GERARDO DE PAOLA - ZINO e MOLOK - Mulini ad acqua

Mulini ad acqua.
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        La famiglia mastro Laterizio, non ricca ma benestante, oltre alla fornace possedeva tre mulini ad acqua in batteria e un forno dei più grandi all'epoca.
        Nell'antichità erano in uso mulini azionati da forza muscolare, che solo successivamente divennero idraulici. I mulini idraulici si perfezionarono a partire dal II secolo: la mola era azionata da un albero, mosso a sua volta da una coppia di ruote a pale con asse orizzontale, che sfruttavano come forza motrice i corsi d'acqua veloci.
        Non disponendo la nostra zona di fiumi di grande portata, si era provveduto ad utilizzare l'acqua di un vallone (alimentato da due sorgenti principali: «Grattaponi e Forme»), che si faceva confluire, attraverso un canale chiamato dialettalmente «palatôn'e», in un grande invaso, chiamato «pescar'a», da pescaia = sbarramento di un fiume. Zino ha appreso dai genitori che in questo invaso aveva trovato la morte un giovane appartenente alla famiglia Miliano: forse facendo il bagno alla fine del canale, affondò nella melma dell'invaso.
        A serbatoio pieno, per dare inizio alla lavorazione, si apriva un chiusino che permetteva all'acqua di attraversare un canale di caduta, per uscire, attraverso un grande tubo sistemato alla base, e battere con violenza contro le pale della coppia di ruote del mulino che, girando vorticosamente, trasmettevano mediante l'albero centrale, la forza motrice alla macina mobile. L'energia cinetica sviluppata dipendeva in buona parte dall'altezza di caduta dell'acqua, per cui il serbatoio si costruiva quanto più in alto possibile.
        Mastro Laterizio, con la costruzione di tre mulini in batteria, intelligentemente, aveva fatto in modo che la stessa acqua, passando dall'uno all'altro, li azionasse contemporaneamente. È logico che l'acqua, quanto più si allontanava dal canale di caduta, diminuiva di velocità e, conseguentemente, di energia cinetica, per cui al primo mulino si poteva avere la farina migliore, al secondo quella meno fine e al terzo mancime per gli animali.
        Il mulino era costituito generalmente dall'organo macinante, dal suo supporto, dall'asse motore, da una tramoggia in cui si versava il materiale da macinare, da un involucro esterno, che poteva essere o no munito di organi staccianti per il prodotto macinato.
        Nei mulini a palmenti la macinazione era compiuta da due mole orizzontali affacciate, di cui una fissa, detta dormiente (per lo più la inferiore, fissata alla incastellatura della macchina) e l'altra mobile, mossa da un albero verticale.
        Il materiale introdotto, dalla tramoggia, al centro della mola superiore, era costretto a passare attraverso lo spazio lasciato tra le due mole, veniva macinato per pressione e sfregamento e si scaricava poi alla periferia. La distanza fra le due mole, da cui dipendeva il grado di finezza della farina, era regolata da un volantino, che faceva spostare il perno di spinta portante l'asse della mola mobile.
        Per costringere il materiale a compiere un lungo percorso, fra i due palmenti prima di scaricarsi, la superficie di questi era munita di scanalature tracciate, secondo considerazioni teoriche e pratiche, ad es. secondo spirali logaritmiche. Essendo, per lo più, le mole di pietra arenaria o quarzite, le scanalature si logoravano facilmente, per cui venivano periodicamente reincise con la martellina; l'operazione era chiamata martellinatura.
        Inoltre le mole dovevano essere accuratamente bilanciate, per evitare usura di macinazione fra di loro, durante il moto. Per facilitare maggiormente il movimento della mola mobile, la dormiente si teneva abitualmente bagnata, per cui anche la farina usciva più fresca, rispetto alla lavorazione a secco, e di migliore qualità, come si poteva notare soprattutto nella pasta a mano.
        I palmenti, con grandezza variabile da 500 a 1500 mm. di diametro, funzionavano a 120-250 giri al minuto, con produzione da 1000 a 1250 Kg./ora.

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