta speranza, il Gallicchio raccoglie l'obolo degli amici, necessario pel trionfo della causa nazionale; entusiasma i Liberali, vola all'azione.

      All'alba del 4 settembre 1860 è con Oreste Monaco sulla via di Ariano Irpino. E' Cappellano volontario di quel pugno di volontari. Alle raffiche di fucileria dei Reazionari arianesi, non fugge. Preso, riceve la intimazione: "Preparati a morire!" e mentre si caricano i fucili che debbono fulminarlo, egli si segna di Croce, leva lo sguardo al cielo e prega: "Credo in Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra". Passa un reazionario. Vede quel prete. Ode la sua preghiera. Si fa innanzi a coloro che si apprestano ad ucciderlo e grida a pieni polmoni: "Nessuno tocchi il prete! Lo voglio io!" (36) Don Francesco Paolo è salvo. Si rialza, volge un pensiero di riconoscenza a Dio, ringranzia il suo salvatore che si chiamava, ho udito dire fin da quando ero ragazzo, Scaraco, o Scarano, o qualcosa di simile.

      Solo dieci giorni dopo, la cognata gli regalava un nipotino: egli volle che gli si imponesse il nome di Vittorio Emanuele, in omaggio a colui che doveva essere il primo Re d'Italia. Quel bambino fu sacerdote ed è deceduto a 103 anni di età (37).

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      (33) Manoscritto citato.
      (34) Prof. Vincenzo Cannaviello - La reazione in Ariano del 4 e 5  Settembre 1860 secondo i processi e le sentenze della Gran Corte Criminale del Principato Ultra e della Corte di Avellino - Avellino - Tip. Pergola, pag. 17.
      (35) Il figlio di G. Gallo fu soccorso dal Comune, in conseguenza  del dissesto causato dalla morte del padre. Dal deliberato comunale.
      (36) Tradizione.
      (37) Il 13 febbraio 1963.

      Don Francesco Paolo Gallicchio, il 15 febbraio 1861, in una petizione diretta al consigliere incaricato del Dicastero della Pubblica Istruzione in Napoli, Paolo Emilio Imbriani, conferma la sua devozione ai principii liberali, ricorda di aver promossa la Rivoluzione sia materialmente che moralmente; che nell'ora dell'appello non aveva mancato di raggranellare denaro ed uomini per recarsi ad Ariano, per ivi stabilire il Governo Provvisorio e scuotere il giogo borbonico, di avere infine "scampata la vita a stento in mezzo al vivo fuoco ed alla consolare (via) seminata di cadaveri; che veniva spogliato ed arrestato per subire la fucilazione da quel capo che dicevasi munito di carta bianca".

      Terminava, domandando un posto sulla Biblioteca Nazionale, o nella Regia Università, o in qualche collegio (38).

      Nonostante le buone disposizioni dell'Imbriani, che annotò: "Mi si proponga con premura", il Patriota Vallatese nulla ottenne.

      Egli morì col titolo di Primicerio, ad 84 anni, munito dei Sacramenti, il 19 dicembre 1911 (39). Era figlio di Nicola Gallicchio e di Vita Antonia Colella.

 

Noterelle sul brigantaggio.

      Nel 1861, un distaccamento di soldati Piemontesi (9a Comp. del 32° Fant.) si acquartierò in Vallata nella Chiesa feudale del Purgatorio, ch'era attigua al Palazzo Ducale, col quale, in altri tempi, ebbe comunicazione interna. Altri soldati alloggiarono nella cappella di Montevergine. Venivano per reprimere il brigantaggio.

      Il Comune somministrò le razioni giornaliere ai soldati, in ragione di grana 14 e mezzo a testa (40); provvide olio per le lucerne, carbone pel riscaldamento, paglia pei giacigli. La spesa non fu lieve, per cui fu necessario chiedere al Sotto-Prefetto "una ordinanza per deliberare sull'oggetto" (41). La guarnigione ebbe bisogno d'infermeria e di cucina: il comune dovette provvedere fittando due case (42).

      Più tardi (Agosto 1862) dietro richiesta del Col. Cav. Garin, comandante le truppe distaccate nel circondario di Ariano Irpino, provvide 50 pagliericci a due posti (43).

      Per un senso di gratitudine verso i militari che si batterono per ridare la tranquillità alla nostra plaga, ricorderemo tre soldati deceduti in Vallata per malattia: Vincenzo Ponci, senese (+ 12 Nov. 1862);; Pietro From, piemontese (+ 17 Ott. 1861). Raffaele Rotolo (+ 1 luglio 1863) (44).

* * *

      I Briganti, soldati borbonici sbandati che non vollero ubbidire al nuovo regime, forse perché istigati dai reazionati, infestarono le nostre contrade (45) imponendo taglie, razziando bestiame, bruciando fienili, case coloniche, legnaie, compiendo spietate vendette.

      Catturarono in Vallata l'agricoltore Raffaele Cornacchia e per la sua liberazione chiesero alla famiglia un buon numero di marenghi.

      Benché agiati, i Cornacchia non potevano disporre di somma sì grande. Ricorsero per aiuto a Donato Stridacchio, ingegnoso armaiolo, e questi  promise fabbricare la monete occorrenti.

      Coniata la prima moneta, egli la unì ad una altra della R. Zecca. Un ufficiale piemontese che era a conoscenza della burla che si voleva fare ai briganti, non seppe distinguere quale delle due fosse la vera, tanto abilmente lo Stridacchio aveva saputo imitarla. Appena i falsi marenghi furono pronti ed in potere dei Cornacchia, furono da questi consegnati a certo Leonardo Cirillo (46) con l'incarico di sborsarli ai briganti in quel di Monticchio, luogo convenuto.

      Prima d'incontrarsi coi briganti, il Cirillo vide qualcosa di macabro e di spaventoso... Dal ramaccio d'un'antica quercia penzolava un corpo umano diviso in due! Il Cirillo fu bendato e condotto innanzi al capo (Caporal Teodoro o altro capoccia della banda di Crocco), il quale, intascate le monete, rilasciò libero il Cornacchia.

      Scopertosi l'inganno, allorché le monete si annerirono, i briganti si rivendicarono razziando il bestiame dei Cornacchia e bruciandone la "masseria" (47).

      Altra volta, passando per la contrada Iazzano, alla sinistra dell'Ufita, i briganti sostarono nella masseria di Giuseppe Forgione - detto Cappullo - per prendere un boccone e riposarsi. Avvicinandosi i soldati, com'è naturale, se la diedero a gambe. Ebbero però il sospetto di essere stati traditi dal proprietario; per cui tornarono qualche giorno dopo per... vendicarsi. Rapirono il proprietario; gl'imposero una taglia di 300 ducati che fu prontamente sborsata.

      Con questo non cessarono le vessazioni dei briganti verso il Forgione. Possedeva egli una pregevole giumenta da corsa, la cui celerità più volte gli aveva salvata la vita. I briganti, più che mai arrabbiati, decisero di impossessarsene.

      Una sera, il Forgione si vide comparire in casa (48) un brutto ceffo, il quale gl'impose la immediata consegna della bestia. Accolto con belle maniere, il bandito non rifiutò la lauta cena offertagli. Il vino di Iazzano (49) è generoso, e la cantina dei Forgione n'era ben fornita. Ubriaco marcio, il brutto figuro si allontanò, promettendo che sarebbe ritornato subito per prendere la giumenta.

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      (38) Arch. di Stato di Napoli - Minist. P. Istruzione - fase. 707. Cfr. Samnium. Anno XXXIV - N. 3 - 4.
      (39) Arch. parr. di Vallta. Lib. mor. 1907 - 1914, pag. 124.
      (40) Era Novella - Deliberazione del Consiglio Comunale dal 1861 al 1864 - Delib. del 5 - 11 - 1861.
      (41) Era Novella - Delib. del 2 - 2 - 1862.
      (42) Era Novella - Delib. del 26 - 5 - 1862.
      (43) Era Novella - Delib. del 26 - 9 - 1862.
      (44) Arch. Parr. Lib. mort. ann. 1860 -1869.
      (45) Era Novella - Delib. del 4 - 10 1863.
      (46) Detto "Linardiello" perché piccolo e mingherlino. Faceva il corriere. E' deceduto alcuni lustri or sono e noi lo ricordiamo benissimo.
      (47) Crediamo che sia detto meglio "massaria" perché evidentemente il vocabolo deriva da "massaro" cioè Azienda governata dal massacro. In via Chianchione.
      (49) Iazzano, fertile contrada dell'agro vallatele, sul fiume Ufita, è il primo sito vinicolo del paese.

      Non ritornò più, né se ne seppe nulla. I camerati lo credettero vittima d'una insidia: razziarono il copioso bestiame del Forgione, indi appiccarono il fuoco ai depositi e ai fabbricati dell'importante azienda agricola.

      Altri episodi del genere potremmo ancor raccogliere, ma non intendiamo fare una storia particolereggiata del brigantaggio.

* * *

      Gli abitanti erano in continuo pericolo di assalto da parte di bande armate. Bisaccia stava per essere aggredita dalla banda del famigerato "Crocco" ma ne fu tempestivamente liberata dal Maggiore De Marco, comandante dei Cacciatori Irpini" (Aprile 1861).

      In più comuni poi vi furono tentativi rivoluzionari. In Andretta e Lacedonia, questi furono stroncati dal Maggiore De Marco (50).

      Tali tentativi, talvolta venivano promossi da soldati borbonici sbandati. Uno di questi, nativo di Rocchetti S. Antonio, fu sorpreso sulla via di Vallata "con bandiera bianca, intento a promuovere ribellioni e tumulti". Arrestato, fu fucilato a Lacedonia (51).

* * *

      La lotta fra le truppe e i briganti fu lunga e difficile. Dal 1° novembre 1861 al 30 settembre 1863, giusta un attestato del Sindaco D. Gaetano Pelosi del 1° gennaio 1882 rilasciato per la causa del Comm. Felice Ferri contro il Commissariato militare di Napoli (52), il territorio di Vallata "fu minacciato e travagliato dalle scorrerie dei briganti".

* * *
      Gaetano Monaco detto il Gran Cane (in dialetto vallatese "Rran - Cano") il Carbonaro di cui già s'è parlato, già vecchio e sempre implacabile nemico dei borbonici, volle che i suoi figli dessero la caccia ai briganti, senza pietà alcuna. Egli era già inoltrato negli anni. Le sue condizioni di salute non dovevano essere cattive, né le sue finanze prospere. Sperava una pensione governativa e la chiese.

      Il 3 Febbraio 1861, il Decurionato (Consiglio Comunale) composto dai signori Domenico Bufalo, Generoso De Gennaro, Porfirio Zamarra, Giuseppe Nicola De Gennaro, Dr. Giovan Francesco Batta, Giuseppe Nicola Furia, Giocondo Zamarra e Rocco Garruto, presieduto dal Sindaco Domenico Netti "considerando che Gaetano Monaco prima appartenne ad agiata famiglia, per le politiche emergenze è ridotto a stato lacrimevole, considerando pure a tante sue sofferenze nelle varie epoche (53) politiche cui è andato soggetto, si fa dovere esprimere che è pienamente meritevole di una sovvenzione di non meno di ducati quindici mensuali, vita sua durante, sovvenzione che il petente (Monaco) potrebbe chiedere al Monte delle Sovvenzioni" (54).

      Il Monaco aspirava pure all'ufficio di Cancelleria Comunale. Ma nella deliberazione del 25 Aprile 1861 è ritenuto incompatibile per detto impiego, per la sua età di 72 anni (55) e si deliberava accordargli la "domandata pensione" che si aspetta "dalla bontà e giustizia del Re Galantuomo" e che ottenne, in virtù della legge del 27 Aprile 1865 N. 2260.

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     (50) Alfredo Zazo - Il Sannio nella Rivoluzione del 1860 - 61 - I Cacciatori Irpini - Benevento. Tip. Chiostro S. Sofia - pag. 88.
     (51) Archivio De Marco.
     (52) Vedasi: Valagara Giuseppe - Il Brigantaggio in Irpinia.
     (53) Qui "epoche" sta per "vicende".
     (54) Era Novella - 3 Febbraio 1861.
     (55) Veramente ne aveva 74, come risulta da documenti parrocchiali.

      Il Monaco morì "a violento morbo correptus" 1'8 Aprile 1867 (56).

      Si racconta che, il Monaco, allorquando dai liberali fu suonata la campana grande, appena ricevuta la nuova della caduta dei Borboni, esclamasse: "Campana santa, troppo tardi hai suonato per me!". La vecchiaia ostacolava il conseguimento delle sue aspirazioni!

      Nella deliberazione decurionale del 20 Febbraio 1861 (che poi fu annullata, non sappiamo perché) si loda la Guardia Nazionale Vallatele per "le splendide prove di attaccamento e devozione al nuovo Governo, serbandosi intatta e gelosa custode dei principi di onesta libertà anche in mezzo ai crescenti deliri sociali".

      Essendo la Guardia "sprovvista di armi e scorata" si chiedono le armi assegnate: 50 fucili. Il 24 Febbraio 1861 si autorizza a ritirarli il Caporale Tommaso Novia (57).

      E, il 9 Novembre 1863, ben 90 militi del Corpo si stesero sulla via Ariano - Grottaminarda per prestar servizio di polizia e di onore al passaggio del Re Vittorio Emanuele II e furono indennizzati dal Comune (58).

      La Guardia Nazionale vallatele contava 151 uomini. Ne era Capitano il Notaio Don Felice Netta. Comandante del primo plotone era Don Pietro De Gennaro; del secondo Don Vito Nicola Novia, ambedue col grado di tenente. Aveva un sottotenente: Raffaele De Gennaro (59).

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     (56) Lib. mori. 1860 - 69.
     (57) Era Novella.
     (58) Era Novella.
     (59) Dal quadro - elenco delle Guardie, conservato in casa Netta.

      E' trascorso ormai più di un secolo da tali avvenimenti.

      I vecchi ci hanno tramandato il fenomeno del brigantaggio con parole di orrore e di esecrazione (60).

      Di contemporanei ora non ce ne sono più; ma il ricordo di quel nefasto periodo storico non si oblierà certo.

      Si avrà pure un pensiero di gratitudine per i signori Valagara, Scherillo, Basilide, Del Zio e tanti altri che, con le loro pubblicazioni, frutto d'intense ricerche e di paziente lavoro, ci hanno tramandato episodi e fatti che, altrimenti sarebbero stati per sempre ignorati.

      I documenti esaminati hanno puntualizzato la virile fierezza e bellicosità del popolo vallatele.

      La nostra ricerca sarebbe difettosa, se ci fermassimo a considerare solo una faccia della medaglia, senza guardarne il rovescio puntualmente focalizzato nel passato da osservatori attenti e riflessivi. Questo aspetto è magistralmente puntualizzato da Gaetano Negri (61), inviato a Vallata nel 1861 con una guarnigione di soldati, per controllare il brigantaggio nelle nostre zone.

      Questi, durante la sua permanenza a Vallata, invia ai familiari a Milano numerose lettere, in uno stile fresco e brioso, che costituiscono per noi una nuova miniera di notizie interessanti. Tali documenti sono particolarmente probativi, perché l'autore minimamente poteva pensare che le sue lettere sarebbero state poi pubblicate, ad opera dello Scherillo nel 1905, per cui impressioni e giudizi in esse espressi, sono frutto di sicura spontaneità, come si può cogliere in ogni sua parola.

      Parlando il Negri di V., lo definisce "un brutto paese di montagna, collocato sui più alti gioghi dell'Appennino, ma di cui non posso dir male, tanta è la cordialità degli abitanti e la gentilezza da cui siamo quasi perseguitati. Io ho una bella camera, con un buon letto, nella casa della più ricca famiglia vallatele e mi ci trovo benissimo.

      ... questa sera ho fatto strage ad una cena che i miei ospiti mi hanno imbandita (certamente allietata dall'ottimo vino locale!). Comprenderai da ciò come i costumi patriarcali e l'antica ospitalità in questa terra remota siano ancora in uso, cosicché, non paghi di fornirti l'alloggio, gli abitanti vogliono dividere con l'ospite anche la mensa".

      Altrove, parlando della popolazione irpina, così si esprime:

"... l'indole di queste popolazioni è fornita di ottime qualità: la maggioranza è spinta da un vivissimo desiderio di miglioramento, il cuore è in quasi tutti generoso ed aperto (commovente questa totale generosità ed apertura di cuore!), e non manca in molte parti l'energia e il coraggio (di cui V. ha sempre dato una prova incontestabile nella storia!)".
      In un'altra lettera insiste al padre: "ti ripeto che sto benissimo, che ho trovato grande ospitalità. Per riprendere le mie forze perdute... nei miei colossali viaggi militari, mangio con appetito omerico e dormo come un tasso. Abbiamo adottato le abitudini patriarcali del pranzo a mezzogiorno, della cena e del coricarsi all'ora delle galline. E' però vero che ci alziamo ai primi albori. Tutti in questi paesi hanno l'uso del cavalcare, ed io pure, quando la gita da fare è molto lunga, inforco con le mie gambe un cavalluccio... che il mio padrone di casa mi favorisce (quanta delicatezza anche in questo gesto!)". In un'altra lettera: "I miei padroni di casa continuano a prodigarmi ogni sorta di cure; e sarei veramente un ingrato se mi lamentassi di loro. Ma se vedessi le abitudini singolari che hanno in questo paese! La più singolare di tutte è che le donne non sono ammesse, non dico nei circoli di società, ma neppure di famiglia (quanto cammino si è fatto!). Esse sono condannate a starsene in cucina ed hanno tutti gli attributi delle serve. Così quando voglio vedere donna Michela, mia degnissima padrona ed una delle più ragguardevoli Signore del paese, mi dirigo alla cucina, dove la sorprendo davanti ai fornelli, alla manipolazione del pranzo o della cena, ed alla preparazione dei maccheroni. Devo però dire ad onore del vero che, specialmente in quest'ultima operazione, è di una abilità trascendentale (non poteva il Negri trovare espressione migliore per decantare l'abilità nella preparazione di questa "pasta a mano", presentata come un rito sacro che sa di... trascendentale!)" (62).

      (Noto con piacere che, dopo il boom della pasta fornitaci dalle industrie, oggi c'è un ritorno a queste specialità casereccia, conservate brillantemente anche dai nostri emigrati in America, dove non si concepisce la domenica, senza l'allegra nota della "pasta a mano", e dove, per fare cosa gradita ad un ospite, non si sa fare di meglio che offrire questo piatto "forte". In occasione dei miei tre indimendicabili viaggi in America e Canada, quando nella stessa giornata ero ospite di due famiglie, mi è toccato piacevolmente... assaggiare! questo famoso piatto a mezzogiorno e sera).

      In ricambio, continua il Negri, v'è molto buon cuore ed una ospitalità all'antica..." In una successiva, così si esprime: "... ho divorato una cena abbondante, dove venne servita una certa insalata, che avrebbe ispirato un vero entusiasmo anche a te, tanto era squisita (è la squisitezza dei nostri ortaggi, altra specialità vallatele!). Ed in un'altra: "... il rispetto di questa popolazione verso di noi crebbe a dismisura...".

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      (60) Basilide del Zio - Melfi. Le agitazioni del Melfese - Il Briganaggio - Melfi; Tip. Antonio Liccione - 1905.
      (61) Gaetano Negri (1838 - 1902) aveva 23 anni, quando fu inviato a V., come luogotenente del VI reggimento di linea della brigata Aosta. Sarà poi Sindaco di Milano e Deputato. Illustre cultore di Filosofia, Storia, Scienze e Lettere; autore di pregevoli opere: con lo Stoppavi e il Mercalli compose la "Geologia d'Italia".
      (62) Donna Michela gli avrà fatto certamente gustare tutta la gamma culinaria delle specialità vallatesi: cuccitell, calzunciell, lae'n (tagliolini) in tutte le diversificazioni: lae'n &la pimmaror, lae'n e fasu'l, lae'n e cic'c; trie'gh, trie'gh e bru'ckl, trie' gh cu la fre'cl; pezzo'tt e finu'cch; maccaru'n a la maccharuno'r, ecc.

      Abbiamo voluto mettere insieme queste espressioni che, come tante pennellate, ci offrono un quadro affascinante del popolo vallatese ed, in genere, di tutta la polazione irpina, che si distinque per questa ricchezza di valori umani di gentilezza, cordialità e ospitalità.

      Ben a ragione i nostri antenati hanno voluto far campeggiare nello stemma del paese i tre fiori , le due frecce e le due spighe di grano, per memorizzare nel futuro le caratteristiche fondamentali del Vallatese autentico: il profumo della sua gentile e cordiale ospitalità, la bellicosa fierezza nel difendere la propria libertà, ed infine la fragrante genuinità dei suoi prodotti agricoli, sintetizzati nelle due spighe di grano, da cui si aveva quel pane profumato e croccante dei nostri forni a paglia, come si usa tuttora nelle campagne.

      In una lettera, il Negri trasmetterà al padre di "aver fatto un giro a piedi di circa 15 miglia" e di non avere in corpo che "una crosta di pane e una mela", consumate forse con qualche contadino, che lavorava in campagna: quanto avrà gustato quella parca e saporita colazione, così abituale in tempi non lontani!

      Dopo questa visione sintetica del rovescio della medaglia Vallatese non ci resta che offrire al lettore la possibilità di scoprire personalmente tutta una gamma di sfumature, che ne completi il quadro.

      Il Negri, col suo stile epistolare poetico, fresco e fascinoso, ci aiuta magistralmente a scorrere questo "Album di famiglia" che, come uno specchio fedele, riverbera fino a noi l'immagine autentica e genuina del Vallatese.

      Egli partì da Liveri (Na), dove si era fermato una settimana, il 20 ottobre 1861, giungendo ad Avellino il 21, donde scriveva al padre:

      Carissimo papà,
      Ti scrivo due righe in grandissima fretta. Ieri sono partito da Liveri, e raggiunto a Morsano il resto della Compagnia, ci incamminammo alla volta di Lauro, dove passammo la notte; e questa mattina, unitamente a quattro altre Compagnie, partimmo per Avellino, dove arrivai questa sera.
      Domani mattina, partenza di nuovo per Grottaminarda, e il giorno dopo per Vallata, sul versante adriatico dell' Appennino, dove ci fermeremo non sappiamo quanto tempo. Io sto benissimo , e questo viaggio mi diverte assai, essendo il paesaggio di un'incatevole bellezza, e buona la popolazione. Addio; appena giunto a Vallata ti scriverò.

      Il 23 ottobre scrisse di fatto da Vallata (63), dove giunsero "dopo due lunghe e faticose marce".

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     (63) In una lettera, anch'essa inedita, del 21 novembre 1861, così segnava la topografia del paese, con più di tremila abitanti:
     "Siamo all'estremità della provincia del Principato Ulteriore, dove questo confina colla Capitanata. Se vuoi precisamente conoscere la nostra posizione topografica, segna sulla carta le due città di Ariano e di Melfi. In mezzo a queste due città, posta Vallata". E continuava: "Oggi abbiamo una giornata di primavera, l'orizzonte è completamente sereno, e lo spettacolo che si gode da queste alture è stupendo.
     Se poi vogliamo allargare ancor più la veduta, si sale a Trevico, paesello discosto circa un miglio da Vallata. Da qui si scopre uno dei più immensi panorami: i basti sapere che lo sguardo si estende dal Gran Sasso d'Italia fino alle montagne della Basilicata, e dal Vesuvio fino al Gargano e all'Adriatico.
     Disgraziatamente le giornate serene sono assai rare, e siamo troppo soventi avvolti in una nebbia che non ci lascia scorgere nulla".

      Carissimo papà,
      E' questo un brutto paese di montagna, collocato sui più alti gioghi dell'Appennino, ma di cui non posso dir male, tanta è la cordialità degli abitanti e la gentilezza da cui siamo quasi perseguitati. Io ho una bella camera, con un buon letto, nella casa della più ricca famiglia vallatele, e mi ci trovo benissimo. Ma che freddo! Ho la camicia di lana, il mantello, ed ancora sento i brividi. Però assai maggiore del freddo è la fame, da cui sono continuamente assediato. Questa mattina credo di avere spaventato una cordialissima famiglia di Castelbaronia, divorando un enorme piatto di maccheroni, e questa sera ho fatto strage ad una cena che i miei ospiti mi hanno imbandita. Comprenderai da ciò come i costumi patriarcali e l'antica ospitalità in questa terra remota siano ancora in uso, cosicchè, non paghi di forniti l'alloggio, gli abitanti vogliono dividere coll'ospite anche la mensa.
Il viaggio da Liveri a Vallata fu sommamente divertente, ma faticosissimo. Fino a Lauro la strada è piana e come una valle ridente. Dopo Lauro, attraversammo un'altissima catena, oltre la quale eravi Avellino. Io non ho mai veduto un paesaggio più pittoresco; immense selve di colossali castagni, precipizi, torrenti, tutto concorre a rendere quel paesaggio veramente ammirabile. Avellino è una discreta città, ma non presenta nulla di particolare. Ad Avellino abbandonammo il resto del battaglione, e la sola mia Compagnia intraprese il viaggio di Vallata. Il primo giorno percorremmo venti miglia di continua salita, e arrivammo a Grottaminarda veramente spossati. Quivi si pernottò e questa mattina di buon'ora ci ponemmo di nuovo in cammino. Si lasciò la strada e si presero i sentieri dei monti. Qui poi non si hanno nè le selve, nè i torrenti, ma l'Appennino in tutta la sua cretosa nudità. Con tutto ciò il paese presenta una certa fisionomia di grandiosità, che mi attirò l'attenzione, e mi fece sembrare meno lungo e meno faticoso il difficilissimo cammino.
      Tu poi, tratto in errore dal nome, non devi credere che Vallata sia nel fondo di una valle. E' questo un paese situato meno alto delle cime che lo circondano, ma che ciò malgrado trovasi ad una grande altezza sul livello del mare. Dai terrazzi si scorge un immenso panorama, che comprende la provincia d'Avellino, la Basilicata, le Puglie e finalmente l'Adriatico. Non ti sembra che basti? Quello che poi mi fa sommo piacere, è di trovare in queste popolazioni uno spirito assai migliore di quello che generalmente non si creda. Il nuovo ordine di cose è seguito con devozione e con fede, il brigantaggio abborrito, la guardia nazionale eccellente.

      E da Vallata mandava al padre, dopo cinque giorni, quest'altra lettera:

Vallata, 28 ottobre 1861.

      Carissimo papà,
      Voglio credere che la lettera, con cui t'informavo dei miei viaggi e delle buone e cattive qualità di questo paese che mi servirà per qualche tempo di dimora, non sarà andata perduta. In tutti i modi, ti ripeto che sto benissimo, che ho trovato grande ospitalità, che, insomma, sono in condizioni assai soddisfacenti. Facciamo delle perlustrazioni nei dintorni, ma non abbiamo mai trovato l'orma di un brigante. Queste passeggiate sono assai faticose, poiché in queste montagne l'uso delle strade è affatto sconosciuto, ma mi divertono per quella mia insaziabile curiosità di vedere nuovi paesi e nuovi costumi. Onde poi riparare le forze perdute, mangio con appetito omerico, e dormo come un tasso. L'unica cosa che mi dia fastidio è il freddo. Il clima di questo paese è veramente infelice. Continue nebbie, continui venti; siamo insomma nel cuore dell'inverno. La neve è imminente; e allora saremo rinchiusi in una cerchia da cui non so come potremo uscire, poichè il camminare sul ghiaccio per montagne senza strade è un problema che presenta molte difficoltà ad essere sciolto. - Tienimi informato di quanto succede, perchè qui siamo come segregati dal mondo; dei giornali non arriva che la sola Gazzetta ufficiale, ed anche questa in ritardo; ragione per cui siamo completamente al buio. Abbiamo adottato le abitudini patriarcali del pranzo a mezzogiorno, della cena, e del coricarci all'ora delle galline. E' però vero che ci alziamo sempre ai primi albori. Tutti in questi paesi hanno l'uso di cavalcare, ed io pure, quando la gita da fare è molto lunga, inforco con le mie gambe un cavalluccio che ha molte somiglianze con quelli della Madonna del Monte, e che il mio padrone di casa mi favorisce, e su quello movo alle gloriose imprese. E per quest'oggi faccio punto. Addio.

      E quest'altra ancora:

Vallata, 3 novembre 1861

      Carissimo papà,
      ... Il freddo è andato gradatamente diminuendo, ed abbiamo avuto delle giornate quasi tiepide; ma poi fummo assaliti da un vento furibondo che oltremodo c'incomodò. Fortunatamente la mia salute si è ormai fatta così robusta, da sfidare impunemente qualunque intemperie, e non devi avere a questo proposito alcuna inquietudine. I briganti poi sono come l'araba Fenice: Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa; ed io comincio a credere che la loro esistenza non sia che il frutto della fantasia immaginosa di queste popolazioni. La nostra impresa, più gloriosa fu quella d'ieri, in cui arrestammo un prete dalla fisonomia molto brigantesca, che passeggiava su queste deserte alture con un fucile Sulle spalle non avendo il permesso di portarlo. Del resto, ti assicuro che i più famosi commissari di polizia sono dei semplici, degli ingenui a mio confronto; tanta è l'abilità acquistata nel far perquisizioni, arresti,e simili prodezze! Ho trovato in me una certa disposizione a fare lo sbirro, che non avrei mai supposta, se le occassioni non l'avessero portata a galla.
      I miei padroni di casa continuano a prodigarmi ogni sorta di cure; e sarei veramente un ingrato se mi lamentassi di loro. Ma se vedessi che abitudini singolari hanno in questo paese! La più singolare di tutte è che le donne non sono ammesse, non dico nei circoli di società, ma neppure di famiglia. Esse sono condannate a starsene in cucina, ed hanno tutti gli attributi delle serve. Così, quando voglio vedere donna Michela, mia degnissima padrona ed una delle più ragguardevoli signore del paese, mi dirigo alla cucina, dove la sorprendo davanti ai fornelli, alla manipolazione del pranzo o della cena, ed alla preparazione dei maccheroni. Devo però dire a onore del vero che, specialmente in quest'ultima operazione, è di un'abilità trascendentale. Se poi qui venisse qualche persona amante del confortabile, le si rizzerebbero i capelli in testa. Finestre che puoi lasciare aperte perchè il chiuderle non impedisce al vento e alla pioggia di penetrare liberamente; assoluta mancanza di ogni mezzo di riscaldamento; nettezza molto problematica... Non la finirei più se volessi enumerare tutti gl'incomodi di queste abitazioni; ma in ricambio v'è molto buon cuore e una ospitalità all'antica...

Vallata, 5 novembre 1861.

      Carissimo papà,
      Oggi ti scrivo assai in breve, perchè è sera avanzata ed ho molto sonno. Ho divorato una cena abbondante, dove venne servita una certa insalata che avrebbe ispirato un vero entusiasmo anche a te, tanto era squisita. Avevo da un lato un medico di questi paesi, famoso per la sua abilità, e factotum del suo villaggio natio, dall'altro un capitano della Guardia nazionale, ricco proprietario e factotum non meno celebrato. Naturalmente essi mi hanno fatto la corte, come tutte le notabilità di queste provincie che hanno l'alto onore di potermi parlare. Io poi sostengo la mia parte di uomo grande e potente in un modo che nulla lascia a desiderare, e, con qualche frase da oracolo che di quando in quando faccio cadere dall'alto, insinuo in tutti la riputazione del mio grande ingegno.
      In una delle tue lettere mi parli di un tuo progetto di viaggio a Napoli per quest'inverno. Io non posso che incoraggiarti, perché sono persuaso che ti divertirai; ma non sperare di potermi vedere, perché, dopo la prima neve, Vallata diventa inaccessibile, e i suoi miseri abitanti sono rinchiusi dentro come in una gabbia.
      Tu mi parli di Cialdini, di Lamarmora, e di tante altre belle cose. Devi sapere che tutto quanto mi racconti mi riuscì nuovissimo. Solo ieri ci venne portata la notizia che Cialdini era partito da Napoli. Io credo che in America questa notizia si conosceva già da molto tempo. I briganti in queste parti continuano ad essere invisibili, e non temere per me, che sarebbe una follia, in primo luogo perchè non ci sono, in secondo luogo perchè camminiamo sempre con tale forza e con tali precauzioni da rendere impossibile la più piccola disgrazia...

Vallata, 10 novembre 1861.

      Carissimo papà,
      Oramai le tue lettere mi arrivano regolarmente. Impiegano otto giorni da Milano a Vallata, ma nessuna è andata perduta, e questo mi basta. La sola che non ricevetti è quella che, come tu mi scrivi, mi diresse l'Anisetta; e mi dispiacque tanto più perché è la prima volta ch'ella mi scriveva da che ho abbandonato il tetto natio. Spero che vorrà presto riparare a questa mancanza della posta.
      Quando tu mi dici che saresti più tranquillo sapendomi in mezzo numerose truppe, mostri di non avere conoscenza di che cosa sia il brigantaggio. Senza millanteria, io ti assicuro che quaranta uomini sarebbero sufficienti alla difesa del villaggio il più esposto. A Vallata, dove siamo in più che cento, ci troviamo molto più sicuri che Benedeck tra i fortini di Verona.
      Tu mi parli di progetti di ajutantato; ma io ti faccio riflettere che un ajutantato mi legherebbe indissolubilmente per un anno ancora. Ed io comincio ad essere un pochino stanco di questa vita militare; e comincio a riflettere che son circa tre anni ch'io faccio il sacrificio di tutti i miei gusti, le mie inclinazioni, i miei affetti; che ho davanti a me la prospettiva di continuare per un'intera invernata una vita che sopporto con disinvoltura e con allegria, ma che ti accerto è tutt'altro che' piacevole e comoda. Per tutto ciò, avrei l'intezione, non accadendo alcuna novità, di battere la ritirata prima che si compiano i dodici mesi. Scrivimi il tuo parere in proposito.
      Nella mia esistenza nulla di nuovo. Vado sempre più impratichendomi di questi luoghi, per mezzo di collossali passeggiate militari. Qualche volta mi impadronisco di un cavalluccio, che mi porta comodamente; ma qualche altra volta il cavalluccio manca, ed allora è pur forza che le mie povere gambe mi portino su questi monti. E poi non si ha mai un momento di vera tranquillità, e stiamo sempre aspettando qualche chiamata del capitano.
      Le partenze sono quasi sempre improvvise, e non si ha il tempo di prepararsi. Così, or sono due giorni, abbiamo fatto un giro a piedi di circa quindici miglia, ed io non avevo in corpo che una crosta di pane e una mela! E alla notte, quando sei placidamente a letto, che divertimento è quello di sentir bussare al portone della casa, e doversi alzare onde uscire, con questa temperatura! Il comico della cosa sta in ciò, che i briganti non ci sono mai; e credimi fermamente che la loro esistenza è un mito, e tutti coloro che li vedono sono in potere di una allucinazione. Così questa mattina salivano un monte. Io ero a cavallo. A un tratto i soldati gridano; "i briganti, i briganti!" Io corro di carriera su di un'altura che dominava il punto indicato. Guardo attentamente col cannocchiale: era una mandra che pascolava tranquillamente! Questo esempio ti darà un'idea del modo con cui si vanno creando i racconti relativi ai briganti. Abbiamo anche a Vallata l'estate di San Martino, ed oggi fu una giornata deliziosa. Ci disturbano però quasi continuamente certi venti furibondi di ponente, che spirano quasi senza tregua, e per la forza superano, se è possibile, quelli che -Fanno scorso ho goduto nell'incatevole clima di Genova. Ma che stupende vedute si hanno da questi monti! A un miglio da Vallata vi ha un paesello da cui, senza esagerazione, si vede una buona metà del Regno di Napoli. Da una parte le montagne degli Abbruzzi che si congiungono con quelle di Benevento, di Salerno, della Basilicata; dall'altra l'immensa pianura delle Puglie, il monte Gargàno e l'Adriatico.
      Qui faccio punto, perché ho molto sonno. Addio.

Vallata, 16 novembre 1861.

      Carissimo papà.
      Due righi in tutta fretta, perchè il corriere parte a momenti, e perchè io sono oltremodo stanco e pieno di sonno. Mi son alzato questa notte alle due, e rimasi in continuo moto per circa dodici ore. Siamo riusciti a fare un colpo molto importante, essendoci impadroniti di otto terribili briganti che infestavano questo distretto e se ne stavano appiattati in una deserta e lontana masseria. Ti darò più tardi i dettagli della nostra impresa. Ti basta ora il sapere che il felice successo è dovuto in parte alla nostra prontezza, ed in parte al tradimento di uno di questi briganti, col quale trattavano per l'intermediario di un prete di nome Don Toto, misto singolarissimo di prete e di briccone. Oramai la tranquillità è in gran parte ridonata a questo paese, ed io credo che un simile fatto desterà un certo effetto anche nelle alte sfere. Intanto io sono ributtato di questa guerra atroce e bassa, dove non si procede che per tradimenti e per intrighi, dove spogliamo il carattere di soldati per assumere quello di birri, e sospiro all'istante di abbandonare quest'atmosfera di delitti e di bassezze per respirare un'aria più pura e più confacente all'indole mia.
      Del resto, la mia salute è eccellentissima; il mio soggiorno a Vallata non presenta alcuna modificazione, e continua nello stesso tenore soddisfacente: solo mi dà pena la mancanza di lettere vostre, in cui mi trovo da più di una settimana. Voglia il cielo che quest'oggi me ne arrivi alcuna.

Vallata, 18 novembre 1861.

      Carissimo papà,
      Immaginando che, dopo la mia ultima lettera, sarai molto desideroso delle mie notizie, e forse ti anderai inquietando con qualche immaginario timore, non voglio lasciar partire il corriere di quest'oggi, senza mandarti due altre righe, e assicurarti del soddisfacentissimo stato della mia salute, e della tranquillità completa in cui viviamo.
Gli otto briganti, dei quali ci siamo impadroniti, costituivano appunto la banda che infestava questi distretti; avendola distrutta, la quiete è naturalmente rinata, e il terribile esempio servirà senza dubbio a indurre alla volontaria presentazione quei pochissimi che ancora vanno vagando isolatamente per le campagne, senza ricovero e quasi senza vitto. Ti ripeto insomma di non essere in alcuna pena, poiché presentemente non corro il minimo pericolo. Il rispetto di questa popolazione verso di noi crebbe a dismisura. I buoni si rialzarono di spirito, i cattivi ne furono sgomentati, tutti poi concepirono una grande idea della nostra forza e della nostra abilità. Io in quella notte mi sono oltremodo affaticato, tanto per il correre come per il gridare. Vi fu un momento in cui ho creduto che anche quella volta il colpo fosse fallito, poiché in nessuna delle camere, in nessuno dei ripostigli della masseria, avevo trovato orma di brigante. Ma questi sciagurati si erano appiattati in un piccolo sotterraneo, a cui nessuno aveva fino allora fatto osservazione. Appena ce ne fummo accorti, si cercò di abbattere l'uscio; e allora udimmo molte voci nell'interno che contendevano sull'opporre o no resistenza. Ma la nostra prontezza e la loro trepidazione impedirono ogni sforzo da parte loro, e ci caddero nelle mani senza scaricare un colpo. Eccoti la storia in succinto. Vi sono poi molte particolarità tanto comiche che tragiche, che mi riserbo di raccontarti un'altra volta. Ora faccio punto, perché sono aspettato dai miei compagni. Addio.

Vallata, 28 novembre 1861.

      Carissimo papà,
      Ho lasciato trascorrere due corrieri senza scriverti, perché in questi giorni non abbiamo avuto un momento di riposo, e siamo quasi sempre stati assenti da Vallata. Partiti il venerdì, ci indirizzammo alla volta della Capitanata, donde non fummo di ritorno che il sabato sera. Speravo di avere qualche giorno di sosta, ma invece al mattino di domenica un ordine del nostro Maggiore ci chiamò a Sant'Angelo de' Lombardi. Dopo una brevissima fermata, accorremmo a Teora. Qui pernottammo, e il mattino, riponendoci in cammino e percorrendo la valle dell'Ofanto, entrammo nella Basilicata, e salimmo sino a Pesco Pagano, grossa borgata posta sulla cima di una montagna. Il mattino seguente ritornammo a Teora, quindi a Morra, dove si fece sosta, e ieri rientrammo nei nostri dominii di Vallata. Questo lungo giro, sebbene faticosissimo, mi divertì per quella curiosità di vedere luoghi novelli e per il bellissimo aspetto di queste contrade.
      Le provincie napoletane sono veramente una terra prediletta dalla natura, che loro largì a piene mani tutti i suoi doni. Le pianure delle tre Puglie sono un immenso tappeto di granaglie; nelle altre provincie i colli e i più dolci declivi sono coperti di vigneti e di ulivi, mentre foreste quasi vergini e verdissimi pascoli ornano gli alti gioghi dell'Appennino. Fra tutte le provincie che ho vedute, la più pittoresca e la più selvaggia è la Basilicata, dove la natura è imponentissima per i boschi interminabili, per le linee grandiose delle montagne su le quali erge il capo il Vulture, vulcano estinto assai più alto del Vesuvio, che domina tutta la contrada come un gigante dall'aspetto ancora minaccioso. Ma quanto è triste il vedere un paese così bello privo di tutti i sussidi della civiltà, trattenuto sino ad ora forzatamente nella più miserabile barbarie! L'istruzione è nulla, l'agricoltura affatto elementare, strade sono il letto dei torrenti e qualche sentiero mezzo roso dal tempo, dalle acque o dalle frane. Eppure l'indole di queste popolazioni è fornita di ottime qualità: la maggioranza è spinta da un vivissimo desiderio di miglioramento, il cuore è in quasi tutti generoso ed aperto, e non manca in molte parti l'energia ed il coraggio. Ma sarebbe stoltezza il pretendere che ad un tratto, spogliandosi della loro barbarie, gareggiassero in civiltà colle popolazioni di altre provincie più felici, sapessero completamente apprezzare i vantaggi di un governo libero, e si potessero reggere colle norme stesse con cui si reggono quelle dei nostri paesi. Avvezze a giacere da lungo tempo nelle tenebre più fitte del dispotismo, non ebbero la forza di sopportare improvvisamente lo splendore della libertà, e ne rimasero abbagliate e confuse. Si aggiunga a tante cause di agitazione la instancabile attività della reazione e la terribile piaga del brigantaggio. Pur troppo questo flagello non è ancora calmato, e risorge quasi più forte di prima. Le orde brigantesche si dividono ora in tre grandi schiere. Quella di Chiavone ai confini romani, che rotta e dispersa più volte, sempre si ripara all'ombra delle sante chiavi, e ritorna rinsanguata d'uomini e di denaro; quella di Cipriani nelle provincie d'Avellino e di Benevento, che oramai sembra ridotta a piccole proporzioni e non ispira serie preoccupazioni: finalmente la banda di Croceo Donatella, che infesta la Basilicata, e, fatta più potente e numerosa per l'arrivo degli Spagnuoli capitanati da Borjes, e per il continuo invio di gente e di munizioni che le provengono da Malta, invade le più ricche borgate di questa infelice provincia e commette orrendi misfatti. Penetrata ultimamente in Bella, incendiò il paese, fece ampio bottino, uccise il parroco e molti dei più ricchi abitanti che caddero loro nelle mani mentre coloro che ebbero la ventura di scampare, rinchiusi nel castello, facevano una disperata difesa. Ma giunse finalmente una nostra compagnia colle guardie nazionali dei paesi circostanti e al loro avvicinarsi i briganti, sebbene assai superiori di numero, si diedero come al solito alla fuga. I nostri trovarono le vie di Bella tappezzate di proclami firmati da un tale Langlois, francese, che si vantava generale delle truppe di Francesco II, si diceva restauratore del paterno regime borbonico, e prometteva un'era di pace e di felicità a quegli abitanti che intanto saccheggiava e massacrava. Appunto per accorrere a Bella, noi fummo chiamati dal nostro Maggiore, che, riunite due compagnie, si mosse alla volta di Pesco Pagano, non molto distante dalla invasa borgata. Qui, avendo udito che i briganti s'eran posti in fuga, decise di ritirarsi e di rimandarci ai nostri quartieri. Sventuratamente, poche ore dopo la nostra partenza, i briganti, avutane notizia, si precipitarono su Pesco Pagano e vi commisero le solite sevizie. Non abbiamo ancora dettagli di quest'ultimo fatto; ma mi stringe il cuore pesando alla sorte infelice di quella popolazione, che ci accolse con tanta festa, e più particolarmente de' miei ospiti che, contando tra i più influenti e liberali, doveano essere più degli altri presi di mira.
     Ti lascio immaginare in quale stato di continua ansietà vivano gli abitanti di questi paesi, con simili esempi sotto gli occhi. I proprietari si veggono le loro masserie derubate, non ponno più escire in campagna ad attendere ai loro affari; l'esistenza è sempre minacciata, il commercio fra paese e paese, già misero nei tempi passati per la mancanza di comunicazioni, ora è cessato del tutto; lavori pubblici non si iniziano; il governo va perdendo sempre più di forza morale, perchè lo si vede impotente a frenare il brigantaggio. E' urgente, urgentissimo, che si prenda qualche grande risoluzione. Se Roma ci è ancora negata, e la reazione continua ad avervi il proprio covo e l'officina delle macchinazioni, venga qui spedita quasi tutta l'armata, si faccia un grande sforzo militare, e si cerchi di troncare colle armi il male alla radice. Un'altra misura eccellentissima, e di cui forse nelle nostre provincie non si ponno apprezzare tutti i vantaggi, sarebbe la venuta del Re. Non puoi credere quanto tale venuta sia invocata da tutte le classi della popolazione. Abituate da lungo tempo al despotismo, esse considerano ancora il Re come il simbolo della onnipotenza; la sua sola presenza basterebbe in gran parte a calmare gli spiriti, a rincorare i timidi, a toglier fiducia e coraggio alla reazione, ad imprimere uno slancio potentissimo alla gran maggioranza liberale. Ma questa venuta sempre protratta, io temo che più non avvenga, e il Governo, ostinandosi a non ammettere la differenza che passa fra queste provincie e le altre componenti il regno, si priverà di uno dei mezzi più efficaci a migliorare la sorte di queste sventurate contrade.
     Per quanto riguarda la mia persona e le mie attuali condizioni, null'altro posso dirti se non ch'io godo continuamente la più perfetta salute. Abbiamo delle giornate molto fredde, ma quasi sempre serene; e avallata non sono occorse novità di sorta alcuna. Forse fra breve cangeremo dimora, e pianteremo le nostre tende a Sant'Agata di Puglia, paese di circa seimila anime più civilizzato o meno freddo di Vallata; ma sinora non so nulla di preciso. Seguiterai a dirigere le lettere a Napoli, chè tutte mi pervengono...

Monte Vergine, 4 dicembre 1861.

      Carissimo papà,
      Mentre io mi preparavo a partire colla Compagnia da Vallata alla volta di Sant'Agata, un ordine improvviso mi chiamò a Monte Vergine onde raggiungere un'altra Compagnia. E' Monte Vergine un'altissima montagna che sovrasta ad Avellino, ed ha sulla vetta un ricco santuario con un convento. In questo convento stanno alloggiati i soldati, e noi siamo ospitati dai frati. Il freddo che si soffre su questa sommità è qualche cosa di spaventoso. Il terreno è già imbiancato dalla neve, tira un vento diabolico, ed io faccio conto di passare le giornate accovacciato davanti al fuoco. Ma tutti questi disturbi e strapazzi io li sopporterei colla massima disinvoltura, se non si aggiungesse il dispiacere di aver abbandonato quella compagnia, con cui ho diviso tanti stenti e pericoli, quegli ufficiali, con cui per lungo tempo ho convissuto, per vedermi qui circondato da facce nuove, e dovermi adattare ad abitudini affatto differenti. Inoltre, io mi facevo quasi una festa di andare a Sant'Agata, borgata delle Puglie, passabilmente civilizzata e favorita da un clima quasi tiepido. Ed invece, ecco che improvvisamente sono balzato su questa vetta deserta e gelata! Questo santuario lo dicono bellissimo; io non ho avuto finora il tempo di visitarlo, essendo giunto ieri sera. Il convento è grandioso, ed io ho una camera che, se non fosse inverno, sarebbe un delizioso soggiorno. I monaci sono ricchi e liberali, ed anzi la Compagnia non ha altro scopo che di difenderli. Dirai queste cose al curato della Cassinetta, il quale, a quanto mi scrivi, mi ha già condannato alle fiamme dell'inferno come eretico scomunicato, ecc. ecc. Una specialità molto aggradevole di questo soggiorno è che nel convento è assolutamente proibito di mangiare di grasso; per il che, onde poter pranzare con qualche piatto di carne, siamo condannati ad uscire ogni giorno ed a recarci ad una specie d'ospizio distante circa un quarto d'ora, percorrendo un sentiero talmente battuto dal vento, che sarà un vero miracolo se qualche giorno non faremo un volo tutti insieme giù per la valle. Ti lascio immaginare poi come il piacere di questa passeggiata diventerà più sensibile allorquando avremo la neve a un uomo d'altezza!
     ... Ma viene nella mia camera l'individuo che deve portare la lettera alla posta. Addio in fretta.

Avellino, 9 dicembre 1861.

      Carissimo papà,
      Io credo che il colonello del mio reggimento sia stato preso da un accesso di follia, ed io sono l'infelice che ne subisce gli effetti. Avrai a quest'ora già ricevuto la lettera, nella quale t'informavo del traslocamento ch'egli mi fece fare da Vallata sulla vetta di Monte Vergine, trasportandomi, senza nessuna necessità, da una compagnia all'altra, ed esponendomi per tal modo solo soletto ad un viaggio pericoloso e spaventosamente incomodo. Ma pare che egli non sia ancora soddisfatto di procurarmi dei disturbi, poiché questa mattina ho ricevuto un suo ordine che mi impone di recarmi immantinente a Montesarchio, aggregandomi alla compagnia che là soggiorna. Ma, domando io, valeva la pena di farmi arrampicare sul Monte Vergine, perché dopo cinque giorni dovessi di bel nuovo calare? E crede egli forse che sia un divertimento a intraprendere un secondo viaggio, non meno lungo e non meno noioso del primo? Basta! sia fatta la volontà di chi comanda, e rassegnamoci filosoficamente. Domani mattina partirò per Nola, da Nola a Cancello, e da Cancello, passando la valle Caudina, a Montesarchio.
      Ho trovato ad Avellino la tua lettera del 23 novembre, ed ho alcune osservazioni a farti. In primo luogo, hai torto di chiamare le provincie napoletane un "ricettacolo di delitti,,. E' un giudizio troppo severo ed anzi ingiusto. In secondo luogo, non so perché tu qualifichi Don Toto come un seguace ed un alleato dei briganti. Non dico che Don Toto sia un modello di prete e un prodigio di virtù, ma è un originale assai divertente, pieno di coraggio e devotissimo alla causa della libertà.
     Ti consiglio a non riporre le tue speranze del mio vicino traslocamento in qualche città, sul riflesso che, scorsi tre mesi, abbiamo diritto ad un cambio ... usanze che si osservano in tempi tranquilli, ma, nelle circostanze eccezionali in cui siamo, il Governo agisce come l'opportunità gli consiglia. In quanto poi al chiedere un mese di permesso, non posso davvero comprendere come tu ti faccia l'illusione che mi venga accordato. Nei momenti di pericoli e di azione, i permessi vengono sempre negati a coloro che hanno la sfacciataggine di domandarli, a meno che non vi sia a favore del supplicante qualche fatto, qualche ragione straordinaria. Tutti gli ufficiali che tu vedrai in licenza la ottennero perché dimoranti a Napoli (città,), o in altre parti d'Italia sicure e tranquille.
     Spero che avrai ricevuta la lettera in cui ti spiegavo i miei ragionamenti sull'affare della dimissione, ragionamenti che erano stati da te così singolarmente travisati. Siccome però quella lettera fu troncata dalla fretta, così voglio fare in questa una piccola aggiunta. Tu mi dicevi che speravi ed anzi avevi l'ambizione di vedermi presto capitano. Devi sapere che prima che io divenga capitano devono essere promossi a questo grado più di 800, più anziani di me, e quindi, nello smaltimento di questi 800, passeranno non già i mesi, ma gli anni. Quanto poi all'ambizione, non comprendo davvero quale ambizione si possa avere nell'ottenere un grado di cui avrei circa 800 compagni: grado non accordato al merito, ma puramente all'anzianità. Io non ho ambizione, ma se ne avessi sarebbe assai più alta e più grandiosa....

Montesarchio, 13 dicembre 1861.

      Carissima Annetta,
      Voglio credere che il papà ti avrà data notizia dei miei cambiamenti di residenza, e che non ti riuscirà nuovo il nome da cui vedi datata questa lettera. Io qui mi trovo già da quattro giorni, e non sono troppo malcontento, specialmente perché favorito da un clima delizioso. Abbiamo delle giornate che ci permettono di uscire senza mantello, e mi par d'essere in primavera. Io però non mi sono ancora consolato d'aver perduto la mia antica compagnia, e quei paesi che già dettagliatamente conoscevo e che mi erano assai simpatici. Qui siamo assai forti di numero.
     Montesarchio è precisamente al piano, ma assai vicino, e precisamente sulle montagne di Monte Vergine, si annida la banda di Cipriani, della quale vediamo i fuochi. A dirti il vero, mi sembra che i comandanti militari di questi luoghi non dimostrino troppa energia e pensino forse eccessivamente alla propria sicurezza. Se non si penserà seriamente a qualche energico rimedio, il bringataggio non sarà spento, e nella primavera risorgerà più forte di prima. Seguitando nel sistema usato fino ad ora, si rovina l'esercito, lo si demoralizza, lo si stanca, e non si ottengono che scarsissimi risultati. Noi stiamo sempre sperando di essere, da un giorno all'altro, riuniti al resto del reggimento, e far vela per altre provincie. L'arrivo di alcuni reggimenti aveva aumentata la nostra speranza; ma purtroppo passano i giorni e non si riceve alcuna disposizione in proposito.
      Per quanto la prospettiva di passare l'inverno a Montesarchio non sia ridente, pure fu tale il terrore che provai nei pochi giorni trascorsi fra i ghiacci e le intemperie di Monte Vergine, che quasi mi rallegro con me stesso della mia attuale condizione. Ho un buon alloggio, con un padrone di casa opprimente di gentilezza, e mi dicono che qui non si ha mai un gran freddo. Se mai però, nel corso della mia esistenza, io passerò per mia volontà un inverno assente da Milano, sceglierò per mia dimora Pietroburgo o Stoccolma piuttosto che una città meridionale. E' vero che nelle giornate serene, come oggi, si tengono aperte le finestre e si gode un sole primaverile; ma quando il cielo si annuvola e spirano i venti e non hai più per riscaldarti la stufa del sole, si conduce una vita così misera e così intirizzita, che è un tormento. Montesarchio è una grossa borgata, sufficientemente civilizzata. Ha il privilegio, singolarissimo nell'ex-regno di Napoli, di avere qualche strada! La sua posizione è amenissima, e una delle più pittoresche che abbia vedute. Siamo vicinissimi a Benevento; e se mi sarà possibile, faccio conto di recarmi qualche giorno in questa città, onde ammirare molti avanzi di monumenti romani e del medio-evo che vi si conservano.
      >Da molto tempo non ho più lettere da casa; non voglio attribuire ciò a vostra colpa, ma a questi continui cambiamenti di residenza; e sono persuaso che si saranno perdute. Ti prego pertanto di supplire con maggior frequenza e lunghezza di lettere alla mancanza delle smarrite. Il mio indirizzo è sempre a Napoli. Vi dico però seriamente di non stare in pena per me. Io andai incontro a varii pericoli quando mi trovavo solo a Liveri, o quando a Vallata ero sotto gli ordini di un capitano giovane ed energico. Ma qui non facciamo che perlustrazioni sciocche ed inutili, e ci teniamo sempre a una rispettosa distanza dai briganti. Ti prego di non divulgare queste notizie; ne faccio parte a te, onde viviate, tranquilli sul mio conto...

Montesarchio, 16 dicembre 1861

      Carissima zia Nina,
      ... Credo che a quest'ora il papà ti avrà informata dei molti miei traslocamenti, e dei miei giri per le provincie napoletane. Ora mi trovo a Montesarchio, e ho dati per supporre che mi ci fermerò qualche tempo; ma non posso però nulla accertare in proposito, e se domani mattina ricevessi l'ordine improvviso di partenza non mi meraviglierei. Questa vita nomade e sempre incerta è naturalmente piena di disagi, ma non le manca però il suo lato divertente; ed è sorgente di molte emozioni, specialmente quando si viaggia soletti su di una via deserta, colla probabilità di veder calare dalle montagne qualche orda brigantesca...
      ... Montesarchio ha davanti a sé una ridentissima pianura, chiusa da una parte dal Monte Taburno e dall'altra dalla catena di Montevergine. Queste ultime montagne sono presentemente la séde e la fortezza del brigantaggio. In tutte le altre provincie questo flagello subì in questi ultimi tempi una rilevante diminuizione; ed anche dalla Basilicata non si hanno che notizie tranquillizzanti; ma sopra i monti che ho nominati esiste ancora la banda di Cipriani, e pare che non abbia alcuna intezione di voler cedere. E' potentemente aiutata nella sua persistenza dalla quasi incredibile difficoltà del terreno, che non permette lunghe e minuziose perlustrazioni, e più ancora, dalla malvagità dei villaggi che si trovano alle falde di quella catena, villaggi che furono sempre nidi dei briganti, e dove questi trovano vitto e ristoro alle loro fatiche. Ieri sera dovetti appunto accorrere ad uno di questi paesi chiamato Cervinara, perché si sospettava nella notte una discesa di Cipriani, e la truppa che vi soggiorna si credeva incapace a sostenersi...
      A Cervinara parlai a lungo con un brigante che si venne a consegnare, e mi divertii molto nel sentirgli raccontare le Vicende della comitiva e le abitudini di Cipriani. Questi s'intitola comandante in capo del IV Corpo d'armata dei legittimisti borbonici! Nota che questo Corpo d'armata è composto fra tutto di centocinquanta uomini! Un'abitudine poi, che è comune a tutti quanti i briganti di tutte le provincie, è quella di tagliare le orecchie degl'infelici che cadono loro nelle mani, e di accartocciarle in un bel foglio, e d'inviarle alla famiglia. E' però vero che in questi paesi le orecchie lunghe sono tanto comuni, che qualche taglio qua e là non è forse un gran male!...

      (Questa notizia del taglio delle orecchie da parte dei briganti, è confermata anche dalla tradizione popolare: qualche vecchio mi ha ricordato, con un seno di orrore, questo particolare occorso ad antenati di famiglia).

      Tornato il Negri a Montesarchio, il giorno 18 in esplorazione sullo stradale di Benevento, con un drappello di 36 uomini, scorse "una comitiva di 200 armati, che s'incamminava sull'erta di un colle". Fatti stendere in catena i suoi soldati, attaccò i briganti. L'azione condotta con slancio, malgrado la disparità delle forze, ebbe favorevole risultato. Un brigante fu ucciso, un altro fucilato. All'encomio del Generale Franzini, seguì la concessione della medaglia d'argento al valore.

      Come si può notare dai testi riportati, il Negri parla del brigantaggio al padre sempre in tono scherzoso e, con la sua disinvoltura, cerca di calmare le legittime trepidazioni dello stesso. Il vero è, precisa lo Scherillo, che nè i briganti erano un "mito", né la loro presenza nelle nostre zone un effetto di pura "allucinazione".

      Oltre al noto Cipriani, che agiva nei nostri paesi, sappiamo che tutta la zona era infestata anche da altre bande. Il compianto Mons. Carlo Petrilli, in "Treviso nella storia e nella tradizione" alle pagg. 198-199 ci dà un elenco, non certo esaustivo, del movimento del brigantaggio nelle nostre zone, negli anni 1860-63:

1) Banda Bosco (eremita)
2)    "   Schiavone
3)    "   Andreotti
4)    "   Petrozzi
5)    "   Rocco Donatello
6)    "   Sacchitiello
7)    "   Marciano
della forza di  40 briganti
  "        "     "  60     "
  "        "     "  30     "
  "        "     "  40     "
  "        "     " 100    "      
  "        "     "  30     "
  "        "     " 14      "
      Fra i civili uccisi per brutale malvagità dai briganti, egli ricorda: Fischetti Antonio di Gaetano, da Vallata, ucciso a Migliano il 25/nov. 1862.
      Il Valagara ricorda un altro capobanda, Pasquale Romano, ucciso in conflitto a Vallata.

      La notizia fornitaci dal Negri, circa la fucilazione dei sette briganti a Vallata, è confermata da un inconfutabile documento locale, la registrazione dei fucilati sul registro dei defunti. L'Arciprete del tempo, D. Ciriaco Cataldo, così registra il doloroso avvenimento:


     "Anno Domini 1861, die XVII Novembris Vallatae.
      Sub hac die, morte damnati, ictu sclopi, periere simul infrascripti:

      1)      A. Cerullo,         an. 27,   f.    con. Nicolai et Mariae Tanga V.
      2)      V. Marino,          "   27    "        "    Josephi et Mariae Gallo ac vir F. Gallicchio Vallatae
      3)      E. Laezza            "   35    "        "    Francisci et q. M. Melico ac vir A. M. Cuoco, civ. Trivici
      4)      F. Pagliarulo        "   34    "        "    Euplii et q.A. Rossi ac vir A. Colella, uxor II^ Triv.
      5)      A. La Ferrara      "   27    "        "    Francisci et His. Pizzulo civ. Trivici  ac vir M. J. Cipriano
      6)      J. Ragazzo           "   26    "        "    q. Viti et S. Mariniello civ. Trivici  ac vir F. Del Vecchio
      7)      A. Cardinale        "   25    "        "    Cyriaci et S. Aulisio civ. Trivici

      Qui omnes solo sacramento Poenitentiae refecti fuere et eorum corpora sepulta fuere in coemeterio, praesentibus Michaele Pavese et Nicolao Dominico La Quaglia
      Cyriacus Cataldo Archipresbiter Curatus (R.D.XV, 26^) Lo stesso Arciprete ricorda altre fucilazioni successive: Anno Domini 1862, die II martii Vallatae.
      Sub hac die, morte damnati, ictu sclopi, mortem subiere simul:
      1) Antonius Riviello, filius coniugum Josephi et V. M. Magaletta, annorum aetatis suae 23
      2) Augustinus Acucella, terrae Andrettae, annorum 22, cuius parentes... (lasciato incompleto = ib. pag. 30^ )
      Ed ancora a pag. 37^ :
Angelus Colicchio, annorum 26, filius coniugum quondam
      Angelo Colicchio  (fucilato)              Joannis et Luciae Candelino, morte damnatus, ictu sclopi obiit, cuius corpus sepultum fuit Coemeterio, praesentibus M. Pavese et N. La Quaglia (64).

      Ibidem, pag. 107^ l'Arciprete registra:

      Andreas Sauro, Reali militia adscriptus, aetatis suae annorum... filius coniugum Donni Cafetani et Donnae Annae Zamarri. Nosocomio militari obiit, cuius corpus ibi sepultum fuit, uti ufficiales literae nobis retulerunt.                    Cyriacus Cataldo Archipresbiter Curatus.

      L'orrore della fucilazione dei sette si può cogliere oggi sulla bocca di coloro che ne hanno sentito il racconto dai genitori anziani.

      La puntualizzazione storica ci viene pure da un documento rilasciato il 1° gennaio 1882 dal Sindaco del tempo, Gaetano Pelosi, nella causa del comm. Felice Ferri contro il Commissariato militare di Napoli:
      "Attesto che negli anni 1861, 1862, e 1863, e segnatamente dal 1° novembre 1861 al 30 settembre 1863, il territorio del comune suddetto (Vallata) fu minacciato e travagliato dalle estorsioni di grosse bande brigantesche, a combattere le quali, oltre la Guardia Nazionale, furono pure destinate le truppe regolari dell'Esercito Nazionale, che in questo periodo di tempo furono in questo Comune di stanza e di passaggio.

      A comprova di quanto si è genericamente asserito, si attestano inoltre i seguenti fatti specifici... Dippiù il brigante Alfonso Cerullo e Vito Marino di V., Antonio Cardinale, Euplio Laezzo, Francesco Pagliarulo, Antonio La Ferrara e Giovanni Ragazzo di Trevico, che, presi dalla truppa e dalla Guardia Nazionale, furono tutti e sette fucilati alle spalle nel 17 novembre 1861".

      La tradizione popolare ci dà altri dettagli:
      Il luogo dell'esecuzione fu dietro la cappella di S. Vito, dove, secondo la fantasia popolare, non sarebbe nata più erba.

    _________________________
     (64) Il 15 dic. 1862 fu fucilato Giuseppe Braccio di Morra (ib. pag. 38). Il 19 feb. 1863 fu fucilato Rocco Bonavita di Trevico (ib. pag. 40).

      Uno degli otto briganti catturati non sarebbe stato fucilato, non si sa perché.

      Anche un altro dei sette si sarebbe potuto salvare, per la benevolenza del Capitano della Guardia Nazionale, il notaio D. Felice Netta, il quale avrebbe consigliato all'interessato, fatto sistemare in ultimo nella fila, di buttarsi subito a terra appena il plotone di esecuzione avesse cominciato a sparare, per poi scappare, quando tutti fossero andati via. Ma l'intesa non avrebbe sortito esito positivo perché, un componente della Guardia Nazionale, cui era affidato l'incarico di assicurarsi della morte dei condannati, avendo trovato ancora vivo il suddetto, (pur essendo intervenuto il Capitano col dire che lasciasse andare, col pretesto che il ferito doveva ormai essere in fin di vita), lo avrebbe fatto ugualmente fuori, con un colpo di pistola alla testa, forse per un rancore personale.

      La tradizione orale non è concorde circa il nome (alcuni parlano di un Michele Netta, altri di Oreste Monaco) di questo esecutore aggiunto, cui il Capitano avrebbe presagito: "Un giorno, davanti casa tua, crescerà l'erba!". E' storicamente certo invece che Oreste Monaco, il 4 settembre 1860, aveva guidato un gruppo di Vallatesi ad Ariano, per la proclamazione del Governo provvisorio; e nel successivo processo, davanti alla Gran Corte Criminale del Principaro Ultra, depose come testimone, insieme a Carmine Paternostro e Andrea Savino, che varie persone civili, nel mattino del 4 settembre, recavano a fasci armi da fuoco e picche verso i luoghi, dov'erano adunanze d'insorgenti (cfr. Cannaviello, pag. 20).

      Il Valagara ci dà una sintesi molto significativa, anche se non sempre critica, del fenomeno così complesso del brigantaggio in cui, al suo dire, confluivano persone, fra le quali molti soldati borbonici sbandati, che rapivano usurai per estorcere con taglie denaro, da distribuire ai... poveri!; che svaligiavano granai, per provvedere agli... affamati!; che all'Ava maria, con le mani lorde di sangue e la coscienza di delitti, s'inginocchiavano a pregare e baciavano la terra; che facevano celebrare Messe di suffragio (Angiolillo); che osservavano il venerdì; che non commettevano estorsioni al sabato, dedicato al "fioretto" alla Madonna (Gasparoni); che facevano ardere lampade davanti alle sacre effigie (Caruso); che recitavano a sera il rosario (Lavanga), ecc.

      "Quale ibrida amalgama, esclama il Valagara, d'immoralità e virtù, d'ignominie e superstizioni, di pregiudizi e fedeltà! Sì, anche di fedeltà. Nei pressi di Zungoli, i briganti recavano sul petto la stella pontificia e l'atto di giuramento e di fedeltà, che il capobanda Pasquale Romano (ucciso in conflitto a Vallata), imponeva alla sua masnada, e che principiava così: - Promettiamo e giuriamo di sempre difendere Iddio, il Sommo Pontefice Pio IX, Francesco II Re del Regno delle due Sicilie... così Iddio ci aiuterà e ci assisterà sempre a combattere contro i ribelli della Chiesa - ".

      Tutta questa congerie di pretestuosa sollecitudine per i poveri, di strumentalizzato impegno sociale, di superstizione, di pregiudizi, di presunta fedeltà alla religione ed all'autorità costituita, aveva contribuito nella fantasia delle masse a mitizzare il brigante come un uomo generoso, altruista, che si ribellava allo sfruttamento dei potenti, quasi un simbolo di protesta individuale, contro l'opprimente collettività.

      Ad alimentare questa fantasia popolare contribuirono scrittori da dozzina, prestando la loro opera ad una letteratura popolare criminale, che adescava la malsana ed ignorante curiosità delle folle.

      Arturo Graf bollò a sangue questa "letteratura a un soldo", giudicandola responsabile della cristallizzazione delle masse popolari nella loro congenita condizione di abbrutimento, consequenziale all'ignoranza, alla superstizione ed alla miseria che, al dire di Nicola Misasi, "tenne dietro all'affrettata e caotica formazione del Regno d'Italia".

      Questo lungo capitolo, con la sua dovizia di particolari, spesso così sconvolgenti, vissuti e sofferti dalle nostre popolazioni, dovrebbe sollecitare ciascuno di noi ad apprezzare maggiormente quel gran bene della libertà, di cui oggi usufruiamo, e che è tanto costato ai nostri antenati.

A questi umili e obliati, ma autentici benefattori dell'umanità, vada il nostro pensiero memore e riconoscente: la nostra gratitudine verso di essi si esprimerà nel difendere da ogni riflusso libertario, con la loro stessa montanara fierezza, quell'ideale di libertà democratica, cui dobbiamo continuamente ispirarci, per crescere in una dimensione a noi congeniale.

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