GERARDO DE PAOLA - a) Memoria che si fa evento per la Missione -

a) Memoria che si fa evento per la Missione
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        Tutti noi, singoli e comunità, siamo spesso vittime della tentazione giovanilistica di perdere la memoria storica, a volte inconsciamente, ma il più delle volte consciamente, perché riteniamo "comodo non scomodarci" con un rinnovamento in profondità.
        Ci si contenta allora di surrogati, nell'illusione del fare comunque, pensando che il cammino "cominci e finisca" con la nostra persona o con le nostre "disarticolate" iniziative pastorali, che lasciano cristallizzata la situazione, con fallimento completo.
        Il Cardinale Pellegrino, anni fa, col suo carisma profetico, ci aveva ammoniti con una delle sue solite puntualizzazioni, sempre così precise e tempestive, affermando che noi italiani siamo i "geni dell'improvvisazione", come spesso avevano fatto notare Papa Giovanni e Paolo VI.
        Del resto la Bibbia è il nostro libro per eccellenza della memoria che si fa evento, evento di salvezza per il vecchio e nuovo popolo di Dio, che si edifica, si fa Chiesa in cammino, lasciandosi guidare dallo Spirito nello "scrutare i tempi".
        Soltanto in ascolto della Parola, possiamo liberarci dai pregiudizi di personalismo, efficientismo, pragmatismo, nel confronto dialettico tra antico e nuovo, integrando e mettendo insieme le nostre tensioni: non aut... aut ma et... et.
        Il rinnovamento deve partire dal piccolo gregge, il resto di Israele, le minoranze abramitiche, che si lasciano interpellare dalla radicalità evangelica, per alimentare permanentemente la tensione al perfezionamento, offrendo a tutti un messaggio di speranza, di salvezza, senza chiudersi nel ghetto.
        Proprio a queste minoranze abramitiche è affidata, ancora oggi, la missione di incarnare il Vangelo nella storia, per cercare di eliminare, come spesso puntualizza il magistero ecclesiastico, la frattura tra Vangelo e cultura. Attualizzare il messaggio evangelico nella concretezza dell'oggi, sulla realtà quotidiana, perché l'annuncio possa tradursi in giudizio.
        L'annunzio degli apostoli "Gesù è risorto" sarebbe passato sulla testa della gente, senza interpellarla, se non ci fosse stata l'aggiunta: "Il Padre ha risuscitato quel Gesù, che voi avete messo in croce". Così l'annuncio del più grande evento della storia ha espresso un giudizio, che ha interpellato i giudei in prima persona. E' questa la missione di ogni seguace di Cristo: attualizzare sempre la memoria.
        A questo punto ritengo opportuno fermare l'attenzione su alcuni termini-chiave, cui si ricorre con frequenza, per capirne tutta la pregnanza sia nel linguaggio corrente che in quello biblico.
        La memoria, intesa correntemente come ricordo del passato, viene caricata nel linguaggio biblico, di tutto un processo di introversione, che richiama, sì, un fatto (o una persona) del passato, perché possa rivivere nel presente in tutta la sua vitalità, non limitata nemmeno solo all'oggi, ma proiettata nel futuro.
        La memoria biblica quindi ha tutta una sua pregnanza di dinamicità innovativa: è volontà creativa di un futuro, che si esperimenti nel presente, ma un presente che è attuazione del passato: sono le tre dimensioni temporali dell'uomo, che si "unificano" in analogia allo "eterno di Dio".
        La dimenticanza, invece, è volontà di annullamento del passato e della sua vitalità.
        Risulta quindi evidente che la memoria biblica non è semplice commemorazione o evocazione del passato, come un volgersi dietro mentale e perdersi nostalgicamente o sentimentalmente in esso. E' piuttosto un profondo e appassionato impegno di attività spirituale evocativa del passato, con un legame tutt'ora esistente con esso, e con una forza operativa, mirante a trasferire il passato nel presente, in cui si costruisce già il futuro (Cfr Zino e Molok Pagg 103 ss).
        La storia dell'uomo pertanto diventa storia di salvezza, attraverso la memoria biblica, che non solo ricorda ma attualizza l'intervento salvifico di Dio. L'uomo, dimenticando Dio e il suo Amore, col suo "non-ricordo", vanifica, annulla il piano salvifico di Dio, cadendo miseramente nell'infelicità.
        In questa situazione però, trovandosi egli in difficoltà, gli ritorna il ricordo, che diventa nostalgia di Dio; se, in forza di questa, giunge al pentimento, il "non-ricordo" si sposta dalla parte di Dio, col perdono.
        Da ciò si comprende che, nella dinamica della memoria, accanto al ricordo fattivo, trova posto anche il "non-ricordo", anch'esso con una sua efficacia: il ricordo è, effettivamente, una realtà tanto efficace, che ha potere di far rivivere un fatto o una persona entrata nella relazione di "memoria".
        Quindi i personaggi della relazione, costituita dal ricordo, sono due: Dio e l'uomo. E punto d'incontro è la storia, come campo di azione di Dio e dell'uomo. Essi sono interessati alla storia. Dio, perché è creatore e salvatore. L'uomo, perché vive nel tempo e nello spazio, come essere situato, legato alle vicende temporali, che costituiscono il tessuto connettivo della sua vita.
        Il ricordo per Dio è espressione del suo amore preveniente, totale, gratuito, incondizionato, fedele per la sua creatura. Per l'uomo è il passato, fatto di avvenimenti, in cui ha potuto esperimentare una relazione tra eventi e salvezza.
        Il rifarsi a quegli avvenimenti "mirabilia Dei" è ri-scoprire, ri-prendere, ristabilire, ri-attualizzare, ri-gustare, con un senso di ebrezza, tale relazione esistenziale, tra eventi e salvezza: annunzio della salvezza gioiosa, che si realizza nel farne memoria.
        Una memoria, conseguentemente, che porta a cambiare vita, dallo stile del mondo allo stile di Dio, a meno che il ricordo non resti annebbiato dall'esaltazione del presente (stile del mondo), per cui diventa "inefficace".
        Nella storia della salvezza c'è stata una esperienza fondamentale per Israele: l'alleanza con Dio; la memoria di tale esperienza è esigenza di fedeltà; la legge, che ricorda questa esigenza, è memoria dell'alleanza. Al ricordo dell'alleanza è unito quello dei "mirabilia Dei", che si trasforma, da parte del popolo di Dio, in azione di grazia e in preghiera.

        Dal desiderio di tener vivo il ricordo dell'alleanza nasce il memoriale liturgico, che meriterebbe un approfondimento a parte.
        L'alleanza conclusa tra Jahvé e il suo popolo sull'Oreb, deve continuare nel corso dei secoli, anche col nuovo popolo di Dio, che deve sentirsi sempre interpellato da Dio, come se si trovasse ai piedi del monte (Cfr Dt 26,16-19 l'oggi di Dio).
        La legge è dono di Jahvè, legata strettamente all'alleanza. La sua osservanza, espressa nei termini: impararla, custodirla, metterla in pratica, è la risposta ai benefici di Dio, che mettono il popolo in un ambito divino.
        Le "dieci parole" sono gli imperativi che esprimono la volontà del Signore dell'alleanza: Dio liberatore, salvatore, Dio della storia (Dt 5,6; Es 20,2).
        La legge pertanto non è puro codice giuridico di vita sociale, ma è una manifestazione dell'amore di Dio, cui deve corrispondere la risposta dell'uomo, altrettanto amorosa al Dio dell'alleanza, con un riconoscimento vivo e profondo della sua azione salvifica.
        La disobbedienza, di conseguenza, si traduce in una ribellione contro la benevolenza divina e in un vile tradimento della sua alleanza.
        I profeti bolleranno la ribellione del popolo eletto contro Jahvè, denunciando spesso anche l'infedeltà degli altri popoli. Essendo però diversa la relazione tra Dio e il popolo eletto, rispetto a quella tra Dio e i paesi stranieri, anche la gravità della ribellione sarà diversa.
        La ribellione di Israele è totale, senza attenuanti, perché tutto il suo cuore, la sua vita, i suoi pensieri sono corrotti (Is.1,2-6). Questa infedeltà è tanto più grave, da poterla paragonare a quella del figlio amato contro il padre, della moglie contro il marito, della vigna contro il padrone, come i profeti aiuteranno a "visualizzare".
        Tutti i profeti, nell'imminenza o nel ricordo della prova, lasciano trasparire angoscia, tristezza, dolori come determinazione necessaria della giustizia lesa di Jahvè, unitamente a motivi di speranza, nelle situazioni disperate, per aprire a prospettive e promesse di una restaurazione futura.
        In tutto il V.T. si può cogliere costantemente l'immagine di un Dio che condanna, castiga, non per punire individui e popolo infedeli, ma per purificarli e sollecitarli alla conversione.
        Questo concetto è maggiormente evidenziato nel popolo dalla concezione profetica del "resto" di Israele. L'idea del "resto", se da una parte ricorda l'effetto negativo della condanna, dall'altra proclama l'aspetto positivo per coloro che, ritornando alla fedeltà, riceveranno la benedizione di Jahvè, e saranno chiamati a partecipare alla sua gloria.
        Successivamente, soprattutto con Geremia ed anche per Ezechiele, il giudizio di Dio renderà possibile una nuova e stabile alleanza (Gr 31,33-34; Ez 37,414).
        In sintesi possiamo dire che il profeta del V.T. è il predicatore della Parola: chiamato da Dio è uno che mette in guardia, rimprovera, esorta, consola, insegna e fa da pastore; legato solo a Dio, è l'unico ad essere libero.
        Con la scomparsa dell'istituzione del profetismo, non viene dimenticato l'insegnamento profetico sull'èra messianica, sulla liberazione e il rinnovamento del popolo eletto e le sue intuizioni, per cui resta viva l'attesa dell'èra messianica.

        Pertanto, l'alleanza-pace della preistoria del mondo, l'alleanza-vocazione di Abramo, l'alleanza-impegno del Sinai, con Gesù diviene amicizia (Gv 15,1415), anche se la fecondità dei tralci comunicanti con l'unica vite (Gv 15,1-2) dovrà attendere, per essere rinvigorita, il sacrificio cruento dell'agnello perfetto, dalle cui ferite germoglieranno il sangue e l'acqua della redenzione (Gv 19,33-36).
        Ecco sintetizzato il significato della attesa messianica suscitata dal profetismo: in forza di questa attesa, Gesù stesso sarà acclamato profeta, per merito della sua parola efficace e delle sue opere di potenza (21,11.16; Gv 4,19; 9,17). In Le 24,19 troviamo: "Le vicende di Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parola, davanti a Dio e a tutto il popolo".
        Lo stesso Gesù, in due occasioni, ebbe modo di attribuirsene personalmente il titolo di profeta, nel discorso di Nazareth (Mt 13,53-57; Mc - 6,1-6; Lc 4,16- 24) e nel lamento su Gerusalemme (Mt 23,37; Lc 13,3334). Egli stesso viene così a puntualizzare la unità dello spirito profetico, che lega Lui ai profeti precedenti, e inaugura i tempi messianici.
        Nel Cristo l'alleanza diviene veramente l'espressione dell'amore incondizionato e gratuito di Dio, che culmina nella passione e morte del suo Figlio (Ef 5,2) e contemporaneamente la risposta massima dell'uomo che, nell'umanità di Gesù, compie consapevolmente il sacrificio capace di far ritornare il creato all'amicizia divina.
        Il Cristo è così la Pasqua eterna che "morendo ha distrutto la morte e risorgendo ci hà ridonato la vita". Come l'alleanza del Sinai era venuta a concludere e a coronare la Pasqua dell'Esodo, così la nuova alleanza in Cristo viene a concludere e coronare la nuova Pasqua, in cui si compie anche il
        passaggio dell'intera umanità dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio (Cfr Gv 13,1.36; 14,3.28).

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