Studi Sociali e Giuridici - Tommaso Mario Pavese

4. — Origine, fondamento e critica del diritto di proprietà e di successione.

        In vari modi e per varie ragioni, il diritto di proprietà e quello di successione formano obietto degli attacchi di tutte le scuole socialiste.
        La proprietà è la sorgente dei contrasti più spaventosi che dividono l’umanità. Ogni città — afferma giustamente Platone — sia pur piccola, non è una, ma contiene almeno due città, nemiche l’una dell’altra, l’una di ricchi, l’altra di poveri.
        I poeti che invocarono l’età dell’ oro (Virgilio, Ovidio) affermarono che in essa è ignota la proprietà. poemi omerici sono informati al principio della proprietà in comune. I primi cristiani, seguendo il monito del Maestro, si sentirono fratelli Negli Atti degli Apostoli è detto che tutti i credenti vendevano i propri beni e li dividevano fra tutti, secondo il bisogno, e mangiavano in comune, nè vi era alcuno indigente fra di loro. Gli Apostoli ed i primi Padri della Chiesa consideravano la proprietà individuale come contraria alla natura ed allo spirito cristiano; l’ideale è la povertà onde si vagheggia una società in cui manchi la proprietà. Nel Vangelo si parla in favore del povero, cui si promette il Paradiso, e si dice che il superfluo sia dato ai poveri. S. Agostino e S. Tomaso riconoscono la proprietà solo come una necessità della vita, senza base razionale.
        I primi attacchi alla proprietà si trovano, per accennare solo le opere migliori e più conosciute, di Tomaso Moro (a. 1516) e nella Città del Sole di Tommaso Campanella (1623). Nell’ Utopia il Moro afferma che in tutti gli Stati dove la proprietà è individuale, dove tutto si misura con l’argento, non si potrà mai far regnare la giustizia o assicurare la prosperità pubblica; per ristabilire un giusto equilibrio nelle facoltà umane, sarebbe necessario abolire il diritto di proprietà. Finchè questo diritto durerà, la classe più numerosa e stimabile non avrà in porzione che un inevitabile fardello di inquietudini, di miserie e di afflizioni. Egli organizza perciò una società comunistica, in cui la proprietà è comune, tutti lavorano sei ore al giorno, consacrando il resto del tempo allo studio delle lettere e delle scienze insegnate nei collegi pubblici, ecc. — Ma i più violenti attacchi partirono dai comunisti e socialisti del XVIII secolo: il secolo che agitò tutti i problemi filosofici, politici e sociali.
        Alcuni sostennero apertamente il comunismo (Morelly, Mably); altri attaccarono l’ordine sociale, ponendo delle premesse che menano al comunismo (Rousseau, Helvetius, Diderot). Rousseau afferma: Il primo che, avendo un pezzo di terra, osò dire: Questo è mio; e trovò della gente così semplice dà credergli, fu il primo fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassinii, quante miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ ascoltare quest’impostore; voi siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di alcuno.
        Cabet, ispirandosi all’Utopia di Moro, a Campanella e Morelly, scrisse il Viaggio in Icaria. Egli afferma che la proprietà, la moneta, l’ineguaglianza delle fortune sono causa di tutti i mali dell’umanità; causano cioè la miseria, l’abbrutimento delle masse, il disordine industriale, l’ingiustizia, la frode, l’usura, la truffa, l’usurpazione, il furto, l’assassinio, il parricidio, i dissensi, gli odii, i processi, il giuoco, il concubinato, l’adulterio, la prostituzione, ecc. Louis Blanc dice: Si accusa di quasi tutti i nostri mali la corruzione della natura umana; bisognerebbe accusarne invece le istituzioni sociali. Di tutti i mali è causa la miseria, — Ma il più accanito nemico della proprietà è Pierre Joseph Proudhon (1809-1865), che scrisse in proposito una serie di lavori, sostenendo che la proprietà è senza fondamento innanzi alla giustizia ed alla ragione, onde si può dire che essa è un furto. « La proprieté c’est le vol! » Essa è ingiustificabile con l’occupazione, giacchè il diritto di occupare è di tutti, e perchè colui che occupa è possessore o usufruttuario della cosa, non proprietario. E’ ingiustificabile col lavoro, perchè, se è vero che l’uomo non può vivere che lavorando, egli, per lavorare, ha bisogno di strumenti di lavoro, i quali perciò non possono essere obietto di proprietà esclusiva.
        Il diritto di proprietà comincia dunque seriamente a discutersi solo colla rivoluzione francese; e dell’evoluzione di esso si ha un concetto esatto solo nell’ultimo trentennio dei secolo XIX (dal 1872 in poi), specie per opera del Laveleye e del Summer Maine che sono giunti a questa conclusione: « Per un evoluzione lenta e dovunque identica, la proprietà fondiaria, collettiva al principio, è divenuta per successive trasformazioni, individuale ed ereditaria. In tutte le società primitive dell’ Europa, dell’ Asia e dell’Africa, come oggi in Russia (mir) e a Giava (dessa) il suolo, proprietà collettiva della tribù, era periodicamente diviso fra tutte le famiglie, in modo che tutti potevano vivere del loro lavoro, seguendo comandi della natura.
        Dunque, quasi tutti i popoli sono partiti da un ordinamento socialista, che venne più tardi sopraffatto colla frode, solla violenza morale e fisica dei potenti e specialmente per la preponderanza degli elementi militari. Come già Montesquieu asseriva che i principii della libertà politica vennero trovati nelle foreste della Germania, così possiamo quindi anche noi rilevare che alla culla del più gran numero dei popoli vi è stato un ordinamento in prevalenza socialista; e che perciò il movimento sociale attuale non reclama se non la restituzione di un’antichissima eredità dei nostri avi.

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        Spesso le ricchezze derivano da leggi di privilegi di classe, da favore del sovrano, talvolta dalla conquista. il diritto di proprietà forma perciò oggetto degli attacchi di tutte le scuole socialiste. Esso — con l’azione concorde dell’eredità, della donazione e del legato — rese indipendente la ricchezza dal lavoro personale, trasmettendola a coloro che non avevano lavorato; e creò d’altra parte una classe di diseredati.
        Col prestito e con la locazione, il diritto di proprietà diede origine ad un altro modo di vivere senza lavorare, il vivere di rendita; creò d’altronde salariati che lavoravano per conto di altri, e padroni che ritraggono parte dei frutti del lavoro dei primi, e si preparò così la lotta fra lavoro e capitale.
        Il diritto di proprietà sembra in special modo contrario ai principii di giustizia per due suoi effetti: l’estrema disuguaglianze delle ricchezze, fonte di pauperismo, ed il privilegio dell’ ozio causato dall’eredità e dalla rendita.
        Perchè, in tutti i tempi, la disparità delle ricchezze fu causa di gran lamenti? Indubbiamente l’irritazione deriva in parte da un sentimento d’invidia, la quale fa tollerare solo a malincuore la superiorità del proprio simile, sia superiorità di fortuna o di nobiltà, di intelletto o magari di salute o di virtù. Ma più che da uno stolto sentimento d’invidia, deriva dal sentimento di giustizia, la quale appare offesa perchè:
        1. Le disparità di ricchezze appaiono artificiali, non naturali.
        Non sono doni di natura che non possono cambiarsi, come la bellezza e l’ingegno; ma invece sono il risultato di istituzioni sociali, quali la proprietà e l’eredità, create e conservate da coloro che se ne sono avvantaggiati; spesso si trovano in opposizione con le facoltà intellettuali e morali de’ proprietarii, e non sono mai proporzionate ai meriti e alle virtù degli uomini. E che la disparità delle ricchezze non dipende da virtù personali, lo prova il fatto ch’essa è ereditaria.
        2. I salari non sono proporzionali alla pena incontrata nel lavoro; pare anzi, come nota amaramente Stuart Mill, che la scala delle rinumerazioni discenda di mano in mano che il lavoro diviene più penoso, fino al punto che il lavoro più duro basta appena a soddisfare le più urgenti necessità della vita.
        3. Le disuguaglianze economiche sono molto più invadenti delle disuguaglianze naturali ad esempio della bellezza, e le loro conseguenze sociali sono più vaste. Le ricchezze infatti non solo fanno acquistare indipendenza, ozio e libertà a chi le possiede ma gli assicurano anche il predominio nella vita fisica politica, intellettuale e morale. La statistica dimostra che chi è ricco vive più a lungo, perchè meno esposto ad agitazioni e pericoli, acquista più facilmente il potere e la coltura, e delinque meno.
        4. La disparità delle ricchezze divenne insopportabile di mano in mano che sparirono, l’una dopo l’altra, tutte le altre disuguaglianze prima esistenti. Ottenutasi l’eguaglianza civile e politica per mezzo delle leggi, una certa uguaglianza intellettuale colla diffusione sempre crescente della coltura, ora tutta l’ira e tutto l’odio si sono accumulati soltanto contro la disuguaglianza delle ricchezze, la quale mentre era un tempo quasi nascosta da altre disuguaglianze anche più aspre, appare oggi in prima linea ed accentra ire, critiche ed odii giusti e ingiusti.
        Ma benchè siano giuste le accuse alla disuguaglianza delle ricchezze, ora brevemente esaminate, tuttavia essa non può sopprimersi senza urtar contro altri indiscutibili principii di giustizia e contro vantaggi economici. Cioè:
        1. Non è facile sopprimere la disparità delle ricchezze, fìnchè non si sarà riusciti a sopprimere fra gli uomini le differenze naturali ed originarie (intelletto, abilità), delle quali le disuguaglianze di ricchezze sono smisurate appendici.
        2. L’ uguaglianza delle ricchezze non è desiderabile, almeno fìnchè le società umane si troveranno in una fase di progresso e di relativa povertà, perchè bisogna riconoscere che la disparità delle ricchezze, più che il bisogno, stimola e promuove la produzione, mantenendo in tutti gli uomini, dai più alti ai più bassi gradini della scala sociale, la speranza di un graduale miglioramento. Tuttavia, per conciliare con la giustizia i vantaggi economici derivanti dalla disuguaglianza di ricchezza, bisognerebbe e che quest’ultima fosse proporzionale al lavoro ed al merito e non fosse permanente. Perciò molti vogliono che sia abolita almeno l’eredità, la quale fissa e perpetua le disuguaglianze originarie. — Il diritto di eredità o di successione, che è una conseguenza del diritto di proprietà, è quindi anche accanitamente combattuto dalle scuole socialiste. Il Saint-Simonismo sostituisce il diritto di successione famigliare con quello dello Stato, onde trasmettere in tal modo, senza scossa violenta, tutta la fortuna nazionale nelle mani dello Stato. Altri socialisti vogliono imprimere al diritto di successione un carattere schiettamente democratico: ridurre cioè la grandi fortune ereditate, mediante alte imposte sull’eredità; e limitare la successione legale solo ai figli, ai genitori, ai fratelli ed alla moglie, ed ove essi manchino è erede lo Stato. L’ imposta deve aumentare notevolmente, in proporzione della lontananza della parentela e della fortuna ereditata. Nessun’ altra istituzione nega più della successione il rapporto fra merito e compenso. Non è giusto che i destini dell’esistenza d’un uomo debbano spesso dipendere esclusivamente dal caso della nascita; nè è giusto ammettere che si possano godere ricchezze che non sì son guadagnate, e che non sempre furono dai padri acquistate decorosamente, ma spesso solo colla frode, colla violenza e coll’usura.
        Ma la proprietà e la successione sono, come diremo or ora, abbastanza giustificate da ragioni giuridiche e psico-sociali.
        S’indebolirebbe una delle più potenti molle della produzione, se si togliesse agli uomini il diritto di acquistare beni o quello di disporre, morendo, dei frutti del proprio lavoro; giacchè molti lavorano appunto per migliorare, acquistando beni, e — dobbiamo riconoscerlo ad onore dell’ umana natura — molti lavorano e risparmiano più per altri, che per loro stessi. Tuttavia bisogna assai più limitare il diritto di eredità, specie nella successione ab intestato.

***

        Ma qual’è il fondamento razionale del diritto di proprietà? I giureconsulti greci non discutono affatto di tale fondamento: e lo discutono pochissimo anche i Romani. Questi ultimi, nonchè Grozio e Puffendorf, fondarono la proprietà nell’occupazione. Kant e Fichte fanno derivare la proprietà da una convenzione.
        Secondo Kant, l’occupazione è l’atto preparatorio della proprietà: ma questa è provvisoria, e per diventare definitiva le occorre il consenso di tutti. Altri (Montesquieu, Bossuet, Bentham e Wagner) fanno derivare la proprietà dalla legge. Locke ripone
        il fondamento della proprietà nel lavoro, dicendo: Ciascuno ha un diritto particolare sul proprio corpo; il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani sono dunque giustamente suoi, ad esclusione degli altri: però ciascuno deve possedere i beni necessari alla sua esistenza, poichè, oltrepassando i limiti della moderazione, prendendo più di quanto gli bisogna, prende senza dubbio ciò che appartiene agli altri. — Giorgio Hegel ripone il fondamento del diritto di proprietà nell’essenza della personalità umana, la quale si estrinseca con l’appropriazione. La concezione hegeliana ci dà la più grande e comprensiva formola del fondamento del diritto di proprietà, ma parte da un concetto un pò astratto e troppo assoluto: cioè la proprietà è giustificata dall’ indefinito potere della volontà di ogni uomo libero di imprimere, nei modi legittimi, l’effetto di se stesso alle cose esterne prive di volere. Su questa ultima teoria si modellano Ahrens e Lilla. L’ Ahrens dice: La proprietà è il riflesso della personalità umana nel campo dei beni materiali, ed è giustificata dagli umani bisogni. Le tre prime teorie, specie la prima, ci indicano l’origine, non la ragione della proprietà; ci danno il fatto, ma non lo spiegano. Le due ultime teorie sono le migliori:
        — E il diritto di successione testata o intestata, anch’esso tanto criticato dai socialisti, su che si fonda? Il Wolf dice che il fondamento del diritto successorio è nel diritto dei figli di esser mantenuti. Il Pescatore sostiene invece che il diritto di successione nasce dal fatto che i beni non appartengono al de cuius, ma a tutta la famiglia che ne è comproprietaria. Carle, Miraglia e Lilla sostengono che il diritto di successione è basato sull’unità etica della famiglia, sull’affetto dei genitori pei figli: i genitori sono spinti dall’istinto ad accumulare per il mantenimento ed il benessere dei figli, affinchè possano sostenere la lotta per la vita. Questo, in breve, è stato detto per giustificare la successione legittima. I filosofi del diritto spiegano poi la successione testata, connettendola alla personalità umana, che — dicono — sarebbe monca, se non potesse disporre dei suoi beni in morte, come ne dispone in vita. Grozio, Kant, Troplong fondano il testamento sul diritto naturale, e lo assimilano per la forma ad un contratto; ma Puffendorf, Tomasio, Mirabeau, Robespierre ed il cardinal De Luca notarono come è per lo meno strano che si trasferiscano i beni con un contratto, quando la volontà necessaria a costituire il contratto non è più efficace. Infine Spencer afferma che il testamento è una donazione prorogata o a termine, e ragiona cosi:
        Se un uomo può legittimamente cedere ad un altro ciò che possiede, potrà legittimamente determinare il tempo in cui glielo cederà; col testamento egli fa una cessione che ha effetto quando cessa la sua attitudine a possedere; e questo diritto è incluso nel suo diritto di proprietà, che altrimenti sarebbe incompleto. Però tale diritto deve essere limitato nell’interesse dei figli; ed a ciò provvede la riserva accolta dalle moderne legislazioni e dal diritto romano più evoluto. Gli economisti fondano il diritto ereditario sull’ utilità perchè — essi dicono — se non esistesse il diritto di disporre dei propri beni dopo la morte, questi si disperderebbero, niuno avendo interesse a lavorare per gli altri; ma il Wagner osserva che il risparmio esercita indipendentemente dal pensiero dell’eredità perchè risparmiano anche quelli che non hanno prole.
        Lassalle mostrò come il diritto ereditario è contrario ad una giustizia ideale, ed agevola il capitalismo, che è causa di tutti i nostri mali. Marx lo critica perchè accentra il capitale.
        Altri, come ho già detto, affermano che la successione è l’istituzione che più nega il rapporto fra merito e compenso, abbandonando il corso dell’esistenza dell’individuo al caso della nascita; e quindi i più spinti la vorrebbero abolita; altri limitata solo ai figli; ed i più moderati vorrebbero ristretta al massimo fino al quarto grado di parentela la successione legittima. La maggior parte dei socialisti desidera quindi che i beni ereditari siano devoluti allo Stato perchè li distribuisca ai cittadini, o al Comune perchè ne faccia un demanio per le classi diseredate.

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