GERARDO DE PAOLA - ZINO e MOLOK - Zino scopre: a) «il Cristiano = ape di Dio» b) «la chiesa materiale = arnia del Popolo di Dio»
Zino scopre: a) «il Cristiano = ape di Dio»
  b) «la chiesa materiale = arnia del Popolo di Dio».

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        È in questa dimensione umana, anche solo laicale, dentro la vita ordinaria, che bisogna riscoprire la spinta beatificante, che apra alla «felicità dell'essere con... per... ».
        Il cristiano a sua volta, partendo da questa dimensione nella e con la comunità, può diventare «segno» di come si faccia ad essere «più felici», vivendo le Beatitudini evangeliche nell'ordinarietà esistenziale. Egli riesce a dare così una risposta a tutte le aspettative dell'uomo, non solo a quelle corrispondenti ai «momenti deboli», ma soprattutto a quelli «creativi» della vita: cultura, socialità, politica, famiglia, lavoro, commercio, denaro, sesso, potere, solidarietà...
        In tal modo il cristiano diventa valido mediatore tra l'annuncio parlato e la realtà da trasformare in base all'annuncio, divenendo egli stesso la dimostrazione concreta, il «testimone vivente» del Vangelo, nel dinamismo coinvolgente della Risurrezione.
        Interpretando profeticamente i fatti della vita, egli porta all'attenzione della comunità le cose del mondo, per diventare con la chiesa tutta «segno» dell'escatologia che si fa storia. È il mondo il destinatario di questo annuncio, questo mondo, con questa cultura, carico sia pure dei suoi peccati, eppure tanto «amato da Dio».
        La Chiesa, sul modello eucaristico, è la «vita del mondo», attraverso le molteplici forme del suo servizio, per attualizzare nell'oggi la «croce di Cristo... l'icona luminosa dell'amore di Dio» verso l'umanità.
        Il mondo, attraverso questo segno della Chiesa, dovrebbe coglierne l'annunzio, per «respirare» ovunque la presenza misteriosa di questo Dio, e gustarne l'ebbrezza della vicinanza nel cammino della storia.
        Volendo visualizzare questa missione affidata da Cristo alla Chiesa, potremmo ricorrere all'aforisma di Bacone nel distinguere gli Empirici dai Razionali, evidenziando che l'azione della chiesa nel mondo, può paragonarsi a quella dell'ape regina che, nella società monoginica delle api, organizza, guida e feconda il lavoro delle api operaie, unificandolo e sintetizzandolo nel processo di trasformazione del nettare, raccolto tenacemente da milioni e milioni di fiori, in quel delizioso alimento dell'uomo, che è il miele.
        Questa meravigliosa e originale azione delle api può considerarsi un sorprendente «connubio» in natura tra l'attività delle formiche e l'abilità dei ragni, che non è una semplice «addizione» dell'una all'altra, ma «fusione» delle due in perfetta simbiosi.
        Le api infatti hanno l'industriosità e la laboriosità delle formiche, ma non si limitano a raccogliere e ad immagazzinare materiale, in quanto lo trasformano instancabilmente, ma hanno pure la tenace abilità dei ragni, nel «tessere» stupefacenti tele, con una particolare sostanza emessa dal corpo. Anche nei confronti di questi c'è una differenza: il miele prodotto dalle api non deriva dal loro proprio corpo, ma è il risultato di una laboriosa trasformazione e digestione.
        L'uomo, nel suo agire, deve modellarsi alle api che, al dire di P. Rossi, «... non sono affatto il simbolo di una mente vuota o di un recipiente, ma della capacità che ha la mente di trasformare e digerire i dati dell'esperienza, di essere cioè una mente critica»1.
        Si sfugge così alla unilateralità sia degli empirici che dei razionali, definiti da F. Bacone con estrema concisione, i primi come «accumulatori e consumatori di fatti», simili alle formiche, i secondi come «elaboratori di teorie», ricavate solo dall'interno della mente, simili ai ragni: «Empirici, formicae more, cogerunt tantum et utuntur; Rationales, aranearum more, telas ex se conficiunt ».
        P. Rossi nel testo citato, a pagina 105 e ss., sulla scorta di Bacone, qualifica così i seguaci della setta degli empirici e dei razionali, sintetizzando alcune caratteristiche fondamentali.

        «Elenco di cose che gli empirici sono e fanno:

        1) si limitano, come formiche, a raccogliere ed accumulare fatti;

        ____________________________________ 1 Paolo Rossi, «I ragni e le formiche», Ed. Il Mulino, 1986, pag. 110. 2) non si preoccupano della digestione o trasformazione, da parte dell'intelletto, del materiale non selezionato che hanno raccolto;

        3) si abbandonano ai frutti dell'esperienza, esperimentano in modo stupido e cieco, traggono conclusioni sulla base del casuale prodursi dei fatti;

        4) sulla base di pochi esperimenti (a volte di un solo esperimento) costruiscono, come nel caso degli alchimisti, sistemi chiusi e chimerici dell'apparenza inconfutabile;

        5) si accontentano in ogni caso di una mera palpano, si comportano come uomini al buio, che cercano a tentoni una strada; non si preoccupano di accendere alcuna luce, alternano l'inazione a forme di frenetica attività;

        6) hanno la spiccata tendenza ad allungare le mani verso ciò che appare immediatamente utile e non si preoccupano della verità;

        7) giungono ad opinioni strane e mostruose;

        8) manifestano opposizione e odio verso gli esponenti della setta opposta dei filosofi razionali.

        ...Alcune cose che i razionali sono e fanno:

        1) vivono e amano vivere nelle celle dei conventi o nel chiuso di uno studio;

        2) non amano né la storia naturale né la storia e si affidano ai testi di pochi autori;

        3) non leggono molti libri;

        4) non compiono mai esperimenti;

        5) sono simili ai sofisti;

        6) hanno spirito acuto, ma la loro mente lavora solo su se stessa;

        7) pongono instancabilmente questioni sottili, che ne generano senza posa altre, e godono molto di questo;

        8) si affidano a principi sottratti alla critica e concepiti come intoccabili;

        9) manifestano antipatia verso la setta degli empirici, anche se taluni di essi hanno l'ambizione di apparire intelligenti sperimentatori».

        Un elenco abbastanza esauriente, che permette a ciascuno la scelta di campo, a meno che non si avverta l'esigenza di sintetizzare i pregi degli uni e degli altri.
        Il cristiano particolarmente, per una sua specifica vocazione, se vuol vivere in coerenza la sua adesione di fede a Cristo, non può modellarsi solo alle formiche, unendosi alla schiera anonima di quelli che si limitano a «fare il bene»; nemmeno può conformarsi solamente ai ragni, contentandosi di produrre «ragnatele» di giochi intellettualistici; deve invece ispirarsi alle api, per offrire al mondo, personalmente e comunitariamente, l'ebbrezza della melliflua esperienza di «fare la verità», con l'annuncio di una parola incarnata nella vita, a testimonianza dell'unica «Parola» che fa vivere.
        La nostra relazione con Dio, che continuamente stimola ad aprirci al Suo Regno (= la sua azione salvifica, il suo amore), resta sempre una realtà misteriosa, cui si accede non tanto per le catalogazioni, cui siamo abituati, quanto per un cammino esistenziale, che ci aiuti a scoprirci figli dello stesso Padre, e conseguentemente fratelli.
        In questo comune pellegrinaggio dell'umanità verso il Regno di Dio, il cristiano, facendo la Verità alla luce della Parola, esperimenti tutta la gioia di sentirsi «amato e salvato da Dio», per cui si trova coinvolto ad amare, di quello stesso amore, e Dio e il prossimo. Tutti siamo salvati dall'amore gratuito di Dio e l'esperienza di questo amore «conoscere Dio», diventa sorgente, appello e misura dell'amore verso tutta l'umanità.
        La metafora di Paolo Rossi può aiutare a capire che, come seguaci di Cristo, siamo continuamente interpellati a svolgere questo ruolo nel mondo, in tutte le espressioni della nostra vita, anche le più umili, che possono sembrare insignificanti, perché la «Parola di Vita» possa rimbalzare dappertutto e con tutti i mezzi.
        Pertanto, anche la semplice ricostruzione di una chiesa materiale, arnia del Popolo di Dio e simbolo della «Chiesa viva», realizzata con la tenace industriosità delle «formiche», caricata dell'originale valentia dei «ragni», e sublimata dalla trasformazione dolcificante delle «api», attraverso un vivo e profondo significato di «fede», nella prospettiva della «croce», può offrire al mondo, dissipato dall'attuale cultura dell'effimero, ed alle generazioni future la «melliflua testimonianza» di vita, incentrata sul «Vangelo di Cristo», come segno di un amore «crocifiggente» verso Dio e verso gli uomini.
        È questo l'esempio lasciato da Cristo ai suoi discepoli: Egli giunge alla gloria del Regno, attraverso la fedeltà al volere del Padre, e attraverso la fedeltà agli uomini, con una vita suggellata dalla croce.
        È questo il «miele» che Cristo, attraverso la nostra mediazione, vuol continuare ad offrire agli uomini, come «segno» del fuoco dell'amore divino, che deve purificare la terra da ogni scoria di peccato.
        L'ape regina poi, la Chiesa, ha la missione di «fecondare», sotto l'azione dello Spirito, l'incessante lavoro di «api operaie e fuchi», perché la Gerusalemme «terrestre», sia continuamente proiettata verso quella «celeste», la definitiva.
        Tutto questo può essere letto nella logica della fede, per cui la ricostruzione della chiesa, con tanti sacrifici del «resto», non poteva essere di gradimento a tutti coloro che, non avendo contribuito all'opera, la sentivano come un rimprovero alla loro indifferenza o alla loro ostilità.

        L'inaugurazione, che ha fatto esplodere il comprensibile entusiasmo dei pochi, è snobbata dai molti con «ostentata» indifferenza e con «malcelato» ostruzionismo, che rasenta spesso l'ostilità.
        Anche il «perbenismo» di tanti amministratori di ogni colore politico, sia prima che dopo il sisma '80, è stato «istrionicamente» caratterizzato da «ostruzionismo» o semplice «indifferenza», mai scalfita dai reiterati appelli, in privato e in pubblico, alla collaborazione, cui seguivano soltanto velleitarie promesse, con meridiana ipocrisia, mai tradita per svariati lustri.
        Basti ricordare che, per aver offerto al Comune la possibilità di sistemare l'orologio da torre sul campanile, Zino ha dovuto sudare sette camicie, per avere una... elemosina, che copriva, solo in parte, le spese sostenute.
        Un'altra prova «spettacolarmente folgorante» di questa indifferenza «amministrativa» per la parte storica del paese, in cui peraltro l'annosa quercia laterinese conserva ancora le sue radici secolari, è stata offerta dal «terremoto», telecomandato dai vari personaggi, direbbe Livio: «...qua quemque suorum usuum causae ferrent = dove portavano ciascuno i motivi delle proprie... esigenze» (Liv. 6,25,9).
        Tanti sedicenti benefattori, ispirandosi a questo motto, non si sono vergognati di «condannare» la comune Mamma, «cuore e cervello» di Caterina, a vivere in una «nauseabonda pattumiera», ricettacolo d'infezione per tutta la famiglia.
        La persistente ingratitudine di tanti figli «degeneri» è stata letteralmente «sferzata a sangue» da Zino, in privato e in pubblico, a voce e per iscritto, senza mai prestarsi a «strumentalizzazioni» politiche o elettoralistiche, provenienti da destra o da sinistra, da maggioranza o da minoranza, da notabili o da uomini di cultura, da avvocatoni o da avvocatucoli...
        Purtroppo l'ostinata denuncia è stata ridotta a «voce nel deserto», sia da quelli cui era diretta, sia, sorprendentemente, da quelli a favore dei quali era «tuonata».
        Se è lecito paragonare le piccole alle grandi cose, Zino, nel suo «infinitesimo», ha fatto la stessa esperienza di Mosè. Anch'egli ha sofferto per l'ostinazione dei novelli Faraoni, dei potenti, o comunque di coloro che hanno avuto interessi da difendere, ma ancor più profondamente ha sofferto per la «disattenzione» della gente, e, soprattutto, degli stessi praticanti, incompreso tante volte anche da coloro, in favore dei quali prende la parola e si sacrifica... È la sorte di ogni profeta!
        Gran cosa è il donarsi, ma non lasciarsi distruggere dal rifiuto del proprio dono è cosa maggiore.
        Il fuoco invocato dai figli del tuono «che non sapevano di quale spirito fossero» sui Samaritani, per il loro rifiuto, Gesù permetterà che cada su se stesso, lasciandosi «bruciare la vita», per la liberazione di tutti.
        Ogni discepolo deve anche lui continuare a «lasciarsi bruciare la vita», perché la liberazione portata da Cristo possa raggiungere tutti, in quanto Egli è venuto «non a perdere ma a salvare».
        È una Parola questa da capire e da vivere in tutta la sua radicalità, perché sia annunziata con autenticità. Il servizio profetico va realizzato con franchezza, con entusiasmo, con audacia, con totale libertà, anche se la Parola di Dio

        — «è una spada che taglia e divide» (Eb. 4,12);

        — «è un martello che frantuma la roccia» (Ger. 23,29);

        — «è un fuoco che avvampa» e brucia le false sicurezze umane; (Cfr. Ger. 20,9 ss.);

        — «è un turbine che spazza via» le povere argomentazioni umane (Cfr. Gb. 21,18);

        — anche se può apparire «stoltezza e follia» (I Cor. 1).

        In conseguenza di ciò, come Gesù, lasciando la Galilea dei primi successi, «si diresse decisamente (= rendendo dura la faccia) verso Gerusalemme» (Le. 9,51), anche il discepolo deve «irrigidire il volto» come il Maestro, nel dirigersi verso Gerusalemme, per vivere la sequela:

        — nell'insicurezza, nel distacco, nella povertà: «le volpi hanno le loro tane... ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Le. 9,58);

        — nella radicalità di rottura con ogni legame: «lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va...» (Le. 9,60);

        — nell'accettazione del primato di Dio su tutti gli affetti terreni: «nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il Regno di Dio» (Le. 9,62).

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1 Paolo Rossi, «I ragni e le formiche», Ed. Il Mulino, 1986, pag. 110.

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