Vallata - notiziario vallatese -

 In copertina
Quadro in sala consiglio 
Opera del pittore Alfonso Cipollini in arte "Irpino"
-1990 raffigurante i momenti più salienti della storia locale in ordine cronologico:-

1)     Lupo : origine irpina di Vallata;
2)     S.P.Q.R. e mascherone in pietra: origine romana di Vallata;
3)     Rivisitazione storica della battaglia del 6/5/1496 etra Vallatesi e la truppa del Gonzaga, Marchese di Mantova;
4)     Maestoso portale in pietra della chiesa madre del 1568;
5)     Volto del Beato Padre Vito Michele Di Netta, apostolo delle Calabrie e prossimo alla Santità;
6)     Stemma di Vallata;
7)     Chiesa del "Murticidd" con torre dell' orologio;
8)     Monumento alla Vittoria (4.11.1918) nella piazza centrale;
9)     Panorama di Vallata.

                Vallata Notizie     - Indice

1-   Editoriale Operato Amministrativo 1995-1999
2-   Il Patto territoriale della Baronia
3-   Sviluppo turistico della Baronia
4-   La "Città Osca" di Nicola Pagliara
5-   Uno sguardo al passato. -- L’amministrazione Netti di G.V. Palumbo
6-   V° Centenario della Battaglia di Chianchione     — Fonti storiche intorno alla Battaglia di Vallata con particolare riferimento a Paolo Giovio - di Maria Gabriella Cruciani
    — Il Regno di Napoli XV e XV1 secolo: alcuni aspetti economici e sociali, di Valdo D’Arienzo
    — La Discesa di Carlo VIII e la crisi militare italiana, di Massimo Mazzetti
    — La Battaglia di Vallata, di Francesco Bara
    — La Battaglia di Vallata, di Armando Colicchio.  7-   La rappresentazione teatrale del V° Centenario di Mario Parente
8-   Le manifestazioni scaturite dall’indotto V° Centenario
9-   Il Museo Civico 10- Società e cultura
    — Federalismo: Proposta provocatoria di un amministratore locale
    — Contributi alle scuole superiori
    — Attività ricreative e sportive
    — Varie

    Anche il secondo mandato amministrativo è arrivato alla sua scadenza naturale.
    Questi quattro anni ci hanno permesso di completare dei progetti ma innanzi tutto ci hanno dato la possibilità di programmare il futuro sviluppo di Vallata su direttrici ben precise:
    1) attivazione dell’area P.I.P. 
    2) sfruttamento degli impianti sportivi quale volano di sviluppo turistico impostato in egual misura sulla concretizzazione del Museo Civico "Irpino" e della relativa manifestazione annuale di arte contemporanea internazionale. 
    3) Vallata centro intercomunale del terziario (commercio e attività di ristorazione). 
    4) Centro Sanitario quale sede del distretto n. 7 con relativa materializzazione della struttura.
    Già nel 1995 lamentavo una scarsa sensibilizzazione della gente all’attività politico amministrativa, oggi a maggior ragione si evidenzia quasi un distacco fra la gestione della "res publica" e la gente. 
    Questo comportamento non fa certo bene alla democrazia, poichè la parola stessa è sinonimo di partecipazione e coinvolgimento; ma in modo particolare questo disinteresse può generare un senso di assuefazione per cui ci si adagia su "allori" fittizi.
    Chi opera, invece, ha bisogno di essere sempre stimolato a fare di più e meglio.
    Questi quattro anni certo non sono stati facili visto che sono coincisi con gli anni del risanamento economico nazionale che ci ha permesso l’entrata in EUROPA.
    C’è stato quindi una contrazione dei contributi statali, regionali, provinciali e una conseguente diminuzione degli investimenti, a cui però si è cercato di far fronte utilizzando al meglio le risorse proprie dell’Ente.
    Certo, ragione avrebbe voluto che si andassero a rivedere alcune tariffe per aumentare le entrate, ma cercando di contenere la spesa si è evitato di aumentare le imposte.
    Ridurre ancora di più le spese sarà impossibile se il costo di smaltimento dei RR.SS.UU. continuerà a gravitare a causa delle continue chiusure ed aperture della discarica di Ariano Irpino.
    Se non ci saranno provvedimenti radicali sicuramente la spesa per lo smaltimento dei rifiuti sarà l’unica spesa che il comune potrà fare con costi aggiuntivi per gli utenti.
    L’operato amministrativo di questi quattro anni non ha per nulla trascurato la possibilità di accedere a finanziamenti aggiuntivi, attivandosi per canali politici provinciali, regionali e nazionali per cercare di completare e realizzare quelle opere infrastrutturali che sono proprie di un paese civile.

    Rendere conto del proprio operato, dove per proprio intendo l’operato dell’intera compagine amministrativa anche di quella minoranza che ha permesso per più di una volta che l’attività consiliare continuasse; dar conto non vuoi dire solo incensarsi per le cose fatte ma anche dolersi di quelle cose che si sarebbero volute fare e che per motivi non dipendenti da noi non si è riusciti a realizzare.
Il neo di questa amministrazione, forse l’unico, è proprio quello di non essere riusciti a far finanziare il progetto di riammodernamento totale della rete fognaria e l’impianto di depurazione per l’intero centro urbano; non ci diamo però per vinti, perchè anche in questi giorni stiamo cercando finanziamenti specifici presso il Ministero dell’Ambiente e presso la Regione.
In questi ultimi anni abbiamo fatto rientrare "il terremoto" nell’ordinario pur non perdendo di vista la necessità di richiedere personalmente altri finanziamenti per far fronte ad esigenze specifiche (500 milioni nel 1997, 1.5 miliardi nel 1998); si sta approntando la contabilità definitiva per poter eventualmente destinare i residui al completamento dell’ex scuola elementare da destinare a centro della cultura che conterrà: il Museo, la Biblioteca, Mediateca, una sala polivalente per riunioni-convegni-conferenze.
L’attività amministrativa ha tenuto conto di tutte le esigenze affrontando al momento necessità impellenti e programmando annualmente le attività sul territorio relativa alle infrastrutture, ai servizi e promuovendo attività culturali, sociali, ricreative con l’intento unico di far crescere VALLATA.
    Fiore all’occhiello della passata e dell’attuale amministrazione è l’aver fatto decollare il DISTRETTO SANITARIO a dispetto di chi avrebbe voluto chiuderlo e in più siamo riusciti a far investire la A.S.L. per la costruzione della struttura che diventerà il punto di riferimento della sanità dell’intero territorio della Baronia, visto anche l’importanza che IL PIANO SANITARIO NAZIONALE 1999 - 2001 dà ai DISTRETTI per lo sviluppo della sanità sul territorio.
    Con forza abbiamo voluto il decollo del P.I.P. facendolo rientrare nello sviluppo programmato dei Patti Territoriali e non; cercando anche investitori diversi e tra questi c’è chi a giorni inzierà gli insedianienti industriali essendo già formalizzato l’atto di cessione dell’area. Ma il P.I.P così come è non può bastare e quindi abbiamo provveduto a chiedere il finanziamento per il completamento sia per l’incremento dei lotti sia per l’impianto di depurazione; finanziamento assicuratoci con i fondi strutturali relativi alle zone depresse disponibili già nell’estate 1999 (3.8 miliardi).
    Certo la costruzione degli impianti sportivi e l’attivazione delle manifestazioni culturali legate al museo "Irpino" hanno comportato un grosso impegno da parte dell’amministrazione, così come enorme è stato lo sforzo per far fronte alle esigenze della scuola di ogni ordine e grado; sempre pronti con i problemi delle scuole materne ed elementari; sempre pronti a rispondere ai continui solleciti della scuola media per forniture, sicurezza, computer ecc. Non trascurando in nessun modo la scuola superiore, anzi facendo istituire un nuovo corso di scuola superiore il "ragioneria" che insieme al "liceo" e al "geometra" dovranno preparare i nostri ragazzi al domani; ne abbiamo stimolato la crescita contribuendo alle spese di viaggio per chi viene da fuori Vallata e incentivando lo studio assegnando ogni anno (questo è il quarto anno) borse di studio ai più capaci e meritevoli.
    Per i giovani avremmo voluto fare di più in tennini di occupazione; tempo libero, sport; però guardando quello che è stato fatto possiamo asserire di aver predisposto il futuro a Vallata affinchè offra maggiore possibilità di occupazione.
    Avremmo voluto fare di più; il giudizio della gente ci conforterà sicuramente.

Vallata, 01/02/99
Il Sindaco: Dr. Pasquale Zamarra



Elenco delle opere realizzate, iniziate, cantierabili
1995 - 1999

1) Sistemazione Fontana del Re
2) Sistemazione Vallone d’Annuncia
3) Sistemazione area S. Vito
4) Sistemazione cimitero e via del Tramonto
5) Sistemazione definitiva piazza 5. Bartolomeo e relativa statua
6) Sistemazione via S. Giorgio
7) Costruzione Distretto Sanitario
8) Ricostruzione casette asismiche di Viale Gramsci
9) Costruzione alloggi I.A.C.P. in località Piano di Zona
10) Apertura primo tratto strada Vallata - fondo valle Ufita
11) Inizio lavori costruzione nuovi impianti sportivi località Spannitoio.
12) Inaugurazione impianti sportivi leggeri località Spannitoio
13) Istituzione Museo Civico "Irpino"
14) Completamento e attivazione primo lotto PI.P
15) Urbanizzazione località Casabianchi (luce, acqua, fogna, strada, impianto sportivo)
16) Urbanizzazione Sferracavallo (luce, fogne, strade)
17) Sistemazione centro storico (Piazza di Sopra)
18) Bitumazione strade centro urbano
19) Costruzione nuovi loculi cimiteriali
20) Costruzione traversa Viale Quattro Novembre
21) Sistemazione di parte dei marciapiedi corso Kennedy
22) Illuminazione pubblica viale Gramsci (appaltata per 45 milioni)
23) Illuminazione pubblica centro storico (borgo 5. Antonio, via Fontana, via Matteotti, piazza di Sopra, area "morticello", via Papa Giovanni XXIII, piazza S. Rocco (già appaltata)
24) Sistemazione via Chianchione e piazza Tiglio (180 milioni - gara d’appalto in corso)
25) Sistemazione via Terzo di Mezzo (100 milioni - gara d’appalto in corso)
26) Costruzione acquedotto Vallata - Valloncastello (200 milioni - gara d’appalto in corso)
27) Sistemazione via Chiusano (200 milioni - già appaltata)
28) Sistemazione centro storico (36 milioni - gara d’appalto in corso)
29) Sistemazione Piazza di Sotto (70 milioni - già appaltata)
30) Sistemazione greto fiume Ufita località Sferracavallo (1 miliardo)
31) Acquedotto P.I.P. - Maggiano - 5. Lucia (800 milioni - gara d’appalto in corso)
32) Fognatura via Maggiano e impianto di depurazione (350 milioni)
33) Convenzione con il Comune di Guardia dei L. per fornitura acqua località Terzo di Mezzo
34) Attuazione progetto minori a rischio.


Patto Territoriale
BARONIA

a cura dell'Arch. Francesco Iacoviello


COMUNI
1 - ARIANO I.
2 - FLUMERI
3 - SAN SOSSIO B.
4 - S. NICOLA B.
5 - CASTEL B.
6 - VALLESACCARDA
7 - TREVICO
8 - CARIFE
9 - STURNO
10 - VALLATA
11 - GUARDIAL.
12 - LACEDONIA
13 - MONTAGUTO
14 - VILLANOVA
15 - SAVIGNANO
16 - SCAMPITELLA
17 - GRECI
18 - ZUNGOLI
19 - FRIGENTO
20 - AQUILONIA

ENTI SOVRACOMUNALE: "COMUNITÀ MONTANA DELL’URTA’ "CONSORZIO A.S.I. AVELLINO"
AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE AVELLINO


" La pubblicazione del Fatto Territoriale Baronia è dovuta al fatto che parecchi cittadini ci sottopongono la solita domanda: che cos’è il "Patto Territoriale"?A noi sembra che il concetto del suo significato sia solo prerogativa degli addetti ai lavori. E questo è la morte del Patto stesso già prima che esso nasca. Però noi, insieme agli amministratori della Baronia, in primis l’avv. Libero Orlandella che è il maggiore artefice e promotore, siamo fermamente convinti della opportunità, della necessità e dell’ottima qualità del Patto Territoriale. Questo individua il suo fulcro appunto nel coinvolgimento di tulle le componenti socio - economiche - culturali esistenti sui territorio..
Comunque per una migliore comprensione del progetto ci facciamo accompagnare dall’architetto Francesco Iacoviello, tecnico incaricato per la promozione del Patto.
            1. Premessa di intenti
         Su iniziativa di un gruppo di sindaci della Baronia e del Presidente della Comunità Montana dell’Ufita, di concerto con le rappresentanze sociali e imprenditoriali dell’area, è stata avviata da circa due anni una profonda azione di sensibilizzazione e animazione per definire una strategia di sviluppo concertata fra tutti i soggetti interessati in un area come quella della Baronia, dove si registrano contestualmente ritardi di sviluppo e buone suscettività connesse alle potenzialità delle risorse endogene. Da questa iniziativa ne e scaturito un lungo, costante e produttivo dibattito che ha portato all’assunzione degli attuali impegni di programma. Gli Enti locali, le istituzioni, gli imprenditori e i rappresentanti di categoria, che hanno via via aderito alle iniziative, hanno inteso sottoscrivere il "Patto Territoriale, della Baronia", individuando nello stesso uno strumento strategico di programmazione e di intervento innovativo, mirante al recupero e allo sviluppo delle risorse locali ampiamente sottoutilizzate. 

        Considerata la realtà economico-sociale dell’area, i vincoli e le potenzialità di sviluppo, appreso descritte, promotori dell’iniziativa Patto della Baronia individuano come linea strategica un organico progetto integrato di sviluppo fondato sull’ammodernamento e creazione di PMI (piccola media industria) e sulla riscoperta e promozione del territorio. Il Patto armonizza cos’i in un complesso omogeneo una pluralità di iniziative multisettoriali (PMI. servizi avanzati, formazione e turismo rurale). collegate ed interdipendenti, che consistono in progetti rispondenti alle aspettative "realizzabili" nella comunità locale, ma al tempo stesso trasferibili in un’area diversa con analoghe caratteristiche. Ne scaturiscono progetti produttivi di impresa già definiti o in via di definizione, tali da poter contemporaneamente attingere a fondi della Regione Campania e a lutti gli altri canali di finanziamento nazionali e/o comunitari (Fondi Strutturali Europei). 

        La consapevolezza che ogni aspetto della realtà locale è fortemente connesso l’uno all'altro. in un rapporto di causa-effetto, impone la necessità di pensare in modo organico Piani e Programmi, superando le logiche settoriali di pianificazione dello sviluppo locale, dimostratesi inadeguate. Ciò vale tanto più in un area come quella della Baronia, che presenta notevoli potenzialità di sviluppo legate sia alla posizione baricentrica rispetto a due grossi agglomerati urbani come Napoli e Bari, e sia per la sottoutilizzazione di infrastrutture create dagli interventi previsti nell’ambito della ricostruzione post-terremoto. 

        Lo sviluppo così improntato privilegia l’utilizzo delle risorse locali, ricercando le condizioni favorevoli per cui "all’interno, dell’area Baronia" possano prodursi energie capaci di attivare tutti quegli elementi che concorrono allo sviluppo. 

        I ritardi, l’assenza di coordinamento delle azioni e degli interventi; la lentezza degli iter burocratici che hanno comportato gravi danni al patrimonio demografico, paesaggistico e monumentale; l’assenza di adeguate infrastrutture di trasporto e di servizi alle attività primarie; il mancato decollo di un’offerta turistico-ricreativa per l’assenza di azioni di promozione oltre il suo ambito territoriale e l’assenza di sinergie tra Regione. Provincia e Comuni, hanno comportato la disgregazione di molti fattori e componenti essenziali alla crescita e allo sviluppo. 

        Si è pensato quindi al Patto Territoriale in quanto "rappresenta lo strumento per l’individuazione di un complesso coordinato di interventi di tipo produttivo e promozionale, nonché di quelli infrastrutturali ad essi funzionali, ai quali concorra il "finanziamento pubblico" e che e finalizzato “allo sviluppo integrato dì aree territoriali delimitate a livello sub-regionale, costituendo fondamentale espressione del partnenato sociale". 

        Il contesto di riferimento del Patto Territoriale si presta molto bene all’attivazione di tale processo in quanto al suo interno è possibile riscontrare una potenzialità di sviluppo delle PMI e dell’artigianato tipico, del tessuto produttivo agricolo di qualità, e dell’insieme delle attività a queste connesse, compresi tutti gli aspetti collegati all’offerta turistica e ricreazionale. 

        Come accennato, sono circa due anni che i promotori del Patto portano avanti un’azione di sensibilizzazione rispetto alle problematiche dello sviluppo locale volte a: 

  1.  verificare la reale coincidenza tra le programmazioni pubbliche, la domanda locale di servizi pubblici e privati, in modo da modulare e rendere sinergici tra di loro azioni di sviluppo locale su scala territoriale;
  2. organizzare la domanda di politiche proveniente dai diversi settori e comparii produttivi presenti sull’intero territorio; 
  3. verificare le ipotesi di intervento direttamente con gli operatori pubblici e con gli operatori economici; 
  4. verificare la propensione al rischio e la cultura imprenditoriale sia nel comparto pubblico (necessità di selezionare quegli investimenti che garantiscono effettive ricadute economiche e sociali soprattutto occupazionali) che in quello privato (superamento della logica del finanziamento “pubblico’ avulso da una concreta ipotesi di sviluppo); 
  5. rendere compatibili e sinergiche le azioni programmate nel Patto con gli altri strumenti di sviluppo territoriale (POP 1994-99, LEADER. ecc.). 

L’azione di sensibilizzazione, ha consentito una convergenza degli interessi economici e sociali su una strategia unica di sviluppo dell’economia locale.

         2. La gerarchia degli interessi     

    2.1 Obiettivi e strategie del Patto.

     In relazione alla diagnosi territoriale, alle potenzialità di sviluppo indicate e alla strategia concertata dai promotori con i soggetti che hanno via via aderito, il Patto della Baronia si pone i seguenti obiettivi: 

  1. potenziare le infrastrutture per la localizzazione delle PMI (n.d.r. Piccola Media Industria) industriali, artigiane e agroindustriali e favorire la diffusione di una cultura imprenditoriale nell’area in modo da generare in tutti i settori attualmente operanti nell'economia locale processi di trasferimento di know-how e di tecnologie, orientati: ad un adeguamento delle strutture e dei sistemi produttivi; ad un efficiente razionalizzazione e modernizzazione dei modelli gestionali e organizzativi delle imprese; alla creazione di nuove iniziative imprenditoriali e di nuovi posti di lavoro, soprattutto a favore do giovani; 
  2. attivare meccanismi di sviluppo locale incentrati sulla valorizzazione del patrimonio di risorse naturali, storico-archeologiche e culturali; vale a dire un modello di sviluppo fortemente radicato sul territorio che coinvolga le popolazioni e gli operatori in un processo dinamico e duraturo, finalizzato a migliorare permanentemente le condizioni socio-economiche e occupazionali attraverso una valorizzazione turistica dell’area di riferimento del Patto: 
  3. favorire la creazione di nuove opportunità di sviluppo in agricoltura al fìne di superare la crisi del settore e contenere il processo di abbandono entro limiti compatibili con l’equilibrio territoriale e ambientale.

    La strategia implementata nel Patto per il perseguimento degli obiettivi sopra definiti si basa su un approccio programmatico integrato e multisettoriale che riconduce tutti gli interventi previsti sul territorio ad una visione globale dello sviluppo locale. Uno dei cardini di tale approccio programmatico, su cui il Patto ha posto una grande enfasi e che i sottoscritti hanno condiviso fin dal primo momento, è rappresentato da un’azione di sensibilizzazione rivolta alle popolazioni locali, con il duplice obiettivo di incentivare la partecipazione alle iniziative proposte e di trasmettere una consapevolezza dell’identità del proprio territorio in modo da rinsaldarne i legami con esso e stimolare una maggiore attenzione alle problematiche del suo sviluppo. Particolare attenzione sarà posta alla sensibilizzazione dei giovani al fine di coinvolgerli in nuove iniziative imprenditoriali, in sintonia con il processo di sviluppo attivato dall‘insieme delle azioni previste. 

    Relativa.mente alle attività più direttamente finalizzate alla rivitalizzazione dell'economia locale, il programma del Patto ha previsto un’articolazione degli interventi nei settori che presentano le maggiori potenzialità, così come sono state descritte in precedenza. 

    Un’ azione di sviluppo duratura e concreta sull’area di intervento del Patto Baronia dovrà, quindi, necessariamente incentrarsi sul tessuto delle PMI che, nonostante la situazione congiunturale sfavorevole che ha caratterizzato gli ultimi anni, ha comunque assicurato una sostanziale tenuta dei livelli occupazionali. Questa, se ben articolata e basata su iniziative "spontanee" con forte radicamento territoriale, inquadrata in un disegno strategico, consentirà quella necessaria forza competitiva in grado di approfittare dei possibili sbocchi di mercato che dovrebbero rendersi disponibili con il completamento dell’integrazione europea.
    Alla luce di quanto finora emerso e sulla scorta delle analisi e dell'attività di concertazione svolte a livello locale dai promotori del Patto Baronia si sono individuati gli interventi che assumono priorità per lo sviluppo del territorio, congiuntamente ai ruoli e agli impegni assunti da tutti i soggetti aderenti al patto. L’insieme degli interventi proposti, scaturisce da un'intensa attività di analisi e selezione dei progetti via via presenti all’Ufficio di Coordinamento del Piano, che per questa attività ha usufruito della collaborazione professionale della Romulea s.a.s.  

Gli interventi così selezionati Si collocano in un quadro programmatico integrato, strutturato nelle seguenti quattro misure:

Misura 1: Infrastrutture di supporto alle attività economiche;
Misura 2: Localizzazione di nuove iniziative produttive e iniziative a supporto delle PMI locali;
Misura 3: Sviluppo e qualificazione del turismo rurale dell'artigianato e dell’agricoltura;
Misura 4: Servizi avanzati a supporto degli operatori pubblici, privati e qualificazione delle risorse umane.

  Aree di intervento per infrastrutture primarie
1. Area PII, a valenza sovracomunale - Castel Baronia - l’area deve essere completamente urbanizzata 
2 Area A.S.I.- Valle Ufita - Flumeri completamento delle strutture primarie 
3 Area Polo Artigianale Produttivo e frasvalenza sovracomunale - Flumeri - le aree devono essere completamente urbanizzate
4 Area P.I.P. a valenza sovracomunale - Guardia Lombardi - completamento delle strutture primarie
5 Area P.I.P. a valenza. sovracomunale - Sturno - completamento delle strutture primarie
6 Area P.I.P. a valenza sovracomunale-Vallata - asse di supporto S.S. 91 - località Padula P.I.P.
7 Area P.I.P. a valenza sovracomunale - Carife - asse di supporto alle attività produttive e completamento infrastrutture primarie 
8 Villanova del Battista - PIP. - infrastrutture primarie - l'area deve essere completamente urbanizzata
9 Area P.I.P. a valenza sovracomunale - Ariano Irpino - Camporeale - infrastruttura Area Fiera.




2.2 Descrizione delle Misure programmate nel Patto


Misura 1; Infrastrutture di supporto alle attività economiche;

        Gli interventi in campo infrastrutturale, previsti nel Piano degli investimenti del Patto Baronia perseguono unicamente obiettivi di supporto alle attività economiche nei settori produttivi individuati. In conformità alla Delibera CIPE del 10 maggio 1995, e successive, gli interventi infrastrutturali previsti assorbono risorse limitate (27 miliardi di lire) rispetto agli investimenti direttamente produttivi.

         Le aree di Insediamento Produttivo, riportate nel riquadro, sono localizzate lungo le principali vie di comunicazione dell’area Baronia. Gli interventi infrastrutturale previsti nel Patto sono espressamente funzionali a rendere le “Aree di Insediamento” idonee ad accogliere le iniziative produttive programmate nella successiva Misura 2. Pertanto, gli interventi inclusi nella presente Misura sono indispensabili e complementari sia alle iniziative già in essere, e sia agli investimenti direttamente produttivi previsti dal Patto Baronia. Nel Patto non sono contemplati interventi infrastrutturali connessi al potenziamento della rete urbana primaria, in quanto questi sono già. programmati nell’ambito degli interventi nazionali e comunitari attivati su iniziativa degli Enti Locali.

Misura 2: Localizzazione di nuove iniziative produttive e iniziative a supporto delle PMI locali 

    Con riferimento alle nuove localizzazioni di imprese sul territorio del Patto Baronia, finalizzate a rafforzare il tessuto produttivo locale, si ritiene indispensabile creare le condizioni affinché l'area Baronia possa essere ritenuta appetibile da operatori economici locali e non, interessati a delocalizzare o a diversificare le proprie attività o ad avviare nuove iniziative imprenditoriali in un’ottica di distretto o di integrazione verticale. Ciò è in perfetta sintonia con gli orientamenti della Regione Campania (vedi Conferenza Regionale, Luglio 1997) che individua nel territorio della Baronia un’area di sviluppo pilota per le PML nei vari settori produttivi. Dall’analisi delle prime istanze vagliate dall’Ufficio di Coordinamento del Patto le esigenze più frequenti messe in evidenza dagli interessati alla delocalizzazione delle attività produttive riguardano: l’espansione della produzione, l’adeguamento tecnologico del proprio apparato strutturale e l’allargamento dello spazio di agibilità produttiva e di servizi alla produzione.
    Al fine di incentivare concretamente la localizzazione di insediamenti produttivi, quindi, i promotori del Patto, consapevoli che la dotazione infrastrutturale è soltanto uno degli elementi per la localizzazione industriale, si impegnano anche a creare condizioni favorevoli in termini di costo e flessibilità del lavoro, costo degli insediamenti, trasparenza e celerità delle procedure amministrative (rilascio di concessioni edilizie, di autorizzazioni,
ecc.); di agevolazioni per gli investimenti e di supporto in termini di servizi reali e innovativi. Va inoltre sottolineato che l’area oggetto d’intervento si caratterizza per l’assenza di fenomeni di criminalità organizzata, il che costituisce un fattore di localizzazione molto rilevante per l’imprenditoria.

    Il rafforzamento del tessuto delle piccole e medie imprese locali assume una rilevanza strategica in un contesto che vede un progressivo e pressante orientamento del mercato verso la qualità, la flessibilità e la ricerca di nuovi prodotti. A tali esigenze, manifestate in tutte le fasi della concertazione da parte delle associazioni di categoria, i promotori del Patto si impegnano a sviluppare una serie di azioni nei campi dell’accesso al credito, adeguamento tecnologico da parte delle PMI, servizi reali di supporto alla commercializzazione e alla creazione di nuove iniziative imprenditoriali giovanili, favorire gli investimenti produttivi delle imprese che intendono realizzare programmi di sviluppo e/o ampliamento. 
    Come si evince dal riquadro riportato nel testo, il numero di progetti imprenditoriali selezionati sono pari a 107. L’elenco completo dei singoli progetti, sotto forma di schede sintetiche, con l’indicazione delle risorse finanziarie necessarie e i risultati attesi, in termini di incremento di fatturato e di occupazione, è riportato in allegato.

Numero di imprese programmate per settore di intervento
Settori di intervento
 
  n° di imprese 
1. Industria tessile e abbigliamento

16

2. Agro - industriale

41

3. Produzione prodotti di carta stampata e editoria 2
4. Produz. di metallo e fabbricazione di prodotti in metallo 19
5. Fabbricazione di prodotti chimici e fibre sintetiche 4
6. Edilizia 3
7. Produzione e distribuzione di energia alternativa 1
8. Trasporti 2
9. Ind. conciarie e fabbricaz. di prod. in cuoio, pelle e prod. simil. 1
10. Fabbricazione di materie plastiche 3
11. Produzione e lavorazione di prodotti non metalliferi 4
12. Servizi pubblici sociali e personali 4
13. Riparazione autoveicoli industriali 5
14. Industria del legno e dei prodotti in legno  2
  TOTALE 107

Misura 3: Sviluppo e qualificazione del turismo rurale, dell’artigianato e dell’agricoltura

    Per quanto concerne il turismo rurale, la strategia di azione del Patto mira a identificare “pacchetti turistici” definiti che integrino; le potenzialità legate alla genuinità e ai sapori delle produzioni e della gastronomia locale: quelle espresse dalla tradizione artigiana e quelle connesse alle attrattive paesaggistico - ambientale e culturale - archeologiche. Si tratta in sostanza di un disegno complessivo di intervento che punta a sfruttare tutte le sinergie possibili in armonia con le potenzialità reali del territorio. L’artigianato e l’agricoltura costituiscono i settori su cui puntare per definire un ‘Pacchetto di misure integrate’ per una valorizzazione turistica del territorio della Baronia. Il rilancio dell’artigianato passa per una rivitalizzazione del settore alfine anche di avvicinare i giovani ad attività con grande potenzialità che attualmente rimangono inespresse per carenze di politiche di sostegno mirate. Le iniziative che saranno, invece, promosse in campo agricolo saranno finalizzate a una valorizzazione delle produzioni di pregio dell’area, caratterizzate da un’intrinseca qualità - genuinità dovuta alla salubrità dell’ambiente e alle tecniche tradizionali di produzione. Ciò al fine di portare la genuinità e la salubrità della gastronomia locale a svolgere un ruolo di “fattore di attrazione”, insieme a quello dell’artigianato e ai tanti altri richiamati in precedenza, per la domanda crescente di turismo rurale.
    Un’azione importante per far crescere i flussi turistici sul territorio sarà svolta in direzione di un raccordo organico e funzionale con le Comunità di emigrati dell’area all’estero, in modo da creare, da un lato, occasioni mirate di ritorno e, dall’altro, una prospettica di “sbocchi commerciali” di un certo interesse per i prodotti locali, prefigurando una loro commercializzazione guidata nelle città e/o zone con una particolare concentrazione di emigrati della Baronia.
        I. I progetti previsti nell’ambito di questa misura sono in complesso nove (si veda relativo quadro finanziario nel capitolo successivo).

Misura 4: Servizi avanzati a supporto degli operatori pubblici e privati e qualificazione delle risorse umane

        Nell’ambito di questa misura sono stati selezionati sei (6) progetti finalizzati a fornire:

  1. servizi relativi ad analisi territoriali e ambientali, a supporto dell’attività di programmazione e gestione del territorio da parte degli Enti Locali;
  2. servizi telematici a supporto degli operatori economici e degli Enti Locali;
  3. servizi alle imprese relativi ad analisi di laboratorio e collaudi per la certificazione di qualità richiesta dalle recenti normative in materia;
  4. servizi per la promozione di nuove iniziative imprenditoriali (incubatore di imprese) e per la formazione delle risorse umane inserite nei processi produttivi.
3.0 Quadro finanziario del Patto della Baronia

     Le quattro misure in cui si articola il programma degli investimenti del Patto Territoriale della Baronia, prevedono investimenti, per un costo totale cornplessivo pari a 285.214 Miliardi (MLD) di lire, di cui 199,537 MLD a carico del Patto. 9.050 MLD a carico della Legge 48 8/92 76,627 MLD a carico dei privati.

     Il Patto Baronia prevede un incremento occupazionale diretto pari a oltre 1.000 addetti., costo per ogni nuovo occupato è pari a 212 milioni di lire. 

AREA P.I.P. VALLATA -AV- 

ASSEGNAZIONE LOTTI ALLE AZIENDE ADERENTI AL “PATTO BARONIA”

N. INSEDIAMENTO PROD. TIPO DI PRODUZIONE INVESTIMENTO ADDETTI SUPERFICE COMPLESSIVA (mq.)
A BULLONERIA MERID S.p.a. VITI AD ALTA RESISTENZA 26.000 58 10.000
B O.M.I. S.r.l. PARTICOLARI AEREONAUTICI 16.000 35 10.000
C MATEX CONFEZIONI CAPI DI ABBIGLIAMENTO 2.500 23 2.500
D PICARI GIULIO CALZATURE 1.100 20 2.500
E CENTRO CARNI LOFFA G. & C. S.a.s. MACELLAZIONE E LAVORAZIONE CARNI 4.500 12 2.500



COMUNE DI VALLATA

PROGETTO SVILUPPO TURISTICO

Riunione del 17.2.1999 - ore 17.30 presso il Comune di Zungoli

COMUNI PARTECIPANTI: Carife, Castelbaronia, Flumeri, S. Nicola B., 5. Sossio B., Trevico,Vallata, Vallesaccarda, Villanova del B., Zungoli.


Nella riunione si è unanimemente stabilito quanto segue:

— In considerazione che lo sviluppo turistico delle nostre zone riveste carattere prioritario ed indifferibile, così come risulta da studi fatti da ogni parte, e che il Comune di Zungoli è stato l'Ente promotore della formazione delle guide turistiche da utilizzare per il nostro sviluppo. 

• Preso atto che, di fronte alla disponibilità delle guide, lo stesso Comune di Zungoli si è attivato per il decollo di un progetto turistico, dopo aver scelto l’area della Baronia, contattando uno specialista tecnico esterno capace di formalizzare, guidare, sponsorizzare e far ottenere finanziamenti europei, nella specifica un menager austriaco;

• Sentita la proposta del direttore del corso (Arc.Iorio) di formazione delle guide turistiche, il quale individua nei tempi brevi, entro l’anno corrente, la stampa di una guida turistica della nostra area da inserirla in una delle due banche mondiali (Tokyo o Milano) per dare l’input pubblicitario;

• Considerato che i Comuni interessati partecipano al progetto in condizioni paritarie, in quanto le caratteristiche peculiarità di ognuno di essi formano elementi essenziali che si completano tra loro, costituendo una sola unità inscindibile;

• Si è considerato di sottoporre ad ogni consiglio comunale dei Comuni partecipanti l’approvazione di un protocollo d’intesa che preveda l’istituzione del bacino intercomunale per la promozione turistica della nostra zona.

        Per quanto riguarda Vallata, in considerazione della particolare attenzione che si sta rivolgendo da diversi anni allo sviluppo turistico, si pensa che questa occasione sia giunta al momento opportuno per dare una più ampia risonanza al fattivo operato già intrapreso.

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VALLATA - Palazzo Municipale - Sala Consiliare

8 ottobre 1996 - ore 18:30


PUBBLICA CONFERENZA


"LA CITTA' OSCA" di Nicola Pagliara



Partecipazione:
    Prof. Pietro Farina - Magnifico Rettore Libera Università  Scienze Turistiche - CE
    Dr Stefano Sorvino - Presidente dell’Alto Calore - Avellino
    Avv. Libero Orlandella - Sindaco di S Sossio Baronia
    Dr Raffaele Del Priore - Consigliere Provinciale di Avellino
    Avv. Cicchetti Vito Nicola - Assessore Provinciale di Avellino

Moderatore: Dr. Rocco Colicchio - Vice Sindaco Vallata

Dr Rocco Colicchio
Chiedo scusa per la mancata presenza del sindaco dr Pasquale Zamarra impedito per motivi di salute.

Prof. Nicola Pagliara

        Vi ringrazio dell’invito, un invito che mi è stato sollecitato dal presidente Sorvino e che so atteso da alcuni sindaci di questa zona e che si è configurato per una stranissima situazione: Da molti anni io, analizzando i problemi del territorio della Campania, avevo individuato uno squilibrio strutturale come si dice proprio nel senso linguistico - nell’area che va da Benevento verso Candela, verso le Puglie. Siccome io sono uno di quelli che da molti anni, sono fautore dell’alleggerimento della fascia costiera e, più possibile, lì dove è possibile piuttosto del ribaltamento; ma è una vecchia tesi portata avanti già da molti anni. Sulla cosa ho già fatto qualche studio personale, di interesse relativo. Sono profondamente convinto che il riequilibrio della regione si riesce ad ottenere solo ed esclusivamente se si realizzano dei poli di interesse verso l’interno, ditali dimensioni da essere delle vere e proprie città. Allora, il discorso non può essere, scusatemi, considerato avulso, quindi vi devo fare una specie di piccola cronistoria di come io riesco o si può immaginare questa regione. Intanto, questa regione - voi lo sapete tutti - ha fondamentalmente un grosso asse che è dato da una specie di conurbazione, significa di piccoli paese satelliti che oramai si sono saldati tra di loro Che formano una stella colossale che è Napoli con tutto quanto gli gravita intorno: Caserta, Ma Santa Maria Capua Vetere, Capua etc., nella direzione da dove si immagina che dovrà venire, si sta pensando seriamente, dovrà venire l’aeroporto di Grazzanise, poi andando in su verso L’Irpinia c’è Avellino con le due parti della città che con il suo centro storico, ahimè massacrato, ma insomma perlomeno reso vivibile; e poi un’area enorme di espansione che è quella che è, diciamo quello che l’edilizia corrente consente di ottenere, e poi ci inoltriamo all’interno sempre seguendo la fascia dell’autostrada verso Benevento, torniamo indietro, se utilizziamo l’autostrada, torniamo indietro di un pezzo e ci riportiamo invece all’interno di questo Sannio geloso di se stesso che per quanti sforzi faccia e tentativi disperati di inserirsi in un discorso di percorso, perché come capirete la vita di una regione, la vita di una città, la vita di un popolo è fatta dalla possibilità di interscambiare, di avere fra le varie etnie - mi piace chiamarle così i vari gruppi etnici visto così, fra l’altro parliamo dialetti diversi, che ci sono usi e costumi assolutamente diversi ...ecco che questo gruppo, questi diversi gruppi etnici, mirano e si richiudono in se stessi e diventano quasi delle monadi, non hanno più grande spazio intorno a loro. Per la verità non si sono, non gravitano intono a loro se non questi piccoli paesi, l’andata a Benevento da Avellino da parte di chi viene dalle campagne continua ad essere un avvenimento quasi da folk. - diciamo - da libri americani dell’inizio del novecento, cioè sono strane strutture che mi piace chiamare “tristi tropici”, perché continuano ad avere dei riti antichissimi e tuttavia sono massacrati, bombardati da un sistema di informazione di massa, di cultura di massa, televisione, cinema che naturalmente arrivano spesso - che so - Indipendence Day è arrivato prima nei paesi sperduti del Cilento che non a Napoli per esempio...e io immagino lo shock ancora per chi vede arrivare una macchina di questo tipo, un film macchina di questo tipo all’interno di un contesto che di questi problemi ancora non se ne pone. Allora, io credo moltissimo nel dramma dell’uomo che quando non conosce le cose assume le sembianze, l’aspetto. Solamente non entra mai nel profondo della cultura semantica; diventa semiologia; diventa immagine, cioè rappresentazione mentre, queste cose, in una cultura come quella americana, quella tedesca o quella francese sono bagaglio oramai quotidiano - diciamo - di conoscenze che hanno livelli di rapporti fra uomo cittadino e telematica; strumenti della telematica che non ce li sogniamo neppure; quando calano da noi queste cose violentano solamente l’immagine e provocano credo delle discrasie di carattere anche fisico. Io proprio osservo che ci sono quelle stranissime forme di assuefazione al novo, che nuovo non e, ma solamente la rappresentazione di un certo tipo di violenza, o rappresentazione del corpo, body art etc.  Allora, dico sempre, un film di Tarantino proiettato a Francoforte ha una sua valenza, un film di Tarantino proiettato a Vallata può avere due tipi di valenze: cioè, nessuna valenza, viene inghiottito; oppure lasciare in superficie delle scorie azotate che vengono recepite dai ragazzi, dai giovani e pensano che quel tipo di rappresentazione sia la vera, il vero futuro delle cose di come si dovranno muovere le cose. Allora, mi sono sempre detto che questa opportunità si sarebbe presentata nel momento in cui: l° si potesse e si dovesse riequilibrare la nostra Regione verso sud nell’area a monte di Salerno, in giù verso il Cilento e verso il suo interno, li ci sono un paio di cittadine che aspirano a diventare capoluogo di province e mi sembra indispensabile - qui è una zona completamente dimenticata - grande provincia di Salerno che è la più grande dell’Italia che si estende fino a Maratea, ma in realtà non si occupa minimamente di tutto quello che deve succedere o può succedere all’interno; soprattutto utilizza metodi e mezzi che non hanno nulla a che vedere ... e poi qui di lì c’è bisogno di una città che nasca, una città che si concretizzi, per esempio Vallo della Lucania o Sala Consilina - per esempio - qui si tratterà di scegliere - e questo può diventare un capoluogo di provincia che rimetta in circolo un sacco di ipotesi interessanti, di organizzazioni della vita e del lavoro. Lo stesso deve assolutamente poter succedere nella.zona di Santa Maria Capua Vetere, Capua, Grazzanise cioè la conurbazione che adesso è data dal sistema dei paesi sorti in quell’area che puntano verso il mare continuamente: Licola, Varcaturo ecc. non è altro che un enorme bubbone che si è venuto a costruire senza un programma, senza niente sul quale gravitano bene o male questi paesi richiamando delinquenza, .. quelli sono parcheggi di prostitute brasiliane o africane, ma con i loro uomini o altri uomini che vivono praticamente come schiavi, cioè un’assenza assoluta di organizzazione della vita in queste zone. Mentre all’interno si sviluppa in maniera interessante.., non so... Avellino con le discrasie che notavamo prima, Benevento con questo tenero abbandono nel quale vive ancora questa città che sembra la città murata, sembra ancora una città papalina, tutta papalina e la mentalità io l’ho vissuta per due anni a Benevento, perché dirigevo l’Ufficio di Piano, quindi avevo la possibilità di conoscere bene da vicino le persone, le loro mentalità, le loro ideologie. ..e poi il vuoto; dall’altra parte verso le città che si evolveranno in brevissimo tempo e che non sono Bari e Foggia, ma che è per esempio Barletta che sta recriminando da subito la leadership e vuole diventare capoluogo di provincia, tra l’altro è il vero centro di interscambi, è il luogo dove si attestano i grandi traffici con l’Oriente, la grande speranza che con un pò di pace l’Oriente rimetta in moto una serie di provvedimenti ciclici che riportino all’interno dell’Italia una nuova valenza operativa e questo significa che la Campania sarebbe completamente tagliata fuori da questa possibilità se non si fa presto qualcosa.
          Allora - vi prego da questo momento in poi - io entro in un ambito che è quello della utopia cioè del non luogo, del nessun luogo, cioè di qualcosa che è più di una mia sensazione epidermica avvalorata probabilmente da alcuni ragionamenti, io non credo nell’intuizione, l’intuizione altro non è che la stratificazione della cultura e della conoscenza, quindi se ogni tanto mi viene qualche intuizione io so che è frutto di cose lunghissime, di elaborazioni molte lunghe, che mi hanno un poco travagliato in questi anni. Allora che cosa ho immaginato? Che su un grande asse come la nostra autostrada - che è utilizzata per grazia di Dio devo dire solamente al 25 - 30% della sua potenzialità - adesso lasciamo perdere quella tratta Napoli - Vallata, ma quella “fettuccia di Terracina” che va da Candela fino a Bari: è una pista di formula uno - nemmeno di formula uno perché queste hanno delle belle gimcane, delle curve, dei box, delle soste - ti non c’è nulla, si arriva a ridosso di Lacedonia, si piomba su Candela e poi è una corsa, difatti si mette lo stesso tempo per fare il doppio dei chilometri tra il primo tratto e il secondo tratto. Ora siccome mi capita spesso di dover incontrare e avere rapporti con persone che vivono a Bari, a Foggia, a Barletta, insomma che vivono in Puglia, comunque a Lecce ecc. ho scoperto così da solo che sarebbe stato importantissimo avere un nucleo sistemato al centro di questa distanza, diciamo di questa serie di percorsi. Dicevamo l’autostrada è un elemento esistente che può essere potenziato, ma soprattutto potrebbe essere riciclato meglio come linea ferroviaria, linea ferroviaria che naturalmente dovrebbe scavalcare molte delle curve che sono in questa zona con l’apertura di una serie di tunnel; una cosa abbastanza semplice, e diventare una monorotaia veloce che immetta come un pendolino con partenza ogni ora in collegamento la Campania con la Puglia. Non è fantascienza, se ne sarebbe potuto e dovuto occupare, abbiamo detto tante volte, alla T.A.V. domani mattina ho pure un incontro con questi signori rimasti, sopravvissuti della T.A.V. e che sono interessati a questi tipi di esperienza, ne ho parlato con il Presidente della Regione delle Puglie che è anche interessatissimo a questa simbiosi fra le due regioni e questa accelerazione di rapporti di collegamento tra queste due regioni in questo luogo quindi ferrovia veloce, velocissima con stazione, ma poi ne parliamo, adesso perché poi interviene l’architetto, perché poi sono un urbanista, io sono soltanto un architetto e basta che è, costretto ad occuparsi anche di questi problemi, perché questi problemi oramai sono diventati architettura che è diventata di una tale dimensione che non può essere più risolta nel suo, nei suoi elementi minuti. Ecco, oltre questo, in questo luogo dovrebbe poter subito essere realizzata, dico questo posto per dirvi fra Vallata, Lacedonia e Candela - non so - io naturalmente campano vi posso dire che ho delle preferenze spiccate per quest’area qui, adoro questo pezzo di paesaggio, di morfologia che va fra Vallata e Lacedonia, lo trovo di una bellezza, siccome l’attraverso, d’estate, di inverso con sole, pioggia ecc., quindi ne conosco tutte le gradazioni e i colori e i toni, ho visto tramonti che non ci sono nemmeno su Alfa Centauri, posti meravigliosi, prati stupendi, verdi poi c’è la possibilità di costruire uno spazio urbano che non è uno spazio urbano come ..non so.. la città di Brasilia, cioè una grande landa deserta nella quale viene collocato un prototipo di architettura, ma invece costruirla come fosse Roma, cioè costruita su colli con delle zone di invaso centrale che potrebbero diventare invece delle tardi aeree di sviluppo.  Cosa si dovrebbe fare per prima cosa? Si dovrebbe utilizzare la struttura portante dell’autostrada e della ferrovia che può essere una monorotaia, ma può essere anche una linea ferroviaria veloce: questi due elementi strutturali portanti per trasferirli in una grande agorà. Cos’era l’agorà?
        Tutti voi lo sapete, solo per i pochissimi che non hanno memoria, mi permetto di ricordare: era il centro di tutto in una città, in una polis greca, della gestione, della politica, ma era anche quello della legge, meravigliosa, di tutti i traffici, dei commerci, era il mercato, erano le botteghe, c'erano i  temi fondamentali in modo che si svolgessero i riti e i miti, i miti fossero trasformati in riti e cioè era il luogo nel quale la comunità si ritrovava, tanto è vero che molto vicino a queste zone c’erano i templi fondamentali in modo che si svolgessero i riti e i miti, i miti fossero trasformati in riti e cioè era il luogo nel quale la comunità si ritrovava, tanto è vero che molto vicino a queste zone c erano degli spazi che venivano chiamati impropriamente teatri, in realtà non erano altro che delle piazze molto più grandi con delle gradinate in modo da poter assistere agli spettacoli. 
        Allora se si potesse prendere a modello un’agorà greca, uno spazio di polis greca, avremmo tutti gli elementi che potrebbero confortarci in questo senso. Si tratterebbe di fare uno studio preliminare sul come l’autostrada con le sue due direzioni una a venire, una a tornare, la linea ferroviaria su due binari uno ad andare, uno a venire possano configurare come per Tony Garnier (ndr 1869 - 1948), qualcuno dei giovani architetti qui presenti si ricorderà, la famosa città dell’industria nella quale il percorso viario vero e proprio la sua struttura portante era provocato dalle autostrade e dalle linee ferroviarie. Qual è il nodo di tutta questa questione? Il nodo reale è che pensare ad una città dell’industria oggi è una follia, tuttavia una città non vive senza un indotto di gran livello cioè non si può sperare di far fermare le persone, scambiarsi quattro chiacchiere e, magari dormire, mangiare un buon pasto e farle ritornare  indietro, non diventerebbe mai una città. E allora ho pensato, ma qui in questo senso mi ha molto aiutato anche alcune delle decisioni che si stanno prendendo, e che stanno diventando consistenti, molto consistenti, che è quella per esempio di dover realizzare in Campania il grande centro di informatica, di informazione europeo, si pensa alla costruzione dei questo grande polo tecnico, tecnologico nel quale vivano in pianta stabile e si formino soprattutto addetti a questo tipo di lavori. 
        Questo potrebbe essere il volano iniziale per un’operazione di questo tipo, più invece tutto quanto gravita da sempre intorno ad uno spazio urbano. Cosa sono? Allora si tira subito fuori l’artigianato, ma l’artigianato ha la possibilità oggi di vivere di se stesso? Cioè secondo la dimensione, l’accezione che noi abbiamo di artigianato: la piccola bottega, dove il falegname rifà le sedie, o fa i tavoli oppure quelli che fanno le maioliche con un piccolo forno o quelli che fanno piccolo manufatti. ..che so... a Campobasso avevo scoperto certi che facevano le forbicette che avevano piccole botteghe, facevano le forbici o facevano i basti per gli asini, i muli e i cavalli.., ecco questo non è assolutamente più pensabile; però, l’artigianato è un elemento fondamentale per la costruzione di una coscienza civile, perché? Perché l’artigianato significa applicazione della mente e delle mani alla produzione di un oggetto che nasce da questo connubio meraviglioso, non è niente demandato, non è la FIAT che si insedia, nella quale ci si va per prendere uno stipendio e il lavoro diventa un lavoro alienato, per quanti sforzi cercano di fare, ma insomma un tipo di lavoro assolutamente alienato, ...per cui andarsene, scappare dal luogo di lavoro diventa veramente una fortuna ...le ferie diventano importanti; mentre invece tutti sappiamo che l’artigiano se ha da finire, io mi reputo tale, non sa che giorni sono, lavora al suo prodotto, lo dispone lo prepara, lo ama poi lo mette in commercio, lo vende. E questo da solo, oramai, è assolutamente impossibile! Che cosa bisognerebbe fare? Bisognerebbe che questi elementi fossero consorziati, questi luoghi di lavoro fossero consorziati e non solo da questo luogo, ma dai comuni che gravitano intorno a questo sistema; quindi entrano di botto i comuni come personaggi fondamentali nella predisposizione di questo nuovo nucleo. Che fine farebbero, cioè che tipo di funzione avrebbero?
             Avrebbero la funzione dei centri storici, cioè sarebbero una corona di centri storici - Io non so se a voi è capitato di andare fuori Firenze soprattutto, a Firenze siete stati tutti, ma fuori Firenze andando in su verso quelle che si chiamano le Colline, perfettamente salvaguardate da un Piano Regolatore stupendo di 50 anni fa, ormai 40 anni fa fatto dal prof. Detti, questo P.R. bloccando completamente la costruzione nelle aree dei casali tutt’intorno facendo espandere per piccolissimi interventi e servendoli di attrezzature, ha salvaguardato la corona delle Colline, ha incrementato un certo tipo di ghetto culturale che era già presente nella città e ha messo in condizione che questo spazio e tutt’intorno diventasse il luogo ameno dal quale correre, andare nel momento in cui si fosse stati fagocitati dal centro cittadino, che nonostante sia ben servito, poco compromesso dal traffico, è tuttavia un centro nel quale macchine, auto, filobus ecc. passano con gli inquinamenti e le catastrofi che portano. Ma se si pensasse ad una città nuova, questa città nuova avrebbe invece possibilità di utilizzare strumenti della tecnologia nuova. Tutte le cose di cui sentite parlare, i bus personalizzati, i minibus, e poi tutto su strumenti elettrici.. .il più possibile e poi. ..i centri nei quali poter operare scambio e non solo scambio economico, ma scambio culturale. Se si potesse diventare come la favolosa città di Gurnià, che si trova a Creta e dove (qui da Vi vi dirò sinceramente mi è nata questa idea) questa strana città , era una città nella quale venivano dall’Oriente e venivano tutti i popoli dall’Occidente, si ritrovavano a Creta e in questa città si incontravano, mangiavano, stavano insieme, avevano dei posti di sosta, avevano dei luoghi come delle caselle postali enormi nelle quali lasciavano i prodotti dell’Occidente e poi quelli venivano a ritirarseli dall’Oriente, e viceversa, e prelevavano materiale che veniva dall’Oriente per portarselo in Occidente. L’incontro era fenomenale perché entravano etnie e personaggi di ogni tipo, basterà che un poco cortesemente la vostra fantasia mi rincorra per immaginare che cosa doveva essere l’incontro fra un egiziano e uno della civiltà delle ciottole. Quelli della civiltà delle ciottole erano vestiti, dipinti di azzurro e venivano dalla Bretagna; quelli che venivano dall’Egitto avevano quest’aspetto estremamente felice e sofisticato, il luogo di incontro era Gurnia. e il contesto diventava molto simile a quello che forse ricorderete nel famoso film
“2001 Odissea nello Spazio” quando si incontrano personaggi da tutte le parti degli universi conosciuti.
        Questo luogo potrebbe realizzare un incremento di attività molto velocemente e diventare il vero grande polo di riequilibrio. Allora cosa succederebbe? Che le città e i paesi che sono intorno sarebbero costretti a realizzare, se questo si fa con un piano predeterminato, pre-disegnato, bloccandone un certo tipo di espansione, ma offrendoli una vera e propria specializzazione. Pochi giorni fa, scusate per la digressione, ma importante, parlavo con il sindaco di Pietralcina. Il sindaco di Pietralcina mi diceva che loro non producono catenine; tutte le catenine le produce un paese là vicino, come dobbiamo fare professore? Dobbiamo metterci a produrre catenine per rosari anche qui da noi? Ho detto ...mah! se ci sono paesi che fanno solo catenine, sono bravissimi a fare catenine, fateli fare solo a quel paese, ...e voi che mi pare siete noti per questo pane fenomenale, che voi producete, incrementate piuttosto un certo tipo di attività che è legata ad un’antichissima tradizione che si sa far bene. Ecco, un luogo così riequilibrerebbe la Regione. Ma da solo, prima mi si richiedeva il dott. Sorvino se un’operazione di questo genere possa essere considerata estrapolabile da un assetto generale, mi diceva: cosa ne pensi? Ma può aver un senso un operazione di questo genere estrapolata? lo ho detto che potrebbe avere un senso se diventasse, però, un luogo nel quale una grande potenza imprenditoriale, cioè gruppi di imprenditori avessero veramente in animo di immaginare un sistema di questo genere, cioè, la considerassero la leaderschip con la quale e sulla quale lavorare per il resto del loro tempo. Questo da solo già riequilibrerebbe tutto il sistema, ma non basterebbe, perché se voi guardate bene il sistema delle città e dei grossi centri - siamo al sopra dei 10.000 ab. che ci sono in Campania - voi vedrete che è un cielo stellato, una cosa incredibile ..provate ad estrapolare il fondo delle tavole delle carte geografiche e segnatevi solamente le posizioni delle città dei grossi nuclei e vedrete che configurano delle costellazioni, mancano alcuni punti e che sono proprio quelli all’interno del Cilento e quelli invece verso l’interno, verso a nord di 5. M. Capua Vetere e Capua. 
        Manca totalmente un buco nero vero e proprio, in gergo astronomico, in questo luogo cioè le stelle non sono in equilibrio; se voi guardate l’Orsa Maggiore ...è molto divertente,.,, fatta da un sistema di triangolazioni molto elementari: sono due assi disposti in questa direzione; al centro di questa divisione in assi che saranno inclinati secondo me di una trentina di gradi, quaranta gradi, al centro di questo sistema manca una stella, non c’è. Questa stella potrebbe essere una quasar, una quasi stella, potrebbe essere un buco nero che riequilibra tutto il sistema. Questo luogo al quale stiamo pensando dovrebbe avere una funzione analoga, cioè quella di riequilibrio generale delle costellazioni che gravitano intorno a questo sistema e per le quali una questione è determinante e fondamentale: è l’analisi antropologica....., qui vi chiedo solo ancora due minuti, spero di non avervi tediato molto, ma due minuti sono indispensabili. Io non credo, come vi ho detto prima, che una grande fabbrica o una serie di grandi fabbriche risolvano i problemi delle etnie locali, non lo credo affatto, non lo credo per Napoli, come non lo credo per Avellino, non lo credo per Vallata, come non lo credo per Benevento. Cioè, è una pazzia, è stata una delle pazzie di questo nostro ultimo straccio di secolo. Io credo invece che sia fondamentale che si ricominci in un momento . . .ma non daccapo naturalmente, . .che si prenda coscienza che questi luoghi, i nostri luoghi, la Campania si salva facendo un analisi molto attenta di antropologia strutturale, che è una disciplina a parte per la quale ci sono grandissimi studiosi e ottimi operatori che possono costruire delle diagnosi precise su cosa sta realmente succedendo, e in realtà in questi ambiti, dentro queste scelte, dentro le indicazioni che potranno essere date si potranno ricostituire degli anelli delle costellazioni vere e proprie le quali indipendenti l’una dall’altra, ma tutte concentrate a risolvere i problemi che sono endogeni ... e rimesse in equilibrio le sistema generale riformino un universo come quello che noi amiamo tanto guardare; cioè la posizione precisa di equilibrio assoluto nel quale si trovano le stelle che brillano di più e le altre che sono pesi strutturali di questo stesso meccanismo.
        Mettendo in condizione la Regione di non dover più vivere di risorse che vengono trovate e calate sul territorio di volta in volta come panacee totali con la speranza che 1000 addetti per una nuova struttura FIAT consentano di sistemare questo spazio, ma piuttosto di ritrovare all’interno delle vere vocazioni, di analizzare la cultura con al quale queste vocazioni si sono prodotte e inserirsi in questo meccanismo di sviluppo, battere all’interno di questo meccanismo di sviluppo, cercare di capire le discrasie, molto facili, guardate ... sono più parole complesse che non realtà, estremamente facile, questo mi appello veramente, potrebbero ricominciare a farlo gruppi di ragazzi, già all’interno delle loro strutture sociali. Vallata + Lacedonia + un paese + un altro etc. In questa configurazione, si potessero incontrare, si riuscissero a parlare, stessero insieme ... Stamattina ... Beh! una cosa incredibile...: sono venuti, sono andato in cantiere, perché, finalmente dopo 10 anni si è inaugurato il Municipio di Baronissi ...  Quando lo feci dissi che non si chiamerà Municipio di Baronissi, i chiamerà Casa Comunale.
        Anche qui nell’assoluta tradizione del nome, pensando alla casa comunale, ho pensato che dovesse essere una vera casa comunale; cioè una casa comunale che dovesse essere predisposta a diventare museo, a diventare teatro, a diventare cinematografo, a diventare sala per piccoli concerti, per grandi concedi, luoghi dove si potessero riunire grandi biblioteche, dove si potessero riunire i ragazzi della città... Bene, è successo una cosa incredibile, dopo anni, stamattina è venuto una delegazione, regolare, siccome sanno che verrà il Presidente della Repubblica ad inaugurarla, mi hanno detto: “Professore, ma noi con la sua guida possiamo mettere in piedi un programma con il quale far sviluppare il lavoro intorno, di tutti questi ... siamo ognuno di noi abbandonato essendoci un grande centro nel quale si possono programmare per un anno per due anni una serie di incontri, di dibattiti di studi, di scambi culturali, tra l’altro mi parlavano anche di portare dentro l’Università di Fisciano e fargli fare i dibattiti e le conferenze più lì che non all’interno della loro bellissima Sala Convegni. Quindi, questo è il concetto, cioè, cercare di attivare all’interno di ogni gruppo, perché ci possa avere finalmente una visione, se volete ... Fra il romantico e l’utopistico è la soluzione del problema. Però state molto attenti, che il fatto di essere stati così positivi per tanti anni, il fatto di aver ironizzato su tutto ciò che aveva una punta che non era pragmatico - quotidiano, ma che rappresentava o rincorreva una visione del inondo che non era verificabile, ha portato la catastrofe in cui stiamo vivendo in questo momento.
        Ricordatevi sempre che il sonno della ragione genera mostri. In questo ultimo pezzo di secolo non abbiamo fatto altro che dormire sugli allori delle veloci conquiste economiche e tecnologiche o tecnologie calate sulla nostra società. Non abbiamo fatto nulla, assolutamente nulla, per migliorare il nostro rapporto con tutto quanto ci stava venendo dall’esterno. E allora, mi piace dirlo sempre ai politici: scusate, ma vogliamo recuperare nel pensare e nel proporre la vita del domani di un’area, di una zona; vogliamo provare a proporre anche quella innata poesia che c’è all’interno degli strumenti attraverso i quali si esprimono gli uomini, vogliamo ridargli il piacere di considerare sacrale un rapporto con la loro città, con i progetti, mi rivolgo a molti progettisti che velocemente realizzano il loro progetto e non lo considerano più un impegno sacro nei confronti delle persone alle quali questo soggetto viene attribuito; vogliamo ricostruire il piacere di girare e visitare un luogo, un centro storico, un centro antico, nel quale poterlo vivere, ma sapendo che lui ha un’ideale che persegue, così più lontano e così complesso da poter diventare nel tempo la buona ragione perchè il sistema dei comuni consociati possa dare un futuro a chi vive qui, vuole vivere qui e vuole lavorare. 

Dr. Rocco Colicchio
        La città del futuro che oserei dire “città virtuale” che nascerebbe sull’asse NA-BA, proprio in questa zona “osca”, perché non costruirla già da adesso? Il futuro si costruisce cominciando dal presente, motivo per cui introduco il progetto dell’ipotesi di una Facoltà di Scienze del Turismo proprio qui a Vallata di cui il preside Prof. Pietro Farina ne è il promotore.

Prof. Pietro Farina
        Il motivo della mia venuta è stato duplice: per ritrovanni tra amici perchè è la seconda volta che vengo a Vallata per questo motivo e per il piacere di vedere il Prof. Pagliara, più che di vederlo, è di ascoltarlo, perché è un uomo di cultura poliedrica, e un uomo versatilissimo, capacissimo di spaziare nei meandri più ampi della cultura per cui siccome, non è la prima volta che lo ascolto, ma ho avuto modo di apprezzarlo in altre circostanze, quindi questa sera mi sento addirittura più felice. Ho ascoltato con enorme interesse il suo “studio avveniristico’ lui lo definisce, ma io conosco che gli architetti che per quanto possano essere, rispetto agli ingegneri più empirici, più sognatori comunque sono sempre dei tecnici, quindi i piedi ce li hanno sempre per terra. Quindi se il professore Pagliara è venuto qui a parlare di questo “buco da riempire”, io ritengo che egli a monte abbia già studiato bene tutto ciò che appartiene ad una fattiva realizzazione. Mi è piaciuto, ovviamente, e lui questa filosofia dell’agorà l’ha sempre presente (l’ho sentito anche in altre circostanze). L’agorà è il centro greco dove si faceva tutto, io aggiungerei che forse non si faceva una cosa: non si faceva la cultura, perché i greci la cultura la facevano sotto i portici, passeggiando per strada, nei siinposi. Tutti quanti ricordiamo Platone. Nel Simposio quando Platone fa parlare Socrate. E Socrate spiega dell’amore invitando tutti gli altri a dire la sua su questo argomento, poi si finiva col bere del vino; e, quindi, la cultura si faceva così. Poi c'era anche ad Atene la Phenice (ndr Phoenice) un altro grande anfiteatro all’aperto dove Temistocle e gli altri venivano di volta in volta. Quindi questa città di cui il Prof. Pagliara parla, in effetti va riempita, ma lui questo lo sa perfettamente perchè è un uomo di alta cultura, va riempita con cultura. Parlava anche della città cretesa di Gurnià, e bene conosciuta, peccato che intorno al 1.500 avanti Cristo, questa cultura greca fu distrutta improvvisamente, c erano altri centri Paleoeastro, Zagro, che poi sono venuti a noi attraverso le famose cretule. Era un messaggio di cultura quello lì che è giunto agli altri. Diciamo praticamente che la cultura si fa dovunque; ma si fa essenzialmente nei luoghi preposti alla cultura stessa. La considerazione del professore Pagliara di questa bellissima zona, è veramente questa un declivio bellissimo, è un ansa stupenda, è un andamento collinare da pitture; infatti io vedo che il pittore loro conterraneo, non in questo quadro, ma in altri, dipinge queste colline delicatissime che scendono a valle in una maniera meravigliosa, con i tramonti che si colorano d’incanto, con dei colori stupendi. Quindi, questa è una zona bellissima. C’è questo buco. La descrizione del prof. Pagfiara è proprio aderente alla realtà. Poi c’è un desiderio, espresso anche dall’Amm.ne Provinciale di Avellino, sono stato relatore, su invito del presidente Anzalone sul tema "Sviluppo del turismo nelle aree interne", già espresso dal sindaco Zamarra da altri sindaci qui presenti ai quali va il mio saluto unitamente alle autorità provinciali, al presidente dell’Alto Calore. Tutte autorità che hanno onorato la riunione di questa sera, senza sottacere degli illustri personaggi che sono seduti qui di fronte a noi: signore amabilissime, professionisti, miei colleghi dell’Università, il mio Presidente, il presidente della l^ associazione della Facoltà di Scienze Turistiche dott. Bilo, prof. Giannella, insomma c è una parte della Facoltà delle Scienze Turistiche qui questa sera, me li sono visti arrivare così all’improvviso. Quindi, dicevo, certamente il prof. Pagliara ha parlato di questo buco che lui riempirebbe di una serie di contenuti, e certamente a lui non sarà sfuggito, oltre il contenuto tecnologico, il contenuto culturale, ma, io direi una cosa: il turismo oggi non si identifica più nella figura del turista, dell’antico vacanziere, cioè del perigiorno, di colui che cammina appunto per trascorrere la giornata. Se è vero come è vero che in molti centri il turismo rappresenta una delle voci sostanziali nell’economia, nelle risorse economiche, è pur vero che nulla piove dal cielo. Oggi il turismo, se noi vogliamo essere competitivi, bisogna che il turismo abbia una qualificazione, una riqualificazione per quelli che sono o si sentono già qualificati a livello da poter competere con i paesi anche addirittura con quelli che ci sono, anche, di fronte del bacino mediterraneo; per sottacere di quelli che sono poi i paesi Caraibici, io conosco molto queste zone perché mi sento un vacanziere di professione e poi perché non si possa guidare una struttura turistica se non si è a conoscenza di qual è il turismo in quasi tutte le zone del mondo. Oggi bisogna investire nel turismo, investire nella professionalità, Noi della Libera Facoltà delle Scienze Turistiche, il professore Fragola, innanzitutto a cui va in questo momento il nostro, il mio pensiero e certamente credo di associare anche il vostro, che circa 30 anni fa ebbe l’idea di creare una facoltà del turismo; oggi tutti o quasi tutti sono approdati, compreso lo Stato attraverso l’istituzione di un corso di laurea breve in gestione dei servizi turistici e anche addirittura con due corsi quadriennali uno a Rimini e un altro ad Assisi, si è arrivati nella determinazione che il turismo è una scienza, e una scienza ed esperienza come diceva ancora il prof. Fragola nei suoi volumi. Bisogna investire in turismo. Si investe in turismo destinando un impegno costante, oltre ovviamente a economie vere e proprie, se si vuole che ritornino persone attrezzate perfettamente alla guida di complessi turistici di prim’ordine, perché nessun mai operatore economico che ha investito in una struttura turistica fior di miliardi, si permetterà di affidare la gestione di queste strutture a persone che abbiano una preparazione che gli viene soltanto dal livello casereccio, cioè nel senso che hanno imparato facendo i camerieri in qualche altra parte, poi passando alla gestione dietro i fronteschi e così via di seguito per cui noi andiamo diffondendo da anni questo concetto della preparazione scientifica nel campo del turismo e oggi se ne avverte più che mai questa necessità. Ora questo discorso, se può rappresentare ancora una volta parole, diciamo che sono completamente superate, nel senso che oramai fanno parte della coscienza di tanta gente, io credo che questo messaggio venga destinato essenzialmente ai politici. I quali politici sono oggi responsabili e con loro sono i destinatari delle sorti delle proprie città, dei propri paesi, dei propri agglomerati. Io sono convinto, perché mi è piaciuto molto il discorso, l’incontro avuto con il sindaco di questa città, sono convinto che i sindaci delle città vicine sono allineati nello stesso pensiero. C’è un grande desiderio di sfondare le aree interne superando la strategia che oggi c’è un avvicinamento alla costa molto più rapido di una volta, perché magari collegato alla costa attraverso una strada all’interno veloce, si può raggiungere la costa.
        Signori, ma non è, il problema delle aree interne non è che le aree interne possano avvicinarsi più velocemente alla costa, il discorso e completamente opposto: è che bisogna consentire alla gente della costa di avvicinarsi più rapidamente alle aree interne, se vogliamo che queste aree interne non servano sempre e soltanto per supporto qualitativo poco, ma quantitativo molto come ciò che avviene sulla costa. Quindi il problema delle aree interne può essere superato proprio dalla proposta del prof Pagliara, perché individuando un’agorà, lui la chiama così e voglio ripetere le sue parole perché lui nella parola “agorà” vuole dire tutto il mondo della città greca che poi divenne, ecco, divenne poi nell’interno della città di Roma, un’altra struttura che annoverava oltre alla agorà hanno, ma anche i mercati, come nel caso dei fiori, mercati traiani, traianei, l’Arco di Traiano...Ma, innanzitutto, la basilica che era un elemento di collegamento, esiste sia nel mondo greco che nel mondo romano che aveva una funzione particolare: si amministrava la giustizia all’interno della basilica, però si discuteva, si apprendeva, si dialogava. Si faceva cultura si trasmetteva il proprio pensiero. Allora, ben venga questa città, purché questa città, oltre ad essere, sostenuta da contenuti architettonici, che saranno senz’altro meravigliosi, vengono riempiti questi vuoti e ... Signori politici ... il difficile sta proprio là. A noi a Caserta, io ho fatto il vice sindaco della città di Caserta, il problema quando è sorto? Non quando abbiamo dovuto recuperare i soldi per mettere a posto il Belvedere di S. Leucio, il  problema è oggi quello di destinare la struttura che diventi produttiva: che sia un museo vivo, che ci siano delle strutture internamente che facciano rivivere quelle che sono state gli splendori dell’arte di Caserta. Forse oggi diventa più facile reperire i fondi, ci sono i fondi europei ... Ma il problema diventa difficile quando bisogna scegliere ciò che bisogna fare o mettere in questi contenitori. Il professore Pagliara certamente ha disegnato da par suo questa città che, ripeto, non è, lui l’ha definita da Indipendence Day, una città praticamente del futuro, io dico che è una città del presente. Però gli artisti, come il prof. Pagliara, disegnano le cose, danno le idee ... Signori miei perché questa città, questa agorà, possa non essere soltanto una agorà da consegnare ai sogni, ma una agorà della realtà, io penso che il lavoro è tutto vostro. Auguri

Dr. Rocco Colicchio
       
E’ quello che stiamo facendo stasera, stiamo cercando di riempire quel famoso "buco nero" incominciando dalla cultura; la cui mancanza, tra l’altro, unitamente all’incapacità imprenditoriale è alla base del sottosviluppo delle aree interne. Noi tenteremo di colmare questo vuoto.


“UNO SGUARDO AL PASSATO”

L’AMMINISTRAZIONE DOMENICO NETTI

agosto 1860 - luglio 1867

a cura del consigliere comunale prof. Giuseppe Vito Palumbo

        Domenico Netti (1805-1883) nacque a Vallata da Don Francesco e da Donna Angiola Bufalo.
    Ricoprì la carica di Sindaco dall’agosto 1860 al luglio 1867 e quella di assessore nell’amministrazione del cav. Michele Netta dal 1867 al 1877. Di idee liberali fu  indiziato nella congiura del barone Salvatore Sabriani, il quale voleva staccare il Ducato di Benevento dallo Stato Pontificio.
    Per aver minacciato insieme ad altri il sindaco Nicola Cataldo, fu chiamato in giudizio dal giudice regio di Castel Baronia.
    Dagli atti di Giunta del Consiglio, si desume che l’attività più febbrile dell’amministrazione Netti si è svolta dal 1861 al 1864, anche se bisogna rilevare che manca il registro degli atti di Giunta e di Consiglio del 1865 e per quanto riguarda gli anni 1866-67-68 vi sono solo quelli sottoposti al visto della Prefettura.
    Dagli stessi si rileva che l’amministrazione di Domenico Netti affrontò i seguenti problemi: 
    - Sovvenzione alle famiglie dei martiri politici caduti in Ariano Irpino;
    - Organizzazione della Guardia Nazionale di Vallata;
    - Strada rotabile Vallata - Formicoso - Melfi, ora SS. 91;
    - Istruzione

OPERE PUBBLICHE       Strada Vallata - Consolare Melfi

    L’amministrazione Netti pose particolare attenzione al problema del collegamento con la consolare di Melfi. La costruzione della strada rotabile Vallata - Formicoso, strada che sarà terminata nel successivo secolo XX, iniziò nel 1861, anno in cui il Consiglio di Governo della Provincia assegna la somma di 2000 ducati. L’amministrazione comunale delibera di rilevare la somma "perché possa essere spesa da una commissione di eletti cittadini, in via economica ed amministrativa, sul doppio scopo di vedere attuato sollecitamente la costruzione della strada e provveduta di lavoro la classe povera" (delibera del 20 febbraio 1861) ed incarica l’ing. D’Aniello Napolitano, prescelto a preferenza a redigere un progetto il più economico possibile. In pochi mesi vengono costruite due miglia napoletane di strada, però la somma assegnata finisce presto e per completare le altre tre miglia occorrono ancora 4000 ducati circa; da reperirsi: 
    “la metà della somma mediante sforzi il Comune può spenderla, l’altra metà l’augusto Sovrano non dimenticava dare un occhiata alla bisogna dei Comuni “.
    Infatti, il Consiglio dei Ministri, tenuto in Napoli, deliberava che si “accordassero anticipazioni di  fondi ai municipi della Italia Meridionale, onde attivassero nel rispettivo territorio spese pubbliche di riconosciuta utilità“. Così l’amministrazione di Vallata deliberava e pregava le Autorità superiori di “accordare a questo Municipio un sussidio di ducati 2000 per completare un opera di somma utilità alla patria” (delibera del 24-5-1862).
    La richiesta di contributo viene ripetuta con delibera del 24 agosto 1862; ma non avendo nessuna risposta il Consiglio Comunale, su proposta del Sindaco di "sospendersi il ratizzo delle opere pubbliche provinciali, sino al totale compimento di detta opera, sulla considerazione che per lo elasso di anni 52, questo Comune ha sempre contribuito al pagamento senza il nessuno vantaggio” (delibera del 26 ottobre 1862). La protesta sortisce il suo effetto in quanto il 2 ottobre 1863 con circolare prefettizia viene anticipata la somma di £ 455.423,03 per opere pubbliche. In tal modo il Consiglio chiede il permesso di utilizzare la somma per la ripresa dei lavori della strada Vallata - Formicoso (delibera 20 ottobre 1863), poi, ritornando sull’argomento (delibera del 28 agosto 1864) per rispondere ad una circolare prefettizia del 10 agosto 1864 n. 2332, avente per oggetto “dichiarare quale rete stradale sia necessaria per questa Comunità dichiararsi provinciale “, ribadisce l’urgenza della costruzione della strada, quale porta di accesso alle principali vie di comunicazioni capace di rompere il secolare isolamento in cui versava tutta l’economia locale.

SOVVENZIONI

  1.     Silverio Zamarra - figlio di Giuseppe, morto nella reazione di Ariano del settembre 1860. chiede una sovvenzione al Governatore della Provincia; questi trasmette la domanda al Decurionato, che nella riunione del 3 febbraio 1861, considerando vero l’esposto dello Zamarra e che la famiglia è “priva di ogni bene di fortuna”, delibera unanimemente di assegnare 10 ducati. In seguito, il fratello Vito Zamarra chiede di essere nominato guardiano rurale e si lamenta che ancora non gli sia stato consegnata la somma assegnata alla famiglia. Il Decurionato delibera che si “riserba di tenerlo presente per altra carica nella prossima elezione”, e rileva che “essere di già stata consegnata la somma di ducati dieci al cassiere comunale”.
  2.     Antonia Santa Nigro - moglie di Gaetano Gallo, altro caduto nella reazione di Ariano rivolge anche lei domanda per una sovvenzione al Governatore della Provincia. Questi chiede conferma all’amministrazione comunale, che con delibera del 24 agosto 1861, non si sa perché, forse perché non era persona influente, comunica al Governatore “l’attuale posizione di manifesta miseria in cui vive la individua” e spera che “questa manifestazione varrà all’infelice Nigro per conseguire il suo scopo”. Il personaggio che effettivamente fu un perseguitato politico fu Gaetano Monaco (cfr A. Saponara Vallata durante i moti risorgimentali).
        Anche il Monaco chiede una sovvenzione all’Intendente del Circondario, che con nota del 2 febbraio n° 190 domanda il parere del Consiglio per un sussidio. Il Decurionato attesta, così come ha deliberato per la Nigro, che “D. Gaetano Monaco da Vallata prima appartenente ad agiata famiglia, e che per patriottiche esigenze ridotta a stato lacrimevole è meritevole di una sovvenzione non meno di ducati 15 mensuali vita sua durante, “ pero... da richiedere al “Monte delle sovvenzioni”, ma con delibera del 8 marzo 1861 il Consiglio” fa rilevare che per mero sbaglio proponeva un cespite non conosciuto e raccomanda “alla pietà del nuovo Governo perché s’abbia un decente mensile atto a sollevare un infelice.., che vive nel più positivo bisogno”. In seguito il Monaco si rivolge al Governatore per essere nominato Cancelliere comunale. Il Decurionato, con delibera del 25 aprile 1861, riconferma i motivi di una sovvenzione, però “stima la carica di Cancelliere incompatibile con le attuali condizioni di salute del detto Monaco perché settuagenario comunque abilissimo per la scrittura e delibera che  “sia accordata  e presto al povero vecchio la demandata pensione”.

ISTRUZIONE

    Dopo l’annessione del Mezzogiorno al Regno d’Italia, fu estesa anche al Sud la legislazione scolastica in vigore nel Regno Sardo. Anche a Vallata furono istituite le prime due classi sia maschili che femminili, amministrate direttamente dal Comune, che provvedeva alla nomina dei maestri e alla corresponsione dello stipendio fissato in ducati 80 per il maestro (bilancio di previsione 1862).
    Uno dei primi provvedimenti presi dal Consiglio fu la nomina a maestro primario di Don Annibale Gerundo di Don Gaetano (delib. del 28 ottobre 1861). 
    La nomina del Gerundo fu duramente contestata dal consigliere Porfidio Zamarra il quale affermò che a "per scrupolo di sua coscienza” non poteva essere nominato maestro primario perché “non è del  colore, è borbonico, spione contro gli attendibili” di più “non è capace di mantenere la scuola, perché non impone sogezione ai scolari ed ogni giorno faceva cozzoviglia quando teneva scuola". Lo stesso consigliere nella seduta consiliare del 2 gennaio 1862 alla riconferma del Gerundo, a scrutinio segreto, con 15 voti favorevoli e 2 contrari, rinnova le accuse precedenti e aggiunge “la maggior parte dei Consiglieri sono parenti ed egli è debitore del Comune, come erede del padre e per non pagare fece la rinunzia all’eredità paterna fittizia come potrà rilevarsi dallo stesso discusso".
    La Giunta Municipale con deliberazione del 6 gennaio 1862 (G.M. Gerundo Giustino, Bufalo Domenico, Gallicchio Biagio, Cirillo Pietro, Novia Alfonso) comunica al Sottoprefetto che le accuse mosse dal Porfidio Zamarra sono state fatte per “inimicizia privata, e ciò è insorta per una causa civile” mentre il Gerundo aveva sempre nutrito sentimenti liberali e si era recato ad Ariano per la proclamazione del Governo provvisorio ove “poco mancò che non fosse rimasto vittima di quella infame reazione “
    Anche nella nomina della maestra elementare vi fu una contestazione in quanto, nella terza proposta, la maestra Donna Pasqualina Villani fu Eliodoro non ebbe la maggioranza e il Consigliere Villani fece osservare “che secondo le disposizioni ministeriali gli impiegati che avevano svolto servizio per qualunque periodo di tempo debbono conservarsi in ufficio” così anche l’attuale maestra signora Villani perché ha servito per lo elasso di anni venti” (da ciò si evince che nacque prima dell’Unità, a Vallata funzionava una scuola elementare primaria). 
    Nel Consiglio del 17 giugno 1862, alla presenza dell’ispettore scolastico, la Villani viene dimessa perché “scoraggiata dalla difficoltà di produrre innanzi il programma per la scuola delle fanciulle e come si richiede dalle attuali libere istituzione perlocchè ha disertato dalla scuola preparatoria aperta nel capoluogo della provincia” contemporaneamente una ragazza di Vallata, Maria Domenica Del Campo fu Michelangelo, frequentava come allieva “all’assistenza alla scuola magistrale” di Avellino con il contributo del Comune di £ 25,50 mensili perché la giovinetta “legalmente povera e orba di ambo genitori" (delibera del 5 giugno 1862). Nella seduta del 17 giugno 1862 il Consiglio nomina la Del Campo a maestra delle fanciulle. Sia la Del Campo che il Gerundo vengono riconfermati per il 1863. 
    Nella stessa seduta viene nominata una commissione di vigilanza nelle persone di Netta cav. Michele, sovrintendente; commissari Novia Alfonso, De Gennaro Pietro, Pavese Tommaso, Fùria Giuseppe Nicola, Pennella Gaetano, Il 27 ottobre 1864 gli stessi maestri vengono nominati per un triennio.
    Il sacerdote De Gennaro Pasquale si fa promotore di una scuola “serotina popolare” e offre la sua opera i spontaneamente e gratuitamente. Il Consiglio elogia il sacerdote e “l’esulta ad istruire le masse potendosi servire de/locale della scuola elementare ove troverà il necessario, come lume, fuoco ed altro occorrente". 
    Il Comune di Vallata contribuiva con ducati 62,66 al funzionamento del Collegio Nazionale di Avellino e aveva il diritto di proporre qualche concittadino meritevole al godimento della Piazza o mezza Piazza (del posto gratuito o semigratuito), però con delibera del 24 ottobre 1861 il Consiglio Comunale per la scarsezza delle rendite comunali delibera di sopprimere il “ratizzo” per “investirlo in altre cose urgenti” e  anche perché “per moltissimi anni un giovinetto del Comune si è giovato della piazza nel Collegio, ma questa è stata sempre vuota e qualche volta occupata da persona non del Comune (delibera del 24ottobre 1861). Il Sottoprefetto del Circondario con nota del 10 ottobre n. 9583 invita l’Amministrazione a pagare il ratizzo al Real Liceo Ginnasiale di Avellino. La Questione viene riproposta dal Consiglio Comunale nella seduta del 26 ottobre 1862 che riconferma quanto detto precedentemente perché l’Amministrazione "trovansi in tale deficit che per sopperire.." e costretta a mettere delle privative. La stessa motivazione viene riproposta nella delibera CC del 10 aprile 1863, con la quale, ribadendo che la spesa non è obbligatoria, rinunzia per sempre al beneficio della mezza piazza. Successivamente l’amministrazione sarà costretta al pagamento del ratizzo.. 


ESPOSTO DI CITTADINI

        Il Consiglio Comunale, nella seduta del 24 maggio 1864, esamina un esposto da parte dei cittadini, che si lamentano di non essere ben serviti dal  chirurgo condottato Cataldo Pasquale “perchè non vuole assistere e anche perché è fisicamente impossibilitato...affetto da miopia”. Il consigliere Novia Celestino chiede che venga destituito. La proposta viene approvata con otto voti favorevoli e sette contrari. Il Consiglio (seduta del 39 giugno) ritorna sull’argomento per esaminare la domanda di pensione di ritiro presentata dal Cataldo per motivi di salute e per l’età. Il consigliere Novia ne contesta la domanda, perché essa è “ingiusta e bugiarda. E’ ingiusta perché il Cataldo ha presentato la domanda dopo che era stato sfiduciato dal Consiglio per aver demeritato. E’ bugiarda perché il Cataldo fu autorizzato alla professione chirurgica nell’anno 1833... con la clausola di vecchio mercante, per la qualcosa vi abbisognarono molti falsi documenti..chiamate a vista quelle carte comprate dal favore del dispositismo e ne verrete il vero”. Successivamente il Cataldo dal 1833 al 1836 brigò per far destituire il Chirurgo Netti Pasquale, e nei moti del 1849, nella qualità di sottocapo urbano denunziò come attendibili i medici condotti Quaglia Donato, Netti Michele e Zamarra Giocondo. Nel 1845 per non assistere gli ammalati colera si diede ammalato. Alla fine delle accuse il Novia conclude: “In coscienza Cataldo sarebbe tenuto a restituire al Comune 12 anni di condotta medica esercitata per l’arbitrio dei tempi passati" . Non tutto il Consiglio è d’accordo con il consigliere Novia, anzi il consigliere Gerundo fa osservare che le accuse del Novia sono un atto di viltà perché il Novia fino al 1863 aveva lodato il Cataldo e che le accuse scaturirono perché “nel decorso maggio il Novia venne a pubblica rissa col Cataldo”. 

OPERE PIE E LAICALI

        Dopo l’Unificazione del Regno le varie istituzioni di beneficenza confluirono nella Congregazione di Carità, istituita nel 1862; questa amministrò tutti i beni laicali sino al 1937, anno in cui vennero soppresse le Congregazioni di Carità e venne istituito l’Ente Comunale di Assistenza (ECA).



1 - Fonti Storiche intorno alla Battaglia di Vallata con particolare riferimento a Paolo Giorno 
Prof.ssa Maria Gabriella Cruciani - Università degli Studi di Salerno


        Non credo sia necessario, in questa sede, iniziare la relazione ricordando ancora una volta chi furono i protagonisti della battaglia di Chianchione, o l’esito che essa ebbe: quello che qui si cerca infatti è un ampliamento ed un approfondimento delle conoscenze, condotti entrambi in modo scientificamente ineccepibile, visto che lo svolgimento degli avvenimenti - dei cosiddetti “fatti” - è ben noto nelle sue linee essenziali. “Ricerca i documenti storici del periodo e scrivere indelebilmente la Battaglia con criteri scientifici” recita non a caso il sottotitolo del Convegno. 
        Per provare a rispondere anche solo in parte a tali richieste di approfondimento, ritengo sia utile rileggere l’articolo che nel 1963 Don Arturo Saponara, arciprete in Vallata, pubblicò nella rivista Economia Irpina. E questo perché tale articolo non solo ha gettato le basi ed ha fissato le coordinate del discorso storiografico sulla battaglia, ma ha continuato a svolgere il ruolo di griglia interpretativa anche per gli studi successivi e più recenti1. In un certo senso, credo che si possa affermare che la battaglia di Chianchione sia diventata oggetto suscettibile di indagine critica e di dibattito proprio grazie alla lettura che a suo tempo ne ha dato il Saponara. 

  1. Non c è dubbio che al Saponara stava molto a cuore raggiungere una conoscenza “certa” dei fatti accaduti a Vallata, realizzare una ricostruzione effettiva dell’evento bellico e delle cause che l’avevano provocato; e proprio per ottenere ciò era ricorso all’aiuto di tre fonti che dell’evento ci danno notizia, e cioè le Historiae sui temporis libri XLV di Paolo Giovio; le Chroniche del marchese di Mantoa di Jacopo Probo d’Atri; ed alcune lettere conservate nel fondo Archivio Gonzaga dell’Archivio di Stato di Mantova2.
    Se le analizziamo bene, vediamo che si tratta di fonti che hanno caratteristiche dissimili per quel che riguarda il rapporto temporale. Le lettere infatti sono un documento scritto sicuramente in contemporanea all’evento, mentre le Historiae sono state scritte sicuramente dopo l’evento; le Chroniche, dal canto loro, dal punto di vista della stesura, rimangono in un area indeterminabile ma vicina all’evento. Tutte e tre le lettere sono comunque riconducibili all’ambiente mantovano, dal momento che di due di esse è autore il marchese Francesco Gonzaga in persona, che è anche il maggior protagonista3.
    Ma anche la seconda fonte citata dal Saponara, le Chroniche del marchese di Mantova, è riconducibile alla corte gonzaghesca. Del suo autore, Jacopo Probo d’Atri conte di Pianella, parlerò comunque più diffusamente in seguito. Rimarrebbe, dunque, una sola fonte non riconducibile all’area mantovana, le Historiae per l’appunto, che proprio per questa lontananza dall’evento dovrebbe rappresentare la fonte meno attendibile, trattandosi di una battaglia.
    Pure ad una lettura attenta dal rapporto che il Saponara instaurò con tutte e tre le fonti risulta chiaramente che, tra tutte, è proprio il racconto di Giovio a godere ai suoi occhi, di indiscussa autorevolezza: le Historiae vengono da lui scelte come fonte di piena certezza nei momenti in cui, abbandonata la cronaca, va alla ricerca di giudizi di altro valore: quando vuole capire il comportamento, i sentimenti, lo spessore dei protagonisti dell’evento; quando, in breve, si sposta dall’obbligo cronologico del tempo lineare al piano del discorso storico, dove entra in gioco il dilemma bugia/verità.
    E infatti al resoconto gioviano egli pone, da subito, una serie di domande di ordine cronologico; ma quando la richiesta non gli pare venga esaudita si rivolge al documento d’archivio, per aver notizie del come e del quando, considerandolo più attendibile solo da questo punto di vista. Così accade, ad esempio, quando non trova nel racconto dello storico fiorentino la conferma della data precisa della battaglia (“DATA DEL MEMORABILE AVVENIMENTO. Il Governo non la indica, Il lettore è costretto a domandarsela4”) solo allora si rivolge alla fonte
    archivistica, ai documenti dell’Archivio ed alle Chroniche. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che egli usa il documento archivistico per fissare le coordinate spazio-temporali, il dove e il quando dell’evento, perché ritiene che sotto quest’aspetto la fonte in questione non abbia interesse a mentire, anzi sia in assoluto la più esatta; ma quando vuol sapere il “vero” numero delle vittime è ancora - e cito le sue parole esatte - all”’illustre Istoriografo” che si rivolge, perché è di lui che si fida: “Il Governo poco più di mezzo secolo dopo una coscienza di storico è chiaro: estende il massacro a quasi tutti gli abitanti: quindi non solo agli uomini.. Molte donne, dalla soldataglia ubriaca di sangue furono trucidate... Il Gonzaga non vuole l’onta di una strage estesa anche alle donne5’.

  2. In base a quale motivazione storiografica, in base a quale ragionamento, il testo di Giovio è stato considerato carente, sì, sotto il profilo avvenimentale, ma talmente affidabile sotto il profilo critico da vincere quanto raccontano al riguardo le fonti di prima mano? 
        L’atteggiamento del Saponara, verso le Historiae diventa comprensibile se lo si colloca nel contesto più ampio della fortuna -tipografica e storiografica - di cui sin dall'inizio ha goduto l’opera di Giovio.
        Diversi studi critici hanno ribadito come, a partire già dalla metà del Cinquecento, sotto l’etichetta di Paolo Giovio sia circolato in realtà un gruppo di “testi” tratti dalle opere di Giovio, ma cuciti assieme in seguito ad un intervento tipografico. Facile da consultare, questo gruppo di “testi” ebbe grande circolazione, fino a diventare il repertorio di riferimento privilegiato per gli avvenimenti relativi al periodo compreso tra la discesa di Carlo VIII ed il sacco di Roma; e questo per lungo tempo6.
        È corretto, quindi, presumere che anche la scelta compiuta dal Saponara, di privilegiare la ricostruzione così come ci viene presentata nelle Historiae, sia da far risalire a questo paradigma storiografico stratificatosi nei secoli, a questa identificazione tra “testi” di Giovio, Historiae e narrazione delle “guerre orrende”, prima, tra Giovio e le “guerre orrende” tout court in seguito, e tra Giovio e la narrazione della reale entità del massacro di Vallata infine. 
        Ma quanto si è venuti dicendo non esaurisce i problemi che le Historiae pongono a chi voglia servirsene come fonte di prima mano, senza verificarne la natura e le modalità di produzione.
        Un approccio simile al testo risulta inapplicabile proprio per le caratteristiche intrinseche, direi quasi genetiche dell’opera gioviana, per la stessa visione della scrittura della storia. Le Historiae non sono state concepite come un testo chiuso, una narrazione rigida all’interno della quale trovare risposte a quesiti di ordine cronachistico, ma sono scaturite da una concezione della scrittura della storia di tutt’altro tipo: di opera aperta, di “work in progress” è stato detto, di un lavoro che, per essere compreso ed essere fruito appieno, ha bisogno di continue integrazioni e specificazioni7. Ed è per questo che “Sarà perciò necessario che sul grande albero degli Historiarum sui temporis libri il lettore postero (e soprattutto esperto) sappia innestare organicamente (e, proprio in virtù delle lacune, a ragione replicata) tutte le altre composizioni storiche di Paolo Giovio, o per meglio dire, tutti gli altri suoi libri (sia quelli già stampati, che quelli progettati ed ancora da stampare); dalle varie Vitae ai moltissimi Elogia in primis et ante omnia, ma anche, per esempio, le Descriptiones, e per contiguità di logica ed affinità tematica (anche se non per identità di idioma), dal Comentario de le cose de’ turchi... fino alle Lettere volgari e al Dialogo dell’Imprese militari et amorose; libri che, nella loro poliedrica globalità andranno a “supplere et resarcire” il non scritto o il sottaciuto8.
        È stato ancora Giovio a spiegare lo scopo di questo lavoro integrato. Esso doveva servire a supplire alle parti incomplete e mancanti delle Historiae, ma anche a fare in modo che “il lettore curiosus potrà “diligentemente” invenire l’esatta textura della storia (vale a dire, potrà attingere una quantità abbondantissima di informazioni supplementari e completive) attraverso la lettura delle altre opere del medesimo scrittore9”.
        Le Historiae prese da sole, dunque, non esauriscono il lavoro storiografico di Giovio, ma vanno affiancate al resto delle opere. E, tra tutte, non v'è dubbio che un posto di primo piano debba essere assegnato all’epistolario, alle Lettere Volgari, dal momento che “Almeno fino al 1546, l’epistolario costituisce il testimone fedele del suo (di Giovio, n.d.r.) lavoro per accrescere ad ampliare gli Historiae io”. 

  3. Le Lettere, in volgare e in latino, sono dunque una fonte indispensabile sia per l’apporto di conoscenze di ordine documentario che esse offrono, sia per le connessioni con la sua storiografia11. E però prassi corretta, prima di usarle come fonte storica, verificarne la riducibilità a materiale documentario. Detto in altre parole, occorre essere certi che sia lecito trattarle come un documento. Perché è necessaria questa precisazione? Perchè le Lettere di Giovio, come del resto le altre raccolte epistolari del Cinquecento, possiedono una natura molteplice, essendo nello stesso tempo sia espressione dell’autore, sia genere letterario, sia prodotto culturale realizzato dalle tipografie per il “mercato delle letterel2”.
        Per risolvere la questione senza entrare nel merito di un discorso complesso come quello sull’epistolografia cinquecentesca, possiamo rifarci alle conclusioni cui è giunto il Longhi, studioso della materia, secondo il quale nell’epistolario del Giovio, come in quello del Machiavelli, è riconoscibile il valore di una lettura documentaria. Scrive infatti Longhi: “la strada da non seguire ...è quella di ...leggere gli epistolari [naturalmente il riferimento è agli epistolari cinquecenteschi, n.d.r.] come puro riflesso di precisi referenti storici, cioè d’intendere, alla maniera positivista, la lettura come documento di fatti personali o pubblici.., il che, se pure è possibile, come nel caso del Machiavelli ... e del Gioviol3”.
        Ed allora, se tale operazione è lecita, non possono non essere presi in considerazione i rimandi continui che vi sono contenuti ad almeno tre personaggi di spicco della corte mantovana, a Mario Equicola, cioè; a Jacopo Probo d’Atri conte di Pianella, già ricordato all’inizio; a Giovan Jacopo Calandra, nonché ad altri dotti a volte citati, a volte indicati genericamente come l’Accademia. La corrispondenza che coinvolge questi personaggi del mondo mantovano è numericamente copiosa in proporzione al corpo totale delle missive rimasteci, ed è esaustiva dei rapporti che hanno legato tra loro i corrispondenti, delle esigenze reali che erano sottese a queste amicizie. Si vede così come si sia trattato di interessi di ordine politico, culturale e personale intrecciati tra di loro in modo tale che è impossibile valutare quale dei due sia stato preponderante.
        Per l’arco di tempo 1521 - 1525, è proprio l’Equicola, familiarmente chiamato “Messer Mario” a troneggiare tra i corrispondenti, a colpire per la sua presenza costante, fianco a fianco di altri personaggi di grande rilevanza politica, le lettere a lui indirizzate e che sono giunte fino a noi sono diverse, ma ancora più dovevano essere quelle di cui abbiamo perso traccia, o quelle da lui spedite in risposta, se nel 1524 Giovio arrivava a lamentarsene scherzosamente “Messer Mario”, Voi avete deliberato di seppelirme con le vostre amorevole e galante letterel4”.
        Con l’Equicola lo scambio è a tutto campo: c’è scambio di favori (un esempio tra tanti, la richiesta di ritratti di uomini illustri “Onor.mo messer Marco, Perché la liberalità non si conosce manco in richiedere che in dare, io ardirò de repetere la già donata a me da Vostra Umanità, le effigie del poeta Carmelita15”); e scambio di informazioni e notizie politiche. E, naturalmente, resoconti articolati delle attività che egli va svolgendo in favore dei Gonzaga, attività che raggiunsero la punta massima d’impegno quando dovette adoperarsi affinché il marchese Federico venisse nominato capitano generale dell’esercito della Chiesa16.
        Il punto che qui più interessa è però un altro ed è la rivelazione che dal 1521 al 1525 l’Equicola è stato strettamente coinvolto nella realizzazione delle Historiae, facendo da tramite tra Giovio ed un gruppo di personalità del mondo culturale e politico mantovano. Al proposito le lettere non lasciano dubbi: l’invito esplicito rivolto ad esponenti di così alto livello affinché gli correggano i brani delle Historiae è sintomo inequivocabile di un legame strettissimo con i personaggi delle corte medesima. 
        Vediamo dunque che l’Equicola è aggiornato sulle varie fasi della redazione delle Historiae: alla fine di febbraio 1523 Giovio è a Venezia e gli scrive che “Adesso qua in Venezia assai ocioso acconcio el primo libro17”.
    Sempre l'Equicola è prodigo di lodi verso il lavoro di cui va prendendo visione mano a mano che viene scritto: nel giungo 1521 Giovio gli è molto riconoscente per i complimenti che ha profuso alle sue Historiae e promette di mandargliene altre parti:

    “Si ea laus, qua meas historias extulisti, ab
    ingenui animi iudicio potius quam ab officiis
    veteris amicitiae proficiscitur, gratias tibi ago
    immortales, doctissime Mari, quando me 
    vadentem suspenso gradu ac ingenii
    diffidentem viribus hac spe immortalitatis
    proposita ad ulteriores labores accenderis.
    Quis enim a laudatissimo viro laudatus
    aliquem futurae aeternitatis fructum non
    praesenserit? Sed tantum abest ut hac tua de
    me Iaude elatus aliquid de vetere scribendi
    diligentia remittendum arbitrer, ut in
    posterum acriore industria maioreque conatu
    contendendos mihi omnes eloquentiae nervos
    esse existimem, ut qui haee tenuissimi ingenii
    monumenta, humanitate atque benevolentia
    inducti, probastis, alìquando iure laudare
    possitis18”.

        Ma Soprattutto, l’Equicola è l’intermediario con il mondo culturale e politico formato dai dotti dell’Accademia. E a lui e, tramite lui, a quel gruppo scelto, che vengono inviate continuamente parti delle Historiae, perché non solo essi ne discutano, ma vi apportino le correzioni necessarie.

    Così Giovio conclude la lettera sopraccitata
    chiedendo l’intervento dell’Equicola e dei
    dotti mantovani,
    Cetetrum quum Bellona, quae flagellum
    sumpsit, furere desierit, aliquam partem
    historiae transmittam ut abs te Mantuanisque
    ingeniis politior efficiar19.

    e nel maggio dell’anno successivo, invia il nono libro delle Historiae perché l’Equicola lo riveda insieme all’Abbatino e gli hltri dell’Accademia, anticipandogli che invierà altri pezzi dell’opera,

    Doctissime et felicissime Mari, Abbatinus
    vester petasatus ac totus itineri accinctus
    postulavit uti aliquem librum cx historiis meis
    lectitandum ab Academia Mantuana sibi
    traderem. Id lubenter feci, mittoque nonum
    librum, alios trasmissurus, quum is ad
    proprios lares, longe politior factus, redierit20.

    a giugno, poi, aspetta trepidante la restituzione dell’opera, con le correzioni apportate dai mantovani,

    Expecto, et quidem avidissime, ut librum
    nonum, quem proximum vobis lectitandum
    transmlsi, castigatiorem et cultiorem ad me
    remittatis: quod ut severissime etiam faciatis
    vehementer vos omnes bonos et studiosos
    rogo21.

    chiedendogli ancora di salutare a suo nome le personalità importanti e i dotti dell’Accademia.

    “Gratissimunque Iovium feceris si auspiciis
    tuis in amicitia Mantuanae nobilitatis atque
    Academiae fuerit confirmatus22”.

  4. La constatazione che parti delle Historiae sono state lette e corrette nella corte mantovana apre nuovi interrogativi anche in ordine all’argomento che ci riguarda. Non ci si può non chiedere in che cosa sia consistita questa lettura; quali parti delle Historiae è presumibile siano state lette: in che cosa si sia sostanziata la correzione; se, e se sì in che misura, l’entourage del Gonzaga abbia avuto influenza sulla stesura, sulla descrizione di alcuni eventi o sulla raccolta stessa delle informazioni. E da quest’ultimo interrogativo al domandarsi se sia possibile, tramite un approfondimento del rapporto Giovio-Gonzaga, acquisire un qualche elemento in più attorno alla descrizione della battaglia di Vallata, il passo e breve. 
        Rispondere non è certo facile. Un fatto è comunque assodato: i mantovani non ebbero l’esclusività della lettura in corso d’opera. Giovio, è ben noto, spedì brani delle Hisoriae un pò ovunque, presso le varie corti; ed anzi, proprio questa sua pratica è stata alla base di alcuni giudizi fortemente critici del suo valore di storico credibile23. Ma questa stessa pratica può servire anche a rafforzare l’ipotesi che egli abbia fatto uso del mondo mantovano per scrivere le parti delle Historiae in cui Mantova fu la protagonista. 
        Lo confermerebbe innanzitutto la statura dei corrispondenti mantovani. L’Equicola, il Calandra, il d’Atri, furono personaggi notevoli di quel mondo, figure d’estrema importanza. Da qui la necessità, per proseguire nel discorso, di un brevissimo cenno biografico. Innanzitutto, l’Equicola. Il “curriculum vitae” di questo umanista di origini meridionali, e la mole cospicua di studi fioriti attorno alla sua figura non lasciano dubbi sul ruolo di primo piano svolto a partire dal 1509 fino al 1525, anno della sua morte: detto assai in breve, l’Equicola è stato precettore della marchesa Isabella dal 1507 al 1519 e dopo la morte di Francesco Gonzaga, segretario ed ambasciatore in Francia; nel 1520, segretario e braccio destro del successore Federico; nonchè tenace tessitore della politica pro-gonzaghesca presso Clemente VII24. Un personaggio di “grande esperienza cortigiana ... maturata nelle più celebri corti dell’Italia padana2s”, per dirla con il Prosperi. Così come è stata prestigiosa la carriera di Giovan Jacopo Calandra26, sempre presente nell’epistolario pervenutoci come referente indiretto, (in una sola lettera risulta destinatario): castellano prima, poi segretario e soprintendente della cancelleria gonzaghesca di cui ebbe la direzione vera e propria; ambasciatore e politico a tutto campo soprattutto a partire dalla morte del marchese Francesco, dal 1519, cioè dal periodo in cui  “Dalle missive rimaste in Archivio è chiaro che tutto [il corsivo è mio, n.d.r.] si concertava tra Isabella, il card. Sigismondo, Federigo, lo Equicola, il segretario Calandra. Dove per tutto si deve intendere l’elaborazione e l’attuazione delle nuove strategie politiche da parte del Marchesato: il rovesciamento dell’alleanza con la Francia e la stipula di nuove alleanze con il pontefice e gli imperiali, la guerra antifrancese in Lombardia, il progetto di divenire Stato guida di uno schieramento di principati indipendenti27”: è noto infatti come la morte di Francesco Gonzaga, avvenuta nel 1519, abbia segnato l’inizio di una fase peculiare della politica mantovana, all’interno della quale il ruolo di Isabella e dei suoi segretari crebbe. Ed abbiamo visto prima come le lettere pervenuteci dimostrano che all’incirca in questo stesso arco di tempo, dal 1521 al 1525, i rapporti tra Giovio, la corte di Mantova ed il mondo politico-culturale dei dotti riuniti nell’Accademia furono intensissimi. 
        Oltre all’Equicola, interlocutore privilegiato di Giovio è stato Jacopo Probo d’Atri, conte di Pianella. In più di una lettera Giovio chiede esplicitamente all’Equicola di farsi tramite proprio presso il conte di Pianella affinchè gli invii le sue opere: 

    “Planellaeque commentaria meo nomine
    exigito, ut ille suis litteris officiose facturum
    pollicitus est28.”

    scrive nel maggio 1522. Ed il mese successivo insiste: è
    “Planellae quoque comiti meo nomine dices
    me adhuc commentarios eius opperiri29”.

        Chi fu Probo d’Atri ci è stato detto dal Consiglio assai dettagliatamente: “Francesco Gonzaga ebbe collaboratori di prim’ordine, diplomatici fedeli ed acuti che lo affiancarono validamente; tra questi fu un meridionale: Jacopo Probo d’Atri, oriundo appunto da Atri, nell’Abruzzo Ultra. . .Questi ricoprì per lungo periodo la carica di segretario del marchese, lo seguì nell’impresa contro Carlo VIII e nella spedizione nel Regno di Napoli, lo servì in importanti missioni all’estero, specie a Venezia, in momenti particolarmente delicati per lo stato gonzaghesco. Il d’Atri non fu solo un valente diplomatico. Fine cultore di lettere, fu amico della marchesa di Mantova, Isabella d’Este, che in occasione delle sue ambascerie, lo incaricò di visitare i più noti letterati del tempo30”.
        Come si è detto, questi cenni biografici devono essere qui necessariamente scarni e rischiano, presi a sè, di non rendere giustizia allo spessore storico dei personaggi; ma acquistano una nuova luce se riletti sullo sfondo della cancelleria mantovana.
        L’abilità dei diplomatici, l’importanza della diplomazia per l’esistenza stessa di Mantova è un processo storico ben noto, mentre il vero peso della cancelleria può essere meno intuibile; di riflesso, potrebbe essere meno intuibile il peso istituzionale e tecnico dei personaggi che vi hanno lavorato e che ne hanno permesso il funzionamento. Ed invece che il d’Atri e il Calandra abbiano fatto parte della cancelleria come segretari è un dato cui va assegnato il giusto rilievo. 
        La figura del segretario aveva significato già dagli inizi del Quattrocento lo svolgimento di mansioni amministrative e burocratiche di pertinenza signorile (“i segretari della cancelleria gonzaghesca...quotidianamente impegnati...nella stesura di missive di risposta, di richiesta, di raccomandazione e di sollecitazione...31”), ed a partire dal marchesato di Lodovico Gonzaga era andata fondendosi sempre di più con quella dell’agente privato del Signore, dell’uomo di fiducia, un pò sulla scorta della figura dell’oratore, cioè dell’ambasciatore32: Probo d’Atri, per  l’appunto. Che abbiamo visto essere stato sia segretario della cancelleria del marchese, sia ambasciatore; ed essersi trovato per la sua qualifica di segretario, a redigere gli atti per conto del marchese ed a sovrintendere in seguito gli atti per conto del marchese ed a sovrintendere in seguito a tutta la cancelleria; e per la sua funzione di oratore ed uomo di fiducia, a prendere parte direttamente ed in prima persona all’azione di governo.
        Il Calandra segretario ducale, poi, fu addirittura tutt’uno con la cancelleria “Bisognerà morendo M. Gio. Iac° [Calandra, n.d.r.] poner ordine alla cancelleria ducale, altrimente andrebbe in confusione et noi non saressimo serviti33” scriveva allarmato attorno al 1543 il cardinale Ercole Gonzaga.

  5. Segretari ed ambasciatori dunque vanno considerati come veri e propri costruttori dello stato mantovano. E non stupisce, a questo punto, che lo possano essere stati anche per quel che riguarda l’immagine storiografica di Mantova. In effetti, oltre ad essere un vero snodo istituzionale, il punto d’incontro tra la gestione politica e la gestione tecnica, la cancelleria gonzaghesca ha svolto una terza, importantissima funzione come punto di raccordo, come centro propulsore della grande attività culturale dei Gonzaga. La cancelleria, dunque, come un riferimento indispensabile per gli studiosi del periodo, come ben sapeva anche il Giovio che ne approfittò ampiamente: “La cancelleria mantovana assume in definitiva l’aspetto e la funzione di un istituto culturale vero e proprio ed è, in un certo modo , uno strumento di comunicazione complementare di quel piccolo Parnaso, o Accademia di San Pietro, che frequenta la corte dei Gonzaga. Così denominata da Paolo Giovio - che allude con tale appellativo all’eletta schiera di poeti, artisti ed umanisti che sono soliti adunarsi nel palazzo dei Marchesi....34”. I dotti mantovani cui Giovio inviava le sue storie, per l’appunto. 
        In più una cancelleria conserva i documenti, dunque, serve anche per scrivere di storia. E Probo d’Atri, l’Equicola e Giovio hanno scritto tutti e tre lavori di carattere storico. 
        Per quel che riguarda l’opera del primo, le Chroniche, cioè, è un dato critico acquisito il fatto che, per redigerle, l’autore abbia sfruttato la sua posizione di cancelliere e segretario ed abbia perciò visionato ed utilizzato i documenti conservati nella cancelleria. Così il Davari, buon conoscitore dell’Archivio storico Gonzaga, le ha definite “una riproduzione corretta ed ordinata della corrispondenza stessa35”. Il Luzio, seguendo questa stessa linea ha affermato che “Si può dire che il d’Atri per le sue Cronache sunteggiasse e coordinasse i documenti che gli eran passati tra mano o aveva via via, come segretario, redatto egli stesso e trascritto in questi registri di lettere36”. Il medesimo giudizio è stato espresso dal Consiglio “Nella sua opera utilizzò ampiamente le fonti che la carica di segretario del marchese metteva a sua disposizione: copialettere e dispacci riservati37”.
        Tutti concordi dunque nell’assegnare alle Chroniche un alto valore documentario; il Davari per primo ha provveduto a corroborare questo giudizio positivo ricordando come il d’Atri stesso affermasse d’aver partecipato in prima persona agli eventi narrati “essendo stato sempre io [Probo d’Atri, n.d.r.] d’ogni tua fatiga fidel testimonio38” Nè sembra turbare di molto questo quadro la constatazione del Luzio che le Chroniche sono anche piene di entusiastiche lodi del Marchese Gonzaga.
        L’Equicola ha anch’egli scritto (e dato alle stampe nel 1521) una Chronica de Mantua d’origine e di impianto dichiaratamente elogiativi. Ma, a differenza delle Chroniche del d’Atri, essa non ha ottenuto riconoscimenti unanimi da parte degli studiosi. 
        Così se anche il Santoro39, e più recentemente il Pillinini40 e il Cherchi4l hanno espresso su di essa un giudizio più benigno, altri critici - il Faccioli42 e il Pescasio43 non si sono discostati di molto dalla stroncatura che a suo tempo ne diede il Luzio “Anche l’Equicola, al pari del d’Atri sarebbe stato in grado di attenersi strettamente ai documenti, che nella sua qualità di segretario d’Isabella d’Este prima, del march. Federico Il poi, aveva a seconda de’casi stilato od esaminato: ma l’uzzolo retorico gli prese la mano e preferì sbizzarrirsi in uno stile così tronfio e bislacco, che persino ai cinquecentisti di gusto men delicato dovè parere insopportabile...44”.
        Ora non è questo il luogo per addentrarsi in un discorso sul maggiore o minore valore storiografico di ciascuna delle due storie. Le posizioni critiche citate infatti servono solo a far notare come gli aspetti ritenuti essenziali, le caratteristiche indicate come determinati siano di fatto due:  l’uso  dei documenti della cancelleria e l’intento di esaltazione retorica della casata regnante. E questo indipendentemente dal giudizio positivo o negativo che è stato espresso sulle singole storie. 
        Affrontare i temi dell’informazione e dell’elogio vuol dire misurarsi direttamente con l’essenza della storiografia gioviana, con il suo nucleo più profondo: un operazione; va da sé, di portata notevolissima, che non è possibile, nè utile, realizzare attraverso le poche righe di quest’articolo. Ma s’è detto all’inizio della relazione, come l’opera di Giovio debba essere considerata come un unica “textura”, e come il lettore avveduto, il lettore in grado di capire davvero perché fornito di adeguati strumenti, dovrà attingere all’interno di questa “textura” le informazioni che gli interessano, dovrà essere capace di “leggere” all’interno di quest’unico corpo. Se si vuole dunque verificare l’ipotesi di un intervento del gruppo degli storici e dei dotti mantovani (quindi della corte mantovana) nella ricostruzione degli avvenimenti relativi alla calata di Carlo VIII (quindi anche quelli relativi alla battaglia di Vallata), ci si deve munire di una adeguata capacità di “lettura”. Una strada, questa della capacità di lettura, che conduce per l’appunto a confrontarsi proprio con il tema dell’elogio della casata di Mantova, con quei riferimenti talmente encomiastici, da sfiorare il panegirico, abbondanti nel il “corpus” gioviano, e di cui le lettere che seguono sono solo un esempio.
        Così la lettera del 2 giugno 1522 (già riportata in parte, perché in essa Giovio chiede indietro all’Equicola il non libro delle Historiae, e i commentari del d’Atri), questa lettera, dunque contiene un impegno esplicito a farsi cantore delle gesta dei due Gonzaga, Francesco e Federico: 

    “Si vester Federicus cum Francisco patre,
    maximo heroe, qui a me fideli liberoque ore
    di cuntur, ornatissime posterorum memoriae
    commendati fuerint, vestro, inquam, benefi-
    cio splendide fruentur posteritatis fructu, si
    me, agrestiore stilo laudes
    eorum
    prosequentem, bonum, tolerabileum aut cer-
    te non inurbanum scriptorem in(lustria vestra
    reddideritis45”.

    E sarà un caso se in questa lettera troviamo uniti i tre aspetti fondamentali, della correzione delle Historiae da parte dei dotti mantovani, dell’elogio dei Gonzaga, della richiesta dei commentari del d’Atri? Aspetti tutti che tornano nella lettera del febbraio 1523 - anch’essa già riportata precedentemente - nella quale Giovio riferisce all’Equicola di essere a Venezia e di stare correggendo il primo libro delle Historiae e proprio a proposito del primo libro specifica che parlerà con assoluta devozione delle imprese del Gonzaga:

    “ove [nel primo libro] si contengono le
    immortal prove del vostro re de’ liberali e va-
    lenti, el Marchese Francesco; nel quale ve-
    drete chiaramente quello che dirassi in breve
    del presente Federico, patrone de’ virtuosi e
    nato per farsi schiavo tuto el mondo46”.

    Per tacere dello sprofondamento di lodi susseguenti alla nomina di Federigo Gonzaga a capitano della repubblica fiorentina, nell’agosto dello stesso  anno:

    “On.mo messer Marco, EI tuo principe, de-
    gno d’essere amato per opre immortali e co-
    stumi rarissimi, ha meritato el stendardo de
    la potente Toscana..., ita ch’cl tuo da bene
    Marchese ... lo vedremo un altro Labieno, e
    avrà tanta gente sotto el suo scettro che darà
    lege a li vechii...47”.

    Gli esempi potrebbero continuare. Ma ricordando dell’invito alla lettura del “corpus’ globale, riporteremo solo due piccoli brani tratti da altre opere.
    Nel primo libro del Dialogus de viris etfoemznzs aetate nostra florentibus scrive:

    “Authoritas autem, praeclara semper atque
    firmissima, quator rebus maxime
    comparetur... Primo, nominis dignitate.
    Secundo quadam provectae et in armis
    exactae aetatis reverentia. Tertio, severitati
    commixta comitati, quo temperamento
    Franciscus Gonzaga, Mantovano princeps,
    qtium longe maximos exercitus contra
    Carolum ductaret, varias nationes in officio
    disciplinaque continuit, quando partim metu
    ad parendum, partim benevolentiae
    ducerentur48”.

    Ed ancora il marchese Francesco viene esaltato e difeso dalle accuse di doppiezza politica nel Dialogo delle imprese militari ed amorose. 

    “Metterò mano ora a quegli che hanno
    avanzato gli altri di fama e di gloria; fra i quali
    stimo il primo Francesco Gonzaga, signore
    di Mantova, il quale riuscì famosissimo per
    la giornata del Tarro e la conquista del Reame
    di Napoli per lo re Fernandino. Essendo sta-
    to il detto Marchese di Mantova calunniato
    appresso il Senato Veneziano (del quale egli
    era Capitano generale) da alcuni maligni ed
    invidiosi, poichè si fu chiarissimamente giu-
    stificato e purgato...49”. 

        Come promesso più volte ai Mantovani, l’esaltazione del marchese Francesco è presente costantemente in tutta la sua produzione.
        Se anche i dialoghi sono opere di storia; se anche i componimenti elogiativi vanno correttamente compresi, come spiega Giovio stesso in una famosissima lettera; se fare storia vuol dire essere su un crinale sottilissimo, a cavallo tra elogio ed informazione; se è vero tutto questo, dunque, quanto di quel che ci viene detto sulle imprese di Francesco Gonzaga è storia, quanto è da scrivere alla storia vera, all’informazione e quanto alla storia come elogio? Difficile da dirsi. Quel che resta certo sono alcune date che è utile mettere a confronto.
        Tra il 1514 ed il 1520 l’Equicola si dedica alla stesura della sua Chronica de Mantua. Le righe dedicate all’assedio di Vallata sono contenute nel quarto libro, che sappiamo essere stato composto con altissima probabilità nel lasso di tempo tra il 1514 ed il 1520 - 1521. Stiamo parlando naturalmente non dell’anno di pubblicazione, molto più tardo, ma degli anni della stesura, del periodo dedicato alla preparazione del libro. Questa parte dell’opera, inoltre, è stata sicuramente rielaborata fino al l52450. E, se facciamo un passo indietro e torniamo a guardare le Lettere, vediamo che non solo il 1521-1525 è il periodo, come s’è detto, di maggior scambio culturale e politico, tra Giovio ed il mondo dei dotti mantovani, delle richieste di letture e delle richieste di correzione. Ed è anche il periodo in cui Giovio chiede più volte gli vengano inviati i lavori del d’Atri.

  6. La corte mantovana, il suo archivio, i suoi segretari, le sue storie non sono le uniche fonti cui Giovio ha attinto: 

    “Amice honorande, Per dare notizia de le cos-
    se di qua a V. Mia e per mantenere lo antiquo
    instituto nostro, quantunque per assenzia mia
    da Roma sia stato alquanto interrotto51”.

    scrive il 15 dicembre 1515 a Marino Sanudo.
        Giovio e Venezia, dunque. Un argomento importante, noto e studiato: “Molti veneziani contava il Giovio tra i suoi amici e conoscenti... Una delle prime amicizie fu quella stretta con Marino Sanudo. Esisteva già nel 1515 ed assunse ben presto un particolare valore, essendole a base il comune interessamento agli avvenimenti del giorno e la passione storiografica. Il Sanudo divenne per tempo il corrispondente da Venezia di quell’Ufficio di informazioni che il Giovio aveva organizzato in Roma onde procurarsi i materiali per la sua storia52. Un argomento che potrebbe dire ancora molto sulle probabili fonti utilizzate dal Giovio, ma che non è possibile affrontare nel corso di quest’intervento. Ne accenno in questa sede solo perché apporta una conferma in più a quanto ho detto sinora. Che, in sintesi, si può riassumere nel fatto che la fonte gioviana per la battaglia di Vallata, così come si può desumere dall’analisi delle fonti, è assai probabilmente di derivazione mantovana e veneta. E la fonte della parte vincitrice; quel che è giunto fino a noi della battaglia di Vallata - entità del saccheggio, numero dei morti, massacro - è quel che ci ha detto la parte vincitrice. Del resto, è cosa nota che, spesso, la storia che arriva a noi è la storia scritta dai vincitori.

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NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. ARTURO SAPONARA, Chianchione l’asperissima bataglia de Vallata in “Economia Irpina”, IV, 1963 pp. 51- 64

  2. PAULI JOVII NOVOCOMENSIS EPISCOPI NUCERINI, Historiarum sui temporis libri XLV, Firenze, Torrentino, 1550 - 152 [d’ora in poi Historiae]. Il Saponara, nel suo articolo, fa riferimento all’edizione veneziana del 1553.
    Le Chroniche del marchese di Mantoa sono un'opera manoscritta, conosciuta come Codicetto Trivulziano, attribuita da Stefano Davari, cancelliere dell’Archivio Gonzaga, a Jacopo Probo d’Atri conte di Pianella. Per la trascrizione del testo e per i problemi relativi all’attribuzione cfr. Carlo E. Visconti, Chroniche del marchese di Mantoa, “Archivio storico lombardo”, VI, 1879, pp. 40-68; 333-356; 500-513. Le lettere conservate nel fondo Archivio Gonzaga, dell’Archivio di Stato di Mantova sono state pubblicate da GIUSEPPE CONIGLIO, Francesco Gonzaga e la guerra contro i Francesi nel Regno di Napoli, “Samnium”, XXXIV, 1961, pp. 203-206.

  3. Nell’articolo del Coniglio sopraccitato (CONIGLIO, Francesco Gonzaga, ct., pp. 204 - 206) è trascritta una terza lettera relativa alla battaglia di Vallata, indirizzata dal marchese Francesco Gonzaga a Floriano Dolfo: un giureconsulto bolognese al servizio dei Gonzaga, che all’epoca dei fatti copriva la funzione di consigliere - informatore del marchese Francesco e che continuò a svolgere quest’incarico anche nel periodo successivo, come testimonia l’epistolario - un ricco corpo di lettere che copre un arco di dieci anni, dal 1493 al 1503, tutte dirette ai sovrani di Mantova ed ai personaggi della loro corte. Su Floriano Dolfo e le sue relazioni con la corte dei Gonzaga si veda PASQUALE STOPPELLI, Dolfi Floriano, in Dizionario Biografico degli Italiani, ad vocem.

  4. SAPONARA, Gonzaga Chianchione, cit., p. 52 

  5. Ivi,p.56

  6. Sull’argomento si veda l’articolato ed importante lavoro di tesi di dottorato di MARCO BARDINI, Paolo Giovio e la scrittura della storia, Dottorato di ricerca in studi italianistici, Quinto Ciclo, Università degli studi di Pisa, con relativa bibliografia 

  7. Ivi, pp. 17 e passim.

  8. Ivi,p. 16

  9. Ivi, pp. 15-16

  10. Ivi, p. 42

  11. PAOLO GIOVIO, Lettere,  a cura di Giuseppe Guido Ferrero, I (1514-1544), Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1956; II (1544-1552), Ivi, 1958

  12. Sulla molteplice natura dell’epistolografia cinquecentesca cfr., tra gli altri,NICOLA LONGO, De epistola condenda.  L’arte di "componer lettere" nel Cinquecento, in Le "carte messagere". Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1981 pp. 177- 201.

  13. Ivi, p. 188

  14. GIOVIO, Lettere, cit., I, p. 109. A Federico Gonzaga, Marchese di Mantova. 4 aprile 1524. 

  15. Ivi, p. 92. A Mario Equicola. 28 agosto 1521 

  16. Ivi, passim.

  17. Ivi, p. 101. A Mario Equicola. Ultimo giorno di febbraio 1523.

  18. Ivi, p. 89. A Mario Equicola. 25 giugno 1521

  19. Ivi

  20. Ivi, p. 96 A Mario Equicola. 2 maggio [1522]

  21. Ivi, p. A Mario Equicola. 2 giugno 1522

  22. Ivi

  23. Tra i tanti che hanno riflettuto sull’argomento, vorrei qui, per evidenti ragioni di opportunità, limitarmi a segnalare solo quanto hanno detto in  proposito GUIDO GIUSEPPE FERRERO, Introduzione alle Lettere Volgari di Paolo Giovio, Sondaggio nel libro di Lettere, I, cit. p. 65; NICOLA LONGO, Corrispondenza letteraria; Sonaggio nel libro di Lettere di Paolo Giovio del 1560, “Critica letteraria”, 2, 1985, pp. 270-287; BARDINI, Paolo Giovio, cit. pp. 18-19; T.C. PRICE ZIMMERMANN, Paolo Giovio. The Historiam and the Crisis of the Sixteenth-Century Italy, Princeton, (N.J.), Princeton University Press, 1995. Per questo, come per altri importanti aspetti della storiografia gioviana, rinvio alla ricca bibliografia sull’argomento.

  24. La bibliografia su di un personaggio come l’Equicola è molto ricca. Per un primo inquadramento si veda PAOLO CHERCHI, Equicola Mario, in Dizionario Biografico degli Italiani, ad vocem.

  25. ADRIANO PROSPERI, Libri sulla corte ed esperienze curiali nel primo 500 italiano in la corte e il "Cortegiano". 
            II Un modello europeo, a cura di Adriano Prosperi, Roma, Bulzoni, 1980, p. 70

  26. Su Giovan Jacopo Calandra cfr ROBERTO ZAPPERI, Calandra Giovanni Giacomo, in Dizionario Bigrafico degli Italiani, ad vocem

  27. EMILIO FACCIOLI, L’attività letteraria a Mantova nell'età del Rinascimento, in p. 128

  28. GIOVIO, Lettere, cit. I, p. 96

  29. Ivi, p. 98

  30. GIUSEPPE CONIGLIO, La politica di Francesco Gonzaga nell’opera di un immigrato meridionale: Jacopo Probo d’Atri, Milano, Soc. storica lombarda p. 5. Prima di lui, la figura del d’Atri si trova tratteggiata in ALESSANDRO LUZIO, RODOLFO RENIER, La coltura e le relazioni letterarie d'Isabella d’Este Gonzaga. I         II Le relazioni letterarie, “Giornale storico della letteratura italiana”, XL, 1902, pp. 289-308; e in L’archivio Gonzaga di Mantova. La corrispondena familiare, amministrati va e diplomatica dei Gonzaga, a cura di Alessandro Luzio,  II, Verona, Mondadori, 1922, p. 12

  31. FACCIOLI, L’attività letteraria, cit., p. 128

  32. Sulla cancelleria cfr. perlomeno i fondamentali: LUZIO, L’Archivio Gonzaga cit. pp. 73-75; ALBERTO BORGOGNO, Prime indagini sulla cancelleria mantovana al tempo della Signoria,  “Ricerche medievali”, I, 1966, pp. 54-66. Sulla diplomazia gonzaghesca, Milano, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 1941

  33. BORGOGNO, Prime indagini, cit. p. 70. “Si vede che in questa Cancelleria questo personaggio era una specie di factotum: segno che non vi era una precisa distinzione di uffici, una salda organizzazione che permettesse il funzionamento anche indipendentemente dalla morte e sostituzione di una persona”. (lvi, p.63)

  34. FACCIOLI, L’attività letteraria, cit., p. 128

  35. Chroniche del marchese di Mantoa, cit., p. 337

  36. L’archivio Gonzaga, cit., p. 12

  37. CONIGLIO, La politica di Francesco Gonzaga, cit., p. 6

  38.  Chroniche del marchese di Mantoa, cit. 337

  39. DOMENICO SANTORO, della vita e delle opere di Merio Equicola, Chieti, Jeccio, 1906, pp. 155 - 164

  40. GIOVANNI SANTORO, La Chronica de Mantua di Mario Equicola e la sua posizione nella storiografia rinascimentale, in Mantova e i Gonzaga nella civilta del rinascimento. Atti del convegno 6 - 8 ottobre 1974, Mantova, 1978, pp.145 -150

  41. CHERCHI, Mario Equicola, cit., p. 36

  42. Mantova. Le lettere, II, a cura di Emilio Faccioli, Mantova, Istituto Carlo D’Arco per la storia di Mantova, 1962, pp. 365-366

  43. LUIGI PESCASIO, Rarità bibliografiche mantovane, Mantova, Padus, [1973], pp.25-55

  44. LUZIO, L’archivio Gonzaga, cit., p. 12

  45. GIOVIO, Lettere, cit., p. 98

  46. Ivi,p. 101

  47. Ivi, p. 105

  48. PAOLO GIOVIO Dialogus de viris etfoeminis aetate nostra florentibus, in Pauli Jovii Dialogi et descriptiones, a cura di Ernesto Travi, Mariagrazia Penco, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato,1984, p. 218

  49. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 86-87 

  50. BARDINI, Paolo Giovio, cit,, pp. 32 ss.; ZIMMERMANN, Paolo Giovio, cti., passim

  51. GIOVIO, Lettere, cit. I, p. 84. A Marin Sanudo 15 dicembre 1515

  52. CARLO VOLPATI, Paolo Giovio a Venezia, “Archivio Veneto”, LXIV, V serie, n. 29-30, p. 138

 

2 - Il Regno di Napoli nel XV e XVI secolo.
 alcuni aspetti economici e sociali

Prof. Valdo D’Arienzo - Università degli Studi di Salerno

        La politica aragonese in Italia tende sostanzialmente a mantenere inalterato l’equilibrio politico fino a quel momento raggiunto: il Mezzogiorno con la Sicilia e la Sardegna nella sfera catalano-aragonese, l’Italia settentrionale in quella francese e Venezia e Papato, quali forze minori, garantire l’equilibrio per l’appunto venutosi a formare. Tale disegno politico iniziato da a Alfonso e portato a compimento da Ferdinando il Cattolico, rappresenta il trait d’union tra la dominazione aragonese e quella spagnola nel Regno di Napoli e, ancora, il quadro politico generale italiano ed europeo tra la seconda metà del XV secolo e la prima metà del XVI. Si può tranquillamente affermare che “L’età aragonese a Napoli costituisce una cerniera di straordinaria importanza tra medioevo ed età moderna per la storia non solo del Mezzogiorno e dell’Italia, ma più esattamente e compiutamente, del Mediterraneo e dell’Europa” (SALADINO, 1979:5).
        La presenza della corona d’Aragona nella Penisola inizia ben prima del periodo considerato con la conquista della Sicilia (Guerra del Vespro nel 1302) e della Sardegna nel 1323, poi l’espansione politica, ma anche e forse soprattutto economica, continua fino alla conquista di Napoli da parte di Alfonso V nel 1442 (celebrata però solo il 22 febbraio dell’anno seguente con un corteo reale), il quale fa della città partenopea un “ramo del tutto autonomo della dinastia aragonese”.
        Il conflitto con Carlo VIII, che vede anche Vallata protagonista pur se nella realtà del tutto particolare di un’area interna del regno, sta a dimostrare con tutta evidenza il tentativo della Francia e dei suoi alleati di rompere l’equilibrio politico-territoriale delineatosi, cercando di fare dell’eventuale possedimento del Mezzogiorno, già cardine dell’intero sistema Mediterraneo, un momento di rottura che avrebbe inevitabilmente modificato l’intero equilibrio internazionale. 
        La presenza a Napoli di Alfonso il Magnanimo e della sua corte comportano, tra le diverse altre cose, un profondo mutamento delle istituzioni e della vita socio-economica della realtà del Mezzogiorno continentale. L’arrivo di numerosi operatori finanziari e di mercanti catalani al seguito del sovrano determina una congiuntura favorevole per l’economia meridionale che, già sotto gli Angioini, aveva attraversato un periodo particolarmente prospero. La felice posizione del Regno di Napoli al centro del Mediterraneo fa sì che i traffici e la fitta rete di scambi commerciali trovi nella capitale, nonché a Messina e Palermo in Sicilia, un centro di non secondaria importanza. “Il momento mercantesco, costantemente ispirato dalla vocazione commerciale catalana e - per altro - sostenuta dagli interessi industriali dell’entroterra aragonese e da quelli finanziati di Valenza, rimane elemento fondamentale per intendere gli orientamenti dei sovrani di Trastàmara e il loro continuo proiettarsi lungo tutto il Mediterraneo.
        Ancora una volta, perciò, il Mezzogiorno continentale d’Italia viene chiamato a partecipare da protagonista e da nucleo centrale al complesso sistema dei rapporti economici instaurati e perseguiti dagli Aragonesi” (SALADINO, 1979:8). Il mondo mediterraneo, nella sua unità di fondo così come descritta da Fernand Braudel nella sua celebre opera sul Mediterraneo nell’epoca di Filippo 11, presenta però anche una composizione più variegata: Venezia, per esempio, controlla e monopolizza gli scambi con il medio Oriente; mentre Genova e la Catalogna, dal canto loro, impongono la loro sfera d’influenza sul Mediterraneo occidentale. Il Regno di Napoli, quindi, sfrutta questa congiuntura favorevole e la presenza prevalente degli operatori fiorentini, genovesi e catalani crea un circuito economico di non poca rilevanza. Quello che appare di negativo in questo contesto è la scarsa importanza del ceto imprenditoriale e mercantile indigeno a conferma di una mentalità e di uno spirito d’iniziativa che stentano a decollare e che, inevitabilmente, ci porta a sottolineare il problema della feudalità, della rendita e, nel complesso, di una società lenta nella sua evoluzione.
        La stessa storiografia, da quella classica a quella più recente, insiste su questi aspetti, anzi individua proprio tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, con l’avvento del viceregno spagnolo, la fase nodale del mancato decollo napoletano. Benedetto Croce così descrive, nella sua esposizione piena di colore ma incisiva, quel periodo: “Ma qui non si riuscì mai a dar vita a un ceto industriale e commerciale, che avesse vera importanza. I gentiluomini napoletani formavano oggetto di meraviglia da parte dei toscani e veneziani e lombardi e uomini di altre parti d’Italia, a vederli trascorrere il tempo in ozio ... e per rinfaccio si poneva loro dinanzi l’esempio dei gentiluomini e patrizi altrove così operosi nelle mercature e nelle arti. Ma ... ribattevano: “la mercatura dei napoletani esser solo il servizio del re” [CROCE, 1980:74]. E ancora, sulla presenza straniera: “I mercatanti che percorrevano il Regno, erano fiorentini, lucchesi, veneziani, genovesi, catalani; e v’incettavano e ne estraevano grani, vino, olio, formaggi, bestiame, e vi portavano tessuti, armi, lavori in ferro” [CROCE, 1980:75]. 
        L’avvento degli Aragonesi a Napoli determina un profondo rinnovamento delle istituzioni della finanza e della politica che si traducono alla fine in una trasformazione dell’intero tessuto della società dell’epoca. 
        Nel campo tributario (“funzioni fiscali”), per esempio, Alfonso V abolisce il sistema precedentemente vigente delle 'collette' e lo sostituisce nel 1443 con la tassa a carico delle università del regno. In sostanza ciascuna di esse doveva corrispondere al sovrano la tassa di 1 ducato (10 carlini) per ogni nucleo familiare; tale sistema, però, provocava una cattiva redistribuzione dell’imposizione che Ludovico Bianchini così efficacemente descrive: “Dal che ne derivò un grande inconveniente, che i feudatari e gli ufficiali delle università imponevano a loro talento la tassa sopra coloro che forse o non dovevano, o meno erano in stato di sopportarla, aprendo in tal modo largo campo a vessazioni, a frodi a rigiri e ad altre male pratiche” [BIANCHINI, 1971:187].
        Le aumentate esigenze di bilancio, inoltre, avevano reso nel frattempo necessario un ulteriore aggravio fiscale già alcuni anni dopo, nel 1449, quando Alfonso aggiunse altri cinque carlini a fuoco, aumento questo che fu alleviato dalla consegna, obbligatoria però, di un tomolo di sale.
        A ciascuna famiglia del regno, esclusa la capitale Napoli, veniva cioè consegnata una determinata quantità di sale ogni anno e, tutto sommato, questa pratica non doveva essere certamente del tutto priva di utilità visti gli alti costi che raggiungeva allora il sale in regime di monopolio e considerato ancora che si trattava di un genere insostituibile nell’alimentazione umana e animale e, ancora, nella conservazione degli alimenti. 
        La politica pragmatica della dinastia aragonese, tuttavia, viene evidenziata da un ulteriore riassetto fiscale deciso nel 1470: Ferdinando I, infatti, per porre un freno alle angherie subite dalla popolazione stabilì che ogni università eleggesse tre rappresentanti, i quali avevano il compito di raggruppare le diverse imposte e riunirle in una sola secondo quanto stabilito nel 'cedolario' (il libro del regio fisco sul quale venivano annotate e definite le esenzioni spettanti alle singole università del regno). La novità rappresentata da questa riforma consisteva nello stabilire la compilazione di ben cinque libri chiamati 'quinterni', uno dei quali sarebbe rimasto “nelle università perché si rendesse di pubblica ragione a chi meglio conoscer volesse del carico addossatogli” [BIANCHINI, 1971:187]. In questo modo si voleva assicurare una maggiore trasparenza nell’esazione e una migliore redistribuzione dei tributi, ma non sconfisse definitivamente la cattiva gestione erariale che rimaneva pur sempre nelle mani dei baroni o di chi deteneva il potere economico e sociale; in quei secoli, infatti, chi aveva disponibilità di capitali anticipava le somme dovute al regio fisico e provvedeva poi a riscuoterle direttamente dalla popolazione usando, è facile immaginarlo, qualsiasi mezzo e forma di costrizione: l’indebitamento dei ceti poveri, rurali soprattutto, costituiva una regola comune a tutte le province del regno di Napoli. 
        Va considerato, poi, che lo stato del regno alla fine della dinastia sveva denunciava un fortissimo ed evidentissimo squilibrio tra la capitale e il resto del paese. Se Napoli risplendeva per i suoi palazzi, le chiese e i castelli, nelle province mancavano le strade e i pubblici edifici, terreni erano spesso incoltivabili e nessun processo di bonifica era stato avviato. Le somme necessarie a far fronte almeno alle opere necessarie venivano incamerate attraverso la riscossione di tributi straordinari a carico, ovviamente, delle università. I benefici apportati poi dagli Angioini furono in qualche misura vanificati dalla ripresa del potere feudale che si registrò con l’avvento degli Aragonesi. Il potere dei baroni prese il sopravvento sulle municipalità e, in questo modo, il regno di Napoli imboccò una strada inversa rispetto a quanto avveniva nel resto dell’Italia e in alcune regioni europee: all’autonomia politica, amministrativa ed economica delle città si contrappose il diffondersi di privilegi e diritti feudali che determinarono, come prima conseguenza, lo sfaldarsi lento di uno stato allora in via di formazione [BIANCHINI, 1397:201]. 
        Gli Spagnoli trovarono “una tradizione di governo, nella quale elementi di una modernità assai più che incipiente si frammischiavano a condizioni generali d’ambiente di tutt’altro significato. Alla costruzione del moderno stato burocratico e assolutistico - le cui prime affermazioni risalivano nel Mezzogiorno d’Italia ben addietro nel tempo, fino all’epoca dell’unificazione operata dai Normanni -, i sovrani di Casa d’Aragona avevano, infatti, già dato un più che rilevante contributo. Alfonso il Magnanimo aveva riformato la Vicaria ed altre istituzioni del Regno; aveva operato una radicale riforma dell’ordinamento tributario; aveva istituito il Sacro Regio Consiglio; aveva organizzato la grande Dogana pugliese delle pecore e aveva impresso così un corso nuovo, e sia pure largamente discutibile, all’economia di gran parte del Mezzogiorno” [GALASSO, 1994:47]. Successivamente Ferrante perseguì, anche senza una linea di continuità, una politica di difesa delle università del regno contro gli abusi feudali, attraverso un’attenta legislazione, inoltre, riuscì a incidere sulla realtà politica riducendo il peso politico del baronaggio meridionale soprattutto dopo aver debellato la congiura del 1484-85, e già prima quella del 1459-64: conseguenza di tale politica fu da un lato l’appoggio sempre più evidente fornito dalla corona ai Comuni e, dall’altro, la nascita della nobiltà di toga, di funzionari regi, cioè, che nei secoli successivi tanta importanza ricoprì nello stato napoletano. Alfonso 11 aveva poi concesso ai baroni, però, il merum et mistum imperium; e “nelle intrigate vicende attraverso le quali si consumarono tra il 1494 e il 1503 la crisi e la fine dell’indipendenza del Regno, i baroni avevano per via di fatto riconquistato una non piccola parte del potere detenuto prima della grande congiura. 
        Sotto Ferdinando il Cattolico il governo spagnolo fu, peraltro, troppo preoccupato della preservazione del Regno dal pericolo di una riconquista francese per dedicarsi a un’opera organica di riassetto interno, e la situazione non mutò, da questo punto di vista, neppure nei primi lustri del regno di Carlo V” [GALASSO, 1994:8]. 
        Una linea di continuità politica, nei confronti della feudalità, adottata dagli Aragonesi prima e dagli Spagnoli poi, può essere individuata nel tentativo di affermazione del potere del sovrano. Pur se tra fallimenti e vittorie, in un alternarsi di conflitti e tensioni sociali, i re aragonesi cercarono, come ho ricordato prima, di favorire sia la nascita di un ceto sociale nuovo, i ‘togati’, che lo sviluppo delle autonomie comunali.
        Uguale tentativo fu perseguito a maggior ragione dai viceré spagnoli che dovevano dare esecuzione al progetto di formazione dello stato assoluto castigliano. In quest’ottica il proliferare delle alienazioni dei feudi, già nel corso del Quattrocento per la verità, sta a dimostrare come e quanto la “guerra al baronaggio” avesse prodotto i suoi risultati; in questo modo la dinamica sociale era stata avviata, quella economica di gran lunga meno dato che i capitali da investire erano detenuti prevalentemente dagli stranieri (come dimostrerà ampiamente il fenomeno di acquisti di feudi da parte dei Genovesi nel corso del Seicento) e che, inoltre, l’acquisto di un feudo, pur volendolo considerare alla stregua di “un’azienda economica”, rappresentava pur sempre un bene rifugio grazie alla rendita che produceva. Il ricorso, ancora, all’acquisto di titoli del pubblico patrimonio (una forma di debito pubblico ante litteram) ostacolava lo sviluppo di una imprenditorialità locale in una fase storica, è bene sottolinearlo, durante la quale si stavano giocando le sorti della futura economia. Agli inizi del Seicento, per esempio, a proposito del dibattito sulla svalutazione della moneta, il contrasto tra gli interessi mercantili che puntavano alla svalutazione e quelli dei proprietari di rendite, crediti e censi, che puntavano a conservare intatto il valore della moneta, si risolse a favore di questi ultimi; segno, questo, che il numero e l’influenza di coloro che oramai vivevano in tutto o prevalentemente di rendite, in confronto agli uomini di affari, erano divenuti preminenti. Il Paese appariva, insomma, dominato da una classe sociale di rentiers, desiderosi di continuare a godere della loro posizione, e indifferente allo sviluppo economico del Paese” (DE ROSA, 1987:64). 
        E opportuno tornare al problema del fisco e a quello delle imposte. In precedenza ho fatto riferimento essenzialmente al prelievo diretto delle imposte da parte dello Stato, vi era poi quello indiretto costituito dalle gabelle, dai dazi e più in generale da quell’universo composito costituito dai monopoli, jus prohibendi come definiti all’epoca, dagli arredamenti, dai diritti feudali e municipali etc. Le tasse maggiori si concentravano sull’importazione ed esportazione delle merci più disparate, per esempio la seta che in Principato Citra e in Calabria aveva i più importanti centri di produzione o, ancora, il vino, il grano e l’olio che si producevano in quasi tutte le province.
        Diritti di dogana, imposte sulla produzione e sulla vendita, diritti di peso e misurazione comprendevano, si può dire, tutto l’universo economico e la conseguenza inevitabile era il diffondersi del contrabbando che, soprattutto in epoca spagnola, assunse dimensioni incontrollabili contro il quale il governo vicereale non riuscì mai a trovare una soluzione definitiva.
        A queste imposte si aggiungevano, ancora, i diritti dei baroni e delle municipalità che imponevano ulteriori gabelle, per esempio, sulla molitura dei grani, sulla macellazione delle carni, sull’uso della acque, sui mercati cittadini.
        Questi ultimi, in particolare, che avrebbero dovuto rappresentare da un lato lo sbocco naturale dei prodotti agricoli e quindi incentivare il lavoro nei campi, dall’altro favorire lo sviluppo dell’economia cittadina. I mercati, tuttavia, non riuscirono mai a superare un ambito di approvvigionamento strettamente locale, così come le fiere di cui la dinastia angioina, in particolar modo, ne favorì sia all’istituzione che lo sviluppo. “Quello dei mercati cittadini, e più in generale locali, è uno dei campi in cui la storiografia, specie quella locale, non ha ancora approfondito le proprie ricerche, tranne qualche eccezione; l’istituzione di mercati urbani, d’altronde, risponde all’esigenza crescente dei centri, più o meno piccoli, di soddisfare l’offerta e la domanda di beni primari soprattutto in ambito locale, specializzandosi, a volte, in determinate merci e derrate. Il mercato, giornaliero o settimanale, è fenomeno essenzialmente collegato al sorgere delle città e all’inurbamento. E luogo d’incontro tra coloro che vivono entro le mura, e quindi dentro la città, con quelli che abitano nel circondano” [D’ARIENZO, 1992:31-2]. Le numerose imposte e un prelievo feroce fecero sì che questi mercati e le fiere, dalla portata economica più ampia, non riuscirono a decollare dall’ambito, appunto, strettamente locale.
        Il quadro tra il XV e il XVI secolo dell’economia meridionale, pertanto, appare quanto mai complesso e diversificato, pur in un contesto di tendenza all’arretratezza “Con il consolidamento dell’impero spagnolo ma soprattutto con il suo dilatarsi atlantico, il Mezzogiorno d’Italia, pur conservando un posto importante nel sistema mediterraneo, finì con il perdere il ruolo centrale e propulsore che aveva ricoperto in età aragonese e che di Napoli aveva fatto la vera perla della consociazione, in modo che aveva potuto persino risentire solo marginalmente ... dello sfiancante fiscalismo a cui le dispendiose imprese del Magnanimo l’avevano sottoposto” (SALADINO, 1979:9-10).
        Se è vero che il baronaggio meridionale, nonostante le numerose ribellioni al potere sovrano, non mirava al sovvertimento dell’istituzione monarchica è altrettanto vero, piuttosto, che aspirava alla sua limitazione e al suo ridimensionamento al fine di dirigere esso stesso la condotta degli affari e il controllo politico e amministrativo della società [GALASSO, 1994:103]. Al potere feudale si opponeva il sorgere e l’affermarsi delle città, o delle municipalità come le ho definite in precedenza, le quali lottavano per affermare la loro autonomia politica, amministrativa ed economica. Anche le università più piccole riuscirono a raggiungere una loro identità riconosciuta, attraverso l’accettazione dei loro usi e prerogative, sia dal potere del re che da quello della feudalità. Il mondo rurale, che costituiva l’asse portante, la maggiore struttura del regno, da tempo aveva affermato, per esempio, la libera disponibilità dei terreni demaniali, così come era venuto a cadere, seppur lentamente, il vincolo servile che legava i contadini alle terre del signore feudale.
        Eppure nonostante le alterne vicende, né la feudalità né il ceto agricolo, né tantomeno quello mercantile e imprenditoriale riuscirono a imporsi definitivamente nella condizione della società. Il potere assoluto del Re e quindi dello Stato non consentiva e non favoriva l’emergere di una classe dirigente; la stessa nobiltà togata se assicurò lo sviluppo di un’amministrazione burocratica, elemento essenziale nella formazione dello stato moderno, allo stesso tempo non realizzò affatto un progetto di sviluppo per il paese e bisognerà attendere l’arrivo di Carlo I di Borbone e il diffondersi delle idee illuministiche per poter vedere avviati i primi timidi passi in questa direzione.

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NOTE BIBLIOGRAFICHE

L. BIANCHINI, Storia delle finanze del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1971.
B. CROCE, Storia del Regno di Napoli, Bari 1980.
G. D’AGOSTINO, La capitale ambigua. Napoli dal 1458 al 1580, Napoli 1979.
G. D’AGOSTINO, Parlamento e società nel Regno di Napoli Secoli XV- XVII, Napoli 1979.
V D’ARIENZO, Mercato cittadino e fiera a Salerno tra XV e XVIII secolo. Prime considerazioni in margine ad un‘indagine storico - economica, in Economia, Società e Politica del Territorio nel Mezzogiorno (secc. XV-XX), Salerno 1992.
M. DEL TREPPO, I Catalani a Napoli e le loro pratiche con la Corte, in Studi di Storia Meridionale in Memoria di Pietro Laveglia, Salerno 1994.
M. DEL TREPPO, I mercanti catalani e l’espansione della corona dAragona nel secolo XV Napoli 1972.
M. DEL TREPPO, il regno aragonese, in Storia del Mezzogiorno, vol. V  Roma 1987.
L. DE ROSA, Il Mezzogiorno spagnolo tra crescita e decadenza, Milano 1987.
L. DE ROSA, Studi sugli arredamenti del Regno di Napoli Aspetti della distribuzione della ricchezza mobiliare nel mezzogiorno continentale (1649-1806), Napoli 1958.
N. E FARAGLIA, Storia dei prezzi in Napoli dal 1131 al 1860, Bologna 1983 (rist. anast. dell’ediz. Napoli 1878)
G.M. GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, Napoli 1969.
G. GALASSO,Alla periferia dell’impero. il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino 1994.
G. GALASSO, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia, Firenze 1984
E. GIUSTINIANI, Dizionario geografico - ragionato del Regno di Napoli, Bologna 1970 (rist. anast. dell’ediz. Napoli 1797-1805).
A. LEONE, Profili economici della Campania aragonese. Richerrhe su ricchezza e lavoro nel Mezzogiorno medievale, Napoli 1991.
E. PONTIERI, Alfonso il Magnanimo re di Napoli (1435-1458), Napoli 1975.
A. SALADINO, Napoli aragonese, Napoli 1979.


 3 - La discesa di Carlo VIII e la crisi militare italiana

Prof. Massimo Mazzetti 

- Direttore Dipartimento di Scienze Storiche e Sociali

- Università degli Studi di Salerno


        Per comprendere le vicende che portano al sacco di Vallata bisogna inquadrarle nel più ampio contesto di quella che fu chiamata la “crisi militare italiana” successiva all’attraversamento delle Alpi da parte di Carlo VIII. Le cronache del tempo e quelle successive sono piene dello stupore che destò l’apparire dell’armata de] re francese e non solo per la sua consistenza numerica, in vero considerevole, ma altresì per la sua composizione. Essa, infatti, non era composta principalmente da “uomini d’arme”, la celebre cavalleria pesante che componeva il grosso degli eserciti dèll’epoca, ma disponeva, inoltre, di “cavalli leggeri per l’esplorazione, di fanteria pesante costituita per la quasi totalità di picchieri svizzeri, di forti reparti di tiratori (balestrieri francesi) nonché di un forte artiglieria. Fu soprattutto quest’ultima ad impressionare gli italiani, non solo per il suo numero che, in verità, è stato ingigantito dalle cronache successive ma per le sue particolari caratteristiche. In effetti l’artiglieria francese non era sproporzionata alla consistenza dell’esercito, erano le dimensioni dell’esercito stesso ad essere inusitate per gli italiani. Quello che maggiormente colpì furono indubbiamente alcuni aspetti tecnici. In primo luogo l’artiglieria francese era totalmente trainata dai cavalli, procedimento non ignoto agli italiani i quali, però preferivano far trainare i cannoni più economicamente da buoi. 
        Nessuno considerò che, essendo all’epoca in Italia l’artiglieria impiegata soprattutto come arma d’assedio, il traino per mezzo di buoi risultava ininfluente sull’andamento delle operazioni mentre, dal canto suo, Carlo VIII era stato praticamente costretto a ricorrere al traino per mezzo di cavalli dalla necessità di percorrere, in tempi relativamente brevi, lunghi tragitti. 
        Anche il fatto che impressionò moltissimo gli italiani, del limitato numero di calibri e della recentissima fabbricazione degli stessi cannoni, è da mettersi in relazione alle particolari esigenze dell’esercito francese. All’epoca i pezzi di artiglieria venivano fabbricati in piccole quantità, in epoche diverse, con calibri diversi ne derivava che ogni cannone doveva disporre delle proprie munizioni Se ciò non creava normalmente inconvenienti, era chiaro che non poteva essere applicato ad un esercito che operava a centinaia di chilometri dalle proprie basi. In un caso sì fatto era indispensabile poter disporre di munizioni atte a soddisfare le esigenze di più cannoni. Perciò il re di Francia selezionò per le artiglierie vere e proprie (esclusi quindi grossi archibugi) i pezzi di quattro calibri diversi che fece fondere ciascuno in alcune decine di esemplari. Ne conseguì che, tranne pochi pezzi di prova, tutti i cannoni francesi erano nuovissimi. 
        Naturalmente questa massa di artiglieria, le cui dimensioni non si erano mai viste in Italia, ebbe facilmente ragione delle mura delle fortificazioni italiane che all’epoca erano alte e sottili. 
        In effetti oltre le sue notevoli dimensioni l’esercito di Carlo VIII impressionò perché apparve come il primo esercito equilibrato nelle sue parti con cavallerie pesante e leggera, fanteria pesante (picchieri), fanteria leggera (tiratori) ed una robusta artiglieria. 
        Quest’ultima, peraltro, fu costretta, per particolari esigenze operative, a fare un vero e proprio salto di qualità che influenzerà tutta l’evoluzione successiva dell’artiglieria. Bisogna dire che oltre a ciò i francesi sorpresero gli italiani anche per l’estrema brutalità della loro azione ed il loro deliberato proposito di non fare prigionieri. A questo riguardo, si deve tener conto che la leggenda delle incruente battaglie italiane, prima della calata dei francesi, è appunto una leggenda. Il Machiavelli, ad esempio, che è uno dei maggiori propalatori di queste tesi narra di uno scontro in cui sarebbe morto un solo uomo caduto da cavallo. In realtà, nel fatto d’arme in questione, i morti furono quasi ottocento evidentemente erano tutti caduti da cavallo. 
        Gli italiani, invero, non combattevano in modo meno cruento degli altri, i loro scontri, tuttavia, avevano delle regole, alle quali si soprassedeva solo combattendo contro gli svizzeri poiché questi avevano la cattiva abitudine di non fare prigionieri. Per questa ragione, non solo veniva reso loro pan per focaccia ma gli elvetici dagli italiani venivano considerati dei barbari quindi il modo di procedere dei francesi provocò certo dello spavento, ma forse più della sorpresa nel constatare che anche i francesi agivano come barbari. 
        Bisogna dire gli italiani reagirono abbastanza rapidamente all’entrata in campo dell’armata, di nuovo modello, organizzata da Carlo VIII: non solo si premurarono di mettere in campo tutti i cannoni disponibili, ma si affrettarono a fondere di nuovi. 
        Anche la cavalleria leggera ebbe un rapido sviluppo in quegli stati che non ne disponevano. Per i tiratori, poi, gli italiani superarono rapidamente i francesi mettendo in campo numerose schiere di archibugieri. 
        Solo per quanto riguarda la fanteria pesante, con la sola eccezione e per un breve periodo della repubblica di Venezia, gli stati della penisola non riuscirono a realizzare un efficiente fante ria di picchieri cosa comune anche ai francesi che per tutta la prima fase delle guerre di egemonia dovettero affidarsi per questo ruolo a mercenari svizzeri o tedeschi. Il maggiore successo italiano fu, senza dubbio, quello relativo alla ingegneria militare, le mura, infatti, furono allargate e dota te, sulla parte anteriore, di una superficie inclinata, con la base maggiore posante sul terreno, che aveva il compito sia di deviare i colpi dell’avversario sia di rendere, offrendo una base maggiore, più difficile la creazione di breccia. Nacque così il “bastione” che si diffuse rapidamente in tutta Italia e successivamente in tutt’Europa col nome di “fortificazione italiana”. In conclusione allorché Carlo VIII, dopo l’incerta battaglia di Fornovo, si affrettò a riattraversare le Alpi, la “crisi militare italiana” era in via di superamento. Ciò che persisteva e che porterà alla fine allo stabilirsi del predominio straniero sulla penisola, non era il “non saper fare la guerra degli italiani come un diplomatico francese disse al celebre Machiavelli, ma proprio il fatto che gli italiani non seppero far la politica” checché pensasse a questo proposito il segretario fiorentino.
        L’episodio della presa e del sacco di Vallata si inquadra in questo contesto ed esattamente nella seconda parte del periodo e cioè quando tutti gli stati italiani si davano intensamente da fare per mettere in campo tutti i cannoni possibili. L’episodio è noto e lo riassumeremo brevemente: Dopo la partenza del grosso delle forze francesi e l’entrata in campagna dei veneziani contro i francesi medesimi le forze degli eserciti collegati mossero per riconquistare il regno di Napoli. Questo settore operò una colonna di circa duemila uomini al comando del marchese di Mantova che dirigendosi da tutt’altra parte rasentò Vallata alla quale furono inviati messi per ottenere la formale sottomissione. Gli abitanti della cittadina, che per motivi che sarebbe troppo lungo qui richiamare avevano parteggiato per i francesi, respinsero in molto malo modo gli emissari. 
        Per spiegare questo atteggiamento bisognerà tener conto che la cittadina era circondata da mura e che cosa ormai strana a quell’epoca, i vallatesi erano celebri come abili arcieri. Si deve tener conto del fatto che la balestra aveva soppiantato l’arco proprio perché non richiedeva la lunga preparazione necessaria a formare un buon arciere comunque un tiratore d’arco ben addestrato aveva una rapidità di tiro di gran lunga superiore al balestriere. Essendosi conservato questo uso a Vallata gli abitanti si consideravano praticamente invulnerabili e non senza qualche ragione poiché gli avversari non avrebbero potuto assediare a lungo il borgo perché avrebbero dovuto, comunque portare a termine la loro missione né era pensabile un attacco a viva forza perché gli arcieri li avrebbero decimati dall’alto delle mura. Ecco perché i vallatesi respinsero ogni proposta di accomodamento; essi infatti erano certi della loro invulnerabilità. Non avevano fatto i conti col progresso tecnologico nell’arte della, guerra che si stava attuando proprio in quel periodo. Infatti sia le truppe al comando del marchese di Mantova non erano molto numerose, esse però disponevano di alcuni pezzi di artiglieria che furono messi in batteria davanti ad una porta fuori dal tiro degli archi e con il loro fuoco abbatterono la porta medesima. 
        L’azione deve essere stata abbastanza rapida tanto da non dare tempo ai difensori di costai ire una barricata dietro la torta pericolante dopo di che le truppe del Gonzaga diedero l’assalto travolgendo i difensori probabilmente ancora sbigottiti alla rapidità con cui si erano svolti i fatti e dalla efficacia dei nuovi mezzi messi in campo dai loro avversari. Si potrebbe, quindi conclude re, che la vicenda di Vallata è una conseguenza del rapido dilatarsi dell’impiego dell’artiglieria di cui i poveri vallatesi non furono in grado di valutare tutte le implicazioni. Fatto che peraltro si sarebbe ripetuto in ben più vaste proporzioni nei secoli seguenti fino ai giorni nostri.

 

4 - LA BATTAGLIA DI VALLATA

VALLATA 6 maggio 1996

Prof. Francesco Barra Università degli Studi di Salerno

        L’assedio e il sacco di Vallata del 1496, se attentamente “letti” e interpretati possono prestarsi ad una ricostruzione non meramente événementielle, come tenteremo di fare nel corso del presente saggio, risalendo alle origini stesse del paese ed ai suoi caratteri originari e profondi.

GLI ASPETTI TECNICI DELLA BATTAGLIA

        L’esercito inviato da Venezia nella primavera del 1496 nel regno di Napoli per collaborare alla cacciata dei Francesi ed alla restaurazione degli Aragonesi si componeva di 700 uomini d’arme (cavalleria pesante), circa 1.000 stradiottoli (cavalleria leggera) e 1.000 fanti. Lo comandava Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, nominato capitano generale della Repubblica per i meriti acquisiti l’anno prima sul campo di Fornovo. Rispetto agli altri eserciti, quello veneziano si distingueva essenzialmente per l’ampio impiego della cavalleria leggera degli stradotti. Questi montati su cavalli piccoli, veloci e resistenti, adatti a tutti i terreni -, erano reclutati in Dalmazia, in Albania e in Grecia; le loro armi tipiche erano la lancia corta, o giavellotto, e l’arco, ma a renderli temibili erano soprattutto l’accentuata mobilità e la spiccata attitudine ai colpi di mano e alla guerriglia, acquisita in una lunga esperienza bellica conto i turchi sui fronti balcanici. 
        La ricca documentazione contemporanea sull’episodio di Vallata, anche se esclusivamente di parte veneziana, ci consente un’abbastanza dettagliata ricostruzione della battaglia. Tutto iniziò con un tipico scontro di avanguardie (“prima scaramuza” la definisce infatti il marchese di Mantova in una lettera alla moglie), tra balestrieri a cavallo e i vallatesi, che attaccarono “animosamente” i veneziani, colti assai probabilmente di sorpresa. Grazie alla superiorità delle loro armi da getto (archi e frombole), i vallatesi riuscirono a ferire alla leggera con dei ‘passatori” (dardi lunghi da 79 a 105 cm.) Manfredo da Vicenza, capo dei balestrieri a cavallo, e Alessio Beccacuto, comandante degli stradiotti, il giovane Giacomo Soardino, “honorato paggio del Marchese”, ebbe a sua volta, secondo il Giovio, “d’un colpo di sasso guasto il volto”. Alvise di Albori fu invece ferito da un colpo di “partesana” ad una coscia, e il capitano dei fanti Francesco Grasso da “una lanza a uno zenochio”, il che dimostra che dopo una prima fase con armi da getto si passò alla lotta ravvicinata. 
        Ricacciati i vallatesi nelle mura e respinta l’intimazione di resa, iniziò l’assedio. I veneziani piantarono due “bombardelle” (artiglierie d’assedio di medio calibro, che scagliavano palle di pietra) e alcuni “passavolanti” (artiglierie di piccolo calibro che lanciavano palle di piombo di 10 cm.) per battere le mura, mentre ‘schiopetieri et balestrieri” effettuavano, con pallottole di piombo e con dardi, un tiro d’interdizione e di copertura delle fanterie, che con scale si lanciarono all’assaito, bersagliate dalle “artiglierie” della Terra e da un fitto getto di sassi (“benché li saxi volaseno da le mura et quelli de la terra lavoras sino cum artegliarie”). A risolvere l’azione, che si presentava inizialmente problematica, furono due squadre di “homini d’arme”, cioè di cavalieri dell’armatura pesante, fatti appiedare dal marchese di Mantova, contro i quali sassi e frecce risultarono quasi inoffensivi. Infatti, a distanza ravvicinata e a tiro perpendicolare, le armi da getto, e soprattutto gli archi, si rivelarono inefficaci. Gli uomini d’arme, benchè impediti dalle pesanti armature, riuscirono a scalare in tre punti le mura e, data “asperissima battaglia” (come dice lo stesso Gonzaga), ebbero la meglio sui difensori armati alla leggera, facendo saltare l’intero sistema difensivo, dopo di che si scatenò la strage. 
        A determinare la rapida risoluzione dell’azione (interamente svoltasi nell’arco del pomeriggio del 6 maggio), che risultò abbastanza incruenta per gli assalitori, furono le artiglierie e le armi da fuoco, contro cui si rivelarono impotenti le armi da getto e la difesa passiva delle fortificazioni. Altro fattore importante fu la superiorità numerica. I difensori di Vallata, che all’epoca contava circa 1.50012.000 abitanti, non potevano essere infatti più di 2001300. Non a caso, questa cifra corrisponde all’incirca a quella delle vitti me dello scontro: infatti, Vallata vennero quasi tutti trucidati, durante i difensori di e soprattutto dopo la battaglia.

 

 L’ARCO E LE ORIGINI DI VALLATA

         Uno degli elementi più significativi della battaglia di Vallata fu l’uso massiccio dell’arco da parte degli abitanti. Peraltro l’impiego, alla fine del XV pressochè desueta come l’arco pone allo storico problemi ed interrogativi che risulta indispensabile affrontare. 
        I vallatesi hanno sempre goduto fama di arcieri valenti. Fuori secolo. di un’arma ormai obsoleta e sino al “700, da tempo immemorabile si esercitavano a colpire un bersaglio di legno, che probabilmente doveva avere la forma di un piccolo toro. Nello stesso stemma comunale, del resto, campeggiano, colle rose e le spighe, due frecce. E, oltre che nel “Saiettale”, eccellevano anche in altri sport: a piazza del Tiglio, fuori della porta omonima, detta anche del Rivellino, ancora nel primo ‘700 si giocava all’antichissimo gioco della pallamaglio, un lontano antenato del Cricket, che consisteva nel lanciare una palla di pezza il più lontano possibile col minor numero di colpi per mezzo di un bastone di legno con la punta a martello. 
        Questi esercizi sportivi fortemente agonistici derivavano evidentemente da antiche eredità culturali ed erano espressione una società in origine fortemente militarizzata. Tutto ciò ci riconduce alle origini stesse di Vallata. 
        Al di là dei massicci del Partenio e dei Picentini, l’Appennino si allarga ad anfiteatro in direzione del Vulture e del Tavoliere di Puglia. Lo spartiacque appenninico è costituito dal susseguirsi, ad un altitudine tra i 600 ed i 1.000 metri, di lievi ed ampie ondulazioini, interrotte qua e là da rilievi isolati, da profondi valloni scoscesi o da dorsali collinari. E’ questo il vasto ed irregolare altopiano dell’Alta Irpinia, profondamente segnato dalle valli dell’Ofanto, dell’Ufita e del Calaggio. L’estrema propaggine del cosiddetto “osso”appenninico, ai margini del Tavoliere, è quello del sottosistema orografico del Sub-Appennino dauno, dall’andamento assai tormentato ed articolato. In realtà, l’intera area dauno-irpina del Sub-Appennino, a sua volta suddivisibile in numerosi comprensori (tra cui particolarmente rilevante è quello de]la Baronia), non è agevolmente e nettamente definibile e delimitabile. E ciò dà ragione dell’attuale frammentazione della zona, dal punto di vista amministrativo, in due province (Avellino e Foggia), appartenenti a loro volta a due regioni diverse. 
        Realtà, questa, che peraltro non è recente ma risale assai indietro nel tempo, anche se varie e mutevoli sono state le oscillazioni dei confini provinciali e regionali, in dipendenza diretta dei reciproci rapporti di forza tra i poteri dominanti sui due opposti versanti dello spartiacque appenninico. Basti pensare alla vivacissima dialettica tra longobardi e bizantini, tra Cristianità latina e Cristianità greco-ortodossa, che per secoli intorno al Mille, proprio nel Sub-Appennino ha trovato uno dei suoi punti di contatto più fecondi e dinamici.
        Ma persino tra il dominio longobardo e quello bizantino risulta impossibile tracciare una frontiera precisa in senso moderno; questa, in realtà, non vi è mai stata, né agli occhi dei bizantini né a quelli dei longobardi. Più che una frontiera rigida, può parlarsi in effetti di una frontiera all’americana, una realtà cioè sempre mobile e mutevole, ricca di sfumature e di contrasti ma fortemente osmotica, in cui si sovrapponevano e convivevano elementi dell’uno e dell’altro mondo contrapposti. E questo innanzitutto per la caratteristica natura orografica della zona del Sub-Appennino, posto dalla natura a far estremo schermo tra l’Irpinia e la Daunia, tra la montagna e la pianura.
        Terra di transizione per eccellenza tra queste diverse ma complementari realtà geografiche ed ambientali, il Sub-Appennino svolgeva non soltanto una funzione di collegamento trasversale tra i due mari. Ma si trattava anche, e forse soprattutto dell’essenziale collegamento nord-sud lungo la dorsale appenninica attraverso il tratturo Pescasseroli-Candela, la grande via dell'armentizia transumante abruzzese. 
        Se la funzione strategica del Sub-Appennino era importante per l’Irpinia ed il Sannio, giacché il suo controllo assicurava le valli del Calore e del Sabato da ogni minaccia proveniente da oriente, essa era addirittura essenziale per la Puglia. Per questa, infatti, la dorsale subappenninica costituiva l’indispensabile ed unico antemurale naturale per la difesa delle pianure del Tavoliere. 
        Tale ruolo strategico conobbe la sua fase di massima valorizzazione dei secoli X ed XL Nel 969 e nel 970 l’imperatore germanico Ottone I assediò invano, per ben due volte, Bovino ed Ascoli, senza riuscire a strappare le due munite piazzeforti ai bizantini. Nel 1018, dopo aver sconfitto

 

Melo di Bari a Canne, il catapano bizantino Basilio Bojoannes provvide a rafforzare stabilmente la difesa militare del Tavoliere. Tra il Fortore e l’Ofanto sorse un vero e proprio limes fortificato a sbarrare le invasioni di longobardi e germanici, di normanni e di insorti pugliesi, che sino ad allora avevano potuto avanzare agevolmente, calando dalle montagne del Sannio e dell’Irpinia, nell’interno del paese sino alle popolose e prospere città della costa pugliese. Una cintura di città-fortezze venne eretta dal Bojoannes, la principale delle quali fu Troia, sorta sulle rovine di Aeca, che controllava l’antica via Traiana tra Benevento e Siponto. E, con Troia, Melfi, posta a dominio del Vulture e della valle dell’Ofanto, e che costituiva, secondo l”espressiva definizione del cronista normanno Amato di Montecassino, "la porta della Puglia" .
        Il rafforzamento del Iimes bizantino riguardò anche le importanti posizioni strategiche di Bovino, Ascoli, S. Agata di Puglia, Panni e Vallata, eretta in diretta contrapposizione alla longobarda Vico, e il cui stesso nome ricorda le opere di fortificazione (vallum/valla) erette dai bizantini per chiudere l’unico passaggio naturale dalla valle dell’Ufita a quella del Calaggio, e viceversa. L’importanza strategica di Vallata era costituita dal fatto che il castrum sbarrava il punto obbligato di passaggio costituito dallo spartiacque che, ai piedi dell’abitato, si stende tra le valli dell’Ufita e  del Calaggio, via naturale di passaggio tra la Campania e la Puglia, il Tirreno all’Adriatico. 
        La collina su cui sorse Vallata, a cavallo delle vallate del Calaggio e dell’Ufita, era naturalmente difesa da profondi burroni, che ne rendevano assai arduo l’accesso sia da oriente che da occidente. Il castrum occupò la parte alta della collina, lungo la linea di massimo pendio, che fu rafforzata con mura e gallerie nel masso arenaceo, che attraversavano la collina in tutte le direzioni.
        Tutta la frontiera divenne irta di cittadelle, che chiudevano tutte le strade e sbarravano i valichi naturali (Kleisourai), dominavano tutti i punti strategici, sorvegliando l’intera regione attraverso una fitta rete di postazioni fortificate, collegate con le cittadelle mediante un sistema di segnalazioni ottiche, e da cui si diramava la cavalleria leggera dei trapezites, di una solidità e destrezza mirabile, dai quali derivarono poi gli stradiotti veneziani dell’età moderna.
        A presidiare il limes furono destinate popolazioni nuove, alcune di origine orientale e altre locali, e truppe che, in cambio del servizio militare ricevettero terre da coltivare, nelle quali si istallarono con le famiglie fungendo allo stesso tempo da soldati e da coloni. Un’antichissima traccia delle milizie orientali a Vallata è costituiti dalla chiesa di S. Giorgio, posseduta nel XIII secolo dai Verginiani e crollata col terremoto del 1694, intorno a cui si sviluppò in seguito un S. S. Giorgio era il patrono dell’esercito bizanti-casale, nonché dalla cappella di Michele. Difatti, no, mentre il culto dell’arcangelo guerriero S. Michele era comune sia ai greci che ai longobardi.
        L’arma privilegiata, sia a piedi che a cavallo, di queste truppe era l’arco. I bizantini, difatti, avevano, a differenza degli occidentali, in gran pregio quest’arma. La battaglia di Tagina, vinta nel 552 da Narsete sul re goto Totila, è ad esempio una battaglia di Crecy ante litteram, che segnò un successo completo, il primo nella storia medievale, dell’impiego simultaneo della picca e dell’arco.
        Nel Mezzogiorno d’Italia, la scena bellica fu sempre prevalentemente occupata dall’arma nobile per antonomasia, la cavalleria; stupore e sgomento desterà, sul finire del ‘200, l’apparire sui fronti della guerra del Vespro della fanteria leggera catalana degli almugaveri, armata di giavellotti e lancia. A partire dal XII secolo, anche nel Mezzogiorno, come nel resto d’Europa, l’impiego sempre più massiccio di balestrieri prevalse sugli arcieri. Unica importante eccezione fu rappresentata, proprio nel Mezzogiorno, dai Mussulmani siciliani e di Lucera, che esercitarono una notevole influenza nella composizione degli eserciti normanno-svevi, combattendo sia montati che appiedati.
        La pratica dell’arco costituiva infatti un’incombenza religiosa prescritta dal Corano, che ricadeva sull’intera comunità. In sostanza, due erano i motivi fondamentali dell’attaccamento dei Mussulmani alla tradizione arcieristica: una visione religiosa della pratica dell’arco ed una tecnologia specializzata nella produzione di archi forti ed efficaci. Al contrario nei paesi cristiani, dove entrambe queste motivazioni erano assenti, l’arco dové ben presto cedere il passo alla più efficace e maneggevole baiestra. Uniche eccezione i bizantini (Anna Comnena, nell'Alessiade, alla fine del XI secolo, definisce la balestra “un arco barbaro, assolutamente sconosciuto ai Greci" che esercitava un'"azione veramente diabolica”), gli anglo-normanni e i veneziani. Nell’esercito veneziano c’erano infatti ancora nel XV secolo parecchi arcieri cretesi, e sino agli anni ‘70 di quel secolo furono assoldati arcieri inglesi.
        Nonostante l’arco riuscisse a sviluppare un maggiore volume di tiro (nel tempo necessario ad un balestriere ad armare la sua arma, un   arciere era capace di lanciare dalle 6 alle 12 frecce), l’handicap maggiore dell’arco era costituito dalla sua maggiore difficoltà nel maneggio e nell’apprendimento dell’arma; per formare un buon arciere occorrevano anni di assiduo allenamento, mentre quasi tutti erano capaci di maneggiare una balestra senza particolare addestramento.
        L’arco era quello composto. costituito da un anima di legno sulla quale venivano incollate lamine di corno sul lato anteriore e tendini di animali sulla faccia posteriore. Tale assemblaggio permetteva di ottenere degli archi molto corti, che sviluppavano una forza maggiore di quelli in solo legno. L’uso ditale arco si mantenne nel Mezzogiorno, grazie ai Mussolini, sino a tutto il secolo XIII. Da quell’epoca, i documenti parlano esclusivamente di balestrieri, e citano gli arceri solo quando si tratta di Saraceni siciliani o di Lucera. L’uso dell’arco, in effetti , era rimasto mero appannaggio dei Saraceni. Il caso di Vallata, di derivazione bizantina, risulta quindi sotto molti aspetti unico ed eccezionale, e quindi meritevole di ulteriore approfondimenti.

ECONOMIA E SOCIETA’ IN ALTA IRPINIA NELL ETÀ ARAGONESE

        Il punto di partenza obbligato non può non essere quello della grande crisi di destrutturazione demografica e produttiva che investì il Mezzogiorno nel XIV secolo, e che particolare violenza conobbe nelle zone interne. La grande crisi del 300 si manifestò nel tracollo demografico, nella destrutturazione dei centri abitati minori e condusse alla formazione di un nuovo assetto produttivo. In conseguenza di ciò, il territorio della diocesi arianese, che comprendeva nel ‘500, oltre il capoluogo, 13 centri abitati, tornò ad essere, come già nei secoli dell’Alto Medioevo, un area dal rado insediamento umano e dalla bassissima densità demografica. I centri abitati si rarefecero, alcuni scomparendo del tutto, altri accorpandosi e concentrandosi. Scomparvero così i paesi dei Pietramaiure, Trosolone, S. Eleuterìo, Vetruscello, Tinchiano, Campanaro, Troppoaldo e Torre D’Amandi, mentre si avviò l’inarrestabile decadenza di Corsano. Il vastissimo contado arianese divenne così terra d’immigrazione, ad opera prima dei franco-provenzali di fede valdese stabilitisi nel Sub Appennino dauno, e poi di popolazioni albanesi e  montenegrine, allora definite comunemente col nome di “Schiavoni”. A fine ‘500, un quarto della popolazione di Monteleone, cospicuo casale di Ariano, era composto di franco-provenzali, mentre i centri di Ginestra, Polcarino (Villanova del Battista) e Montemalo (S. Arcangelo Trimonte) erano interamente popolati di “schiavoni”.Ma anche nel resto della diocesi e nella stessa città di Ariano una componente cospi-
cua, anche se non quantificabile, era costituita da immigrati albanesi.
        Assai più antica, e concentrata esclusivamente in città, era la presenza ebraica. Gli ebrei costituivano in effetti la parte economicamente più attiva della cittadinanza arianese, e contro la cui egemonia si indirizzò nel 1488 un tumulto popolare. Ma l’influenza ebraica si esplicitava anche a livello sociale. Nel Sinodo del 522, i1 vescovo Carafa denunciava infatti, quanto mai significativamente, la “stretta prattica” che i cristiani intrattenevano con i giudei, e sotto pena di scomunica ordinava “che nullo Cristiano habbia da conversare strectamente con Judei, facendo convitì, danzando con essi, ma solum habbiano da negotiar loro faccende largamente, e con essi non altrimente negociare et pratticare in nessun modo” L’espulsione del 1541, che ebbe incidenza assai limitata, non mutò la sostanza delle cose, come dimostra il fatto che, delle 27 famiglie arianesi in seguito riconosciute come “nobili”, numerose erano quelle di origine ebraica.
        Analogamente, nell’alta valle dell’Ofanto scomparvero del tutto, per non più risorgere, numerosi centri abitati, tra cui Monticchio de Lombardis, Oppido, Vario, Girifalco, Pietrapalomba, Castiglione di Morra e S. Bartolomeo. Stessa sorte conobbero S.Angelo a Pesco e  Migliano, proprio nei pressi di Vallata. Conseguenze della desertificazione furono la destrutturazione dell’agricoltura ed il degrado del paesaggio agrario. I campi coltivati cedettero di fronte al bosco e al pascolo e il contadino di fronte al pastore ed alla pecora, il cui allevamento regnò incontrastato per secoli nell’alta valle dell’Ofanto.
        In altre zone del Mezzogiorno una situazione di tal genere, contrassegnata da un brutale riequilibrio tra popolazione e risorse, pose in seguito le premesse per il grande sviluppo demografico e produttivo del ‘500, sviluppo che invece in Alta Irpinia non si verificò se non in minima parte. Nessuna meraviglia, quindi, che l’area dell’Alta Irpinia-Arianese si presentasse notevolmente sottopopolata ancora a metà del ‘400. Infatti, secondo i dati del Focolario aragonese del 1447, la zona contava 4.672 fuochi o famiglie fiscali (pari a circa 21.000 abitanti), che rappresentava il 40,98% degli 11.400 fuochi complessivi dell’intera provincia di Principato Ultra, che a sua volta era la meno popolata del Mezzogiorno continentale, contando appena il 5,31% dei fuochi del regno.
        Né si deve dimenticare che sulla zona si abbatterono due grandi catastrofi sismiche, che contribuirono fortemente a mantenere depressa la demografia: la prima, nella notte tra il 4 ed il 5 dicembre 1456, con epicentro il Matese, distrusse totalmente Ariano, dove fece oltre 2.000 vittime, Montecalvo, Lacedonia, Mirabella, Accadia, Zungoli, Benevento. L’altro terremoto, meno catastrofico e con epicentro nell’alto Sele, devastò nella notte tra il 14 ed il 15 gennaio 1466 un ampia area corrispondente a parte delle attuali province di Avellino, Salerno e Potenza. Caposele fu rasa al suolo senza che vi rimanesse “persona viva”, come pure Quaglietta e Teora; a Vallata, Conza e Calabritto il sisma fece “danno inextimabile”. Non deve pertanto stupire come gli scarsi dati demografici disponibili per letà aragonese indichino soltanto modesti incrementi. Tra il 1447 ed il 1494, ad esempio, Conza passò da 113 a 159 fuochi (+40,70%); Frigento da 40 a 50 (+25%): Ariano da 643 a 700 (+8,86%). Ma si registrano anche significative flessioni, come quelle di Luogosano, che arretrò da 46 a 30 fuochi (-53,33%), e di Gesualdo, che passò da 168 a 130 (-29,23%).
        Tra gli aspetti positivi dell’età aragonese va ricordata l’istituzione della Dogana di Foggia (1447), che regolava organicamente il transito delle greggi e l’accesso ai pascoli del Tavoliere, la cui arteria principale era costituita dal grande tratturo Pescasseroli-Candela, e di cui Vallata era uno dei terminali. Per tutta l’età successiva, e sino ai primi dell’800, l’intera area sub-appenninica visse sostanzialmente in funzione del Tavoliere, sia in relazione alla pastorizia che all’agricoltura.

        Essa costituiva infatti l’indispensabile retroterra, umano ed ambientale, dell’arido, desolato e spopolato Tavoliere, regno incontrastato delle greggi e della cerealicoltura estensiva, a cui forniva il legname dei suoi boschi e le braccia dei suoi uomini.
        Preziosi spunti per la storia economico-sociale della Baronia offrono gli Satuti municipali di Flumeri, concessi da Federico d’Aragona intorno al 1490. A prescindere dall’aspetto più propriamente giuridico-normativo, l’importanza degli antichi Statuti per la conoscenza degli antichi costumi, consuetudini e generi di vita della Flumeri e di tutta la Baronia del tardo Medioevo è veramente grandissima. Basti fare qui alcuni esempi dei molteplici spunti che la lettura di questo testo offre. Innanzitutto il paesaggio agrario. Balza in evidenza un grande disquilibrio tra popolazione e risorse, tra uomini e terra, a tutto vantaggio di quest’ultima; la terra è infatti abbondante mentre l’uomo è scarso, e per conseguenza essa viene sfruttata solo parzialmente. Predominano nettamente boschi, pascoli e campi aperti, mentre solo una ristretta cerchia intorno al paese presenta culture specializzate e recintate, quali vigne ed ‘torti”. All’esistenza di un vastissimo demanio feudale e comunale, adibito ad incolto produttivo, accennano, direttamente ed indirettamente, molti articoli, che ne regolavano l’immissione del bestiame dei forestieri per il pascolo (“fida’) e le relative infrazioni (“diffida”), ed anche il pagamento del “terraggio a cui erano tenuti coloro che ponevano a cultura precaria lotti di terreno demaniale od anche di privati, sempre che fossero aperti e non recintati. A tal proposito vi è un articolo molto significativo, il XVII, che proibiva ai proprietari di esigere il terraggio sui propri terreni oltre 18 settembre, nel caso che non l’avessero richiesto in precedenza, mentre il XLVI riconosceva ad ogni massaro il diritto di chiudere (“difendere”) due tomola di terra per ogni paio di buoi per farvi fieno, coll’evidente scopo di assicurare una base foraggera sicura ed a basso costo all’azienda contadina.
        Dell’importanza economica e della grande diffusione dell’allevamento del bestiame fa sufficiente fede il fatto che ben ventitré articoli sono dedicati alla minutissima regolamentazione dei “danni ai poderi” da parte di pecore, capre e porci. Questo elemento c'illumina anche sul regime alimentare della popolazione, che era chiaramente basato su di una netta prevalenza dei protidi sui glucidi. Importante è anche la particolare tutela riservata alle vigne ed agli “horti”, che integravano validamente l’alimentazione con il vino e con i cavoli (cap. XVI), quest’ultimi strettamente associati al consumo della carne.
        Altro elemento caratteristico è poi quello dei rapporti tra locatori e prestatori d’opera. Il capitolo XVII stabilisce ad esempio la pena di un tarì per coloro che venissero meno ai loro obblighi di lavoro, ed il XXIX sancisce il diritto all’intero salario pattuito da parte del prestatore in caso di inadempienza unilaterale del locatore, mentre perderà ogni diritto, compreso tutto il salario ricevuto, se abbandonerà senza giusta causa il posto di lavoro; ed anzi, nel caso che la sostituzione del lavoratore dovesse risultare più onerosa per il padrone, questi avrà il diritto a rivalersi della differenza sul servo inadempiente. Sono normative, queste, che rivelano chiaramente la stagnazione demografica e la grande penuria di forza lavoro esistenti nel Mezzogiorno quattrocentesco per effetto del tracollo demografico registratosi nel secolo precedente.
        La crisi del XIV secolo provocò inoltre un grave inasprimento del regime feudale, non solo come potere politico e giurisdizionale, ma anche come assetto della proprietà fondiaria, condizionando pesantemente ogni prospettiva di sviluppo. Difatti, l’estrema rarefazione della popolazione, con la conseguente debolezza delle istituzioni comunitarie, rese possibile ad alcuni feudatari l’imposizione de facto di un principio del diritto feudale franco che nel regno di Napoli non era stato mai ammesso.
        “Nulle terre sans Seigneur”. Ciò significa che l’intero territorio del comune era considerato feudale e che in esso non sussisteva (almeno teoricamente. giacché la realtà effettiva era ben diversa) proprietà privata. Da tale principio derivava il diritto di terraggio o di decima che il feudatario imponeva su tutto il territorio, i cui coltivatori erano considerati dei semplici coloni precari. 
        Passando dall’astrattezza del diritto alla concretezza dei rapporti sociali, ciò venne a determinare un notevole appesantimento delle condizioni di vita e di lavoro degli abitanti, a causa del notevole prelievo operato sul loro reddito dal feudatario, quasi nelle forme di confisca del surplus del lavoro contadino.
L’assetto feudale era dominato da alcuni grandi “Stati” feudali, tra cui spiccava quello dei Caracciolo, conti di Avellino e duchi di Melfi, che nel 1447 contava in Alta Irpinia 7 feudi (Frigento, Gesualdo, Paternopoli, Fontanarosa, Luogosano, S. Mango, Taurasi), per un complesso di 465 fuochi. Ma il vero gigante degli Stati feudali alitrpini era costituito dalle propaggini altirpine del ducato di Venosa dei Del Balzo-Orsini, principi di Taranto. Questi contavano infatti nel 1447 nell’Alta Irpinia-Arianese ben 14 feudi (Carbonara, Rocchetta, Lacedonia, Montaguto, Carife, Vallata, Vico, Accadia, Flumeri, Polcarino, Castello, S. Nicola, S. Sossio, Guardia), il cui nerbo era costituito dalla Baronia, a cui si aggiunse nel 1462 Bisaccia, per un complesso di 1.248 fuochi.
        L’altro ramo dei Caracciolo, conti di S. Angelo, possedeva 4 feudi (8. Angelo, Lioni, Morra, Castelvetere), a cui va aggiunta Villamaina, feudo di Simonello Caracciolo. Seguivano i Guevara, conti di Ariano, con 8 feudi (Ariano, Montecalvo, Apice, Buonalbergo, Castelfranco in Miscano, Monteleone, Casalbore, Savignano) e 1.523 fuochi. I Gesualdo, conti di Conza, 5 feudi (Conza, Teora, Cairano, S. Maria in Elce, Calitri) per 409 fuochi. I Cavaniglia, conti di Montella e di Troia, avevano 4 feudi (Montella, Cassano, Bagnoli, Mirabella), per 524 fuochi.  Presenze minori erano quelle dei Della Marra con tre feudi (Volturara, Montemarano, Castelfranci), con 290 fuochi; degli Aquino con 2 (Grottaminarda, Melito) e 160 fuochi; degli Iamsilla con Nusco (106 fuochi); dei Saraceno a Torella e Rocca 5. Felice (99 fuochi); degli Zurlo ad Andretta.



VALLATA ARAGONESE

    La prima menzione di Vallata, nonché la conferma della sua importanza, si rinviene nell’opera, composta tra il 1139 ed il 1154, del geografo arabo Edrisi Questi, nel Libro del Re Ruggiero, ricorda il grande asse stradale che collegava il versante adriatico a quello tirrenico, che, dopo aver risalito le vali dell’Ofanto e del Calaggio, toccava “bàb.rah” (Vallata), di lì immettendosi nella valle dell’Ufita raggiungendo Frigento (“f.ràgintù”) per poi scendere a Benevento (con una diramazione secondaria per Avellino (“ab.linah”), che Edrisi definisce “città piccola come un castello”. Vallata è ricordata inoltre nella Cronaca di Riccardo da S.Germano per aver subito l’assalto e il sacco di Marcovaldo di Anweiler nella primavera del 1199 (“Vallatam, quoddam casale Apuliae vi coepit, et suis dedit in direptionem et praedam”, dove la corrotta lezione di “casale” va corretta in “castrum”).

        Vallata appartenne ai Del Balzo sin dal 1343, quando fu venduta dalla regina Sancia a Raimondo del Balzo. Un momento particolarmente significativo Vallata lo visse nell’ultimo scorcio del ‘400, quando il feudo, insieme con tutta la Baronia, fu recata in dote da Isabella Del Balzo-Orsini a Federico d’Aragona, figlio del re Ferrante, destinato ad essere l’ultimo sovrano aragonese di Napoli. Isabella sposò Federico d’Aragona ad Andria il 28 novembre 1487. Il 4 luglio di quello stesso anno il padre Pirro del Balzo era stato arrestato in Castelnuovo, dove poi morì. Ma già il 3 agosto 1487 Ferrante d’Aragona aveva donato al figlio Federico, in cambio di Taranto, i feudi sequestrati al futuro suocero di questi: Accadia, Bisaccia, Carbonara (Aquilonia), Carife, Castello, Flumeri, Guardia, Lacedonia, Montaguto, Polcarino (Villanova del Battista), Roccetta S. Antonio, S. Nicola, S. Sossio, Trevico, Vallata.
        Federico costruì, nel tentativo di rivitalizzare la via trasversale per la Puglia attraverso la valle della Fiumarella, la cosiddetta “Dogana della Bufeta”, che consisteva in un castello-palazzo di residenza e di caccia ed allo stesso tempo in una articolata struttura commerciale di supporto ai traffici ed ai commerci che si svolgevano lungo la strada. Un documento spagnolo del 1531 la ricorda come “una bella e comoda casa fortificata, con forti mura all’intorno e quattro buone torri”, e con due taverne all’interno, mentre un apprezzo del 1573 la descrive come “un edificio molto forte e sicuro per farvi industrie e negozi”, con appartamenti, cucine, magazzini, stalle, forni e panetteria.
        A Vallata, invece, in età aragonese il grande demanio della “Mezzana delle Perazze”, di oltre 365 ettari, fu trasformato in difesa ed adibita all’allevamento delle Regie Razze, cioè dei cavalli per la corte e per l’esercito; non è improbabile che proprio tale provvedimento, inteso come lesivo degli interessi della comunità, abbia contribuito a far schierare decisamente Vallata contro gli Aragonesi e i loro alleati veneziani, determinando la tragedia del 1496. L’altra difesa feudale della “Mezzanella”, di 1076 tomoli, era invece addetta al pascolo di vaccini, pecorini e giumente.
        Questi elementi, unitamente al transito delle greggi transumanti in Puglia e al commercio del grano (immagazzinato in grandi “fosse”), danno un’idea dell’importanza che l’allevamento e la commercializzazione del bestiame aveva nell’economia vallatese. Antichissime erano le Fiere annuali di S. Vito (15 giugno) e del 16 e 26 agosto, specializzate appunto per il bestiame, alle quali convenivano commercianti e allevatori  dell’Arianese, dell’Alta Irpinia e della Puglia. Oltre alle fiere si teneva ogni giovedì il mercato settimanale del bestiame.
        Questa grande ricchezza armentizia, unitamente ad un agricoltura abbastanza sviluppata e legata ai traffici interregionali, spiega le espressioni riportate nelle Croniche del Marchese di Mantova a proposito del sacco di Vallata: “Et mesola a sacho, fu guadagnato un numero infinito de bestie, arzenti et altre robe de grande valore, ... formento et vino in grande quantità”. Ciò dà altresì ragione della rapidità della ripresa demografica ed economica conosciuta da Vallata dopo i terremoti del 1456 e del 1466, e soprattutto dopo la rovinosa distruzione del 1496: il paese, che contava 142 fuochi nel 1447, ne aveva infatti 319 nel 1532 e 366 nel 1545, facendo registrare in un secolo un incremento del 158%.
        La vivacità economica di Vallata e il suo costituire un nevralgico nodo stradale determinarono lo stabilimento di una piccola ma fiorente comunità ebraica, specializzata nel commercio del bestiame, della lana e delle pelli, oltre che nelle consuete attività creditizie. A tale presenza si ricollega la tradizione vallatese della scenografica processione del Venerdì Santo, che dopo la conversione forzata del 1541 assunse il significato di una catechesi pubblica e severa nei confronti degli antichi ebrei, ora divenuti “cristiani novelli”

5-La Battaglia di Vallata
Dott. Armando Colicchio - Bibliotecario Comunale di Vallata

        Partiamo da Monteleone FG - giovedi 5.5.1496, primo giorno non piovoso, dove il marchese di Mantova Francesco Gonzaga è giunto da Ascoli Satriano con 100 uomini d’arme, 1.000 soldati a cavallo e 1.000 fanti con al seguito l’artiglieria1. Qui ricevono la sottomissione del paese alla causa aragonese e decidono di andare il giorno dopo a Castelbaronia per saccheggiarlo, visto che gli abitanti si erano dimostrati perfidi nemici del Re2.
        La spedizione parte all’alba, attraverso i tratturi per circa miglia 16 - pari a Km 17/18= distanza: linea d’aria Km 15, attuale SS.9 1/bis Km 20 - con una parte imprecisata della forza militare a disposizione, giunge a Vallata alle ore 8 circa, attraversa la nostra piazza Garibaldi alla volta di Castelbaronia; ma giunta nei pressi del vicino torrente Grattaponi, attualmente in adiacenza della sorgente idrica vallatese, trovatolo di difficile attraversamento per l’attiguo burroncello scavato nel conglomerato pliocenico di cui è formato tutto il masso della montagna di Trevico, pensa bene di ritornare sui suoi passi - 800 mt circa - e assicurarsi l’amicizia dei vallatesi3

        Fa sostare la truppa nel pianoro della piazza e manda una delegazione presso porta Rivellino per chiederne la sottomissione alla casa aragonese. Ma questa composta da: Alessio Beccacuto, Aloisio de li Albori, Grasso e Soardino o Manfredo da Vicenza, viene accolta ostilmente4; infatti Beccacuto viene colpito all’alluce, de li Albori viene colpito in una coscia da una partesana, Grasso viene colpito da una freccia nella spalla destra e da un colpo di lancia al ginocchio, Soardino viene colpito da un sasso che gli guasta il volto. I vallatesi sono usciti dalla porta Rivellino e li stanno inseguendo fino alla piazza dove si trovano gli altri, questi subito accorrono in loro soccorso e costringono i vallatesi a rientrare nelle mura5. Il Gonzaga non attacca subito perché ha già valutata la situazione stimando il “loco forte dei sito e di homini” e fa partire una staffetta per Monteleone per far venire le “zente tutte”, sono le ore 9 circa.
        Intanto diamo uno sguardo al paese di Vallata: è un mattino di maggio del più classico dei paesi medioevali, autonomo, di circa 2.000 abitanti che vivono di agricoltura e pastorizia, nel suo territorio di Kmq 47.67 si trovano molte case coloniche e certamente in questa giornata fremono i lavori per cui i numerosi braccianti che normalmente vivono nell'abitato sono usciti alla campagna, dentro le mura sono rimasti coloro che fanno parte della classe agiata, gli artigiani, le donne, i bambini, il clero, allorché si affacciano i mantovani i vallatesi dalle mura li scrutano e valutano la consistenza della forza militare, la ritengono non sufficientemente soverchiante per poter espugnare il paese che è fortificato dalle mura e proietto da robuste porte specie Porta Rivellino, vero bastione inaccessibile dalla parte più esposta agli attacchi nemici, le altre 2 porte del Piano e Tiglio sono difficilmente raggiungibili perché sono protette dai relativi fossati, ed anche burroncelli, così i maggioritari presenti nell’abitato ritengono difendere la loro autonomia ed indipendenza dall’aragonse ed optano senza tanto pensarci per la resistenza al Gonzaga. Questi, in attesa dell’arrivo del resto dell’esercito, accompagnato da Francesco Orsino “molto pratico del paese” che ne conosce bene sia i punti più fortificati che i punti più deboli, predispone il piano di attacco.
        In questo lasso di tempo i vallatesi commettono - secondo me - il più grave errore, in quanto non si rendono conto del grave pericolo che stanno correndo, ma continuano a discutere tra loro trascinati nella decisione di difesa ad oltranza dall’arciprete Don Angelo de Antonello de 
Meo. acerrimo avversario degli aragonesi ritenuti rei dell’uccisione di Pirro del Balzo, feudatario di Vallata3, ne gli abitanti usciti alla campagna possono rientrare nonostante suoni la campana a raccolta, perché i soldati presenti ne impediscono l’adunata.
        Così sono le ore 2 pomeridiane quando giungono con difficoltà gli altri soldati con l’artiglieria. I vallatesi sono ancora invitati ad arrendersi, ma per risposta cominciano a gridare: Francia, Francias - ribadendo fermamente la loro fatale decisione. Ormai il dado è tratto. 
        Piantate duo bombardelle e alcuni passavolati dalla collina di S. Maria puntate sul castello in prossimità di porta Tiglio e fatti appostare a dovuta distanza oli scoppettieri e balestrieris; la battaglia ha inizio.
        Le bombarde cercano di far breccia nelle mura. Si mettono le scale cercando di scalarle, ma più volte vengono ribattuti dall’altra parte. La battaglia si fa dura, i soldati non riescono a invadere, così scende direttamente in campo il Marchese di Mantova, partecipa alla lotta dando animo ai soldati e esortandoli alla vittoria, getta nella mischia due sue squadre di uomini d’armi (guardie del corpo) che partecipano all’assalto anche loro con le scale5. Si combatte presso le 3 porte: Rivellino o Torello, del Piano e Tiglio, dai due fronti si combatte virilmente; quando le bombarde sfondano porta Tiglio ove maggiormente concentrato l'attacco, cominciano a capitolare tutti i punti di difesa2, l’esercito invade dalla parte più alta di Vallata fortificata, questa volta sono gli assalitori ad avere la posizione più vantaggiosa e nella loro azione di rivalsa non perdonano né a età, né a sesso; ogni resistenza è annientata, bruciate le case dalle quali si scorge qualche segno di resistenza, trucidate le persone che vengono colte con le armi in pugno. Gli altri uomini validi vengono fatti prigionieri e orrendamente giustiziati in via Chianchione2, non viene passato per le armi Don Angelo de Antonello De Meo, perché ecclesiastico. Subito dopo il Gonzaga fa un bando che gli uomini e le donne siano salvi della vita; mentre si può procedere al saccheggio, i superstiti vallatesi vengono radunati nella chiesa Madre. Ad operazione conclusa, sono le ore 19.00 che Giovan Filippo Aureliano, segretario della spedizione, fa un dettagliato rapporto alle comando militare in Lucera; sono le ore 20.00 che anche il Marchese di Mantova Francesco Gonzaga trasmette un invito ai paesi del circondano affinchè si arrendessero velocemente, altrimenti farebbero la fine di Vallata, scrive la lettera alla moglie e a Bernardo Contarino a Lueera.
        Le due lettere partono il giorno successivo, dopo la resa di Trevico, Carife, Castello, Bisaccia e Guardia, alle ore 6 per Lucera dove giungono a mezzogiorno8. Quanti sono i caduti? E’ un quesito che comunque resta irrisolto perché i documenti storici in nostro possesso, ne danno quantità diverse: 170 dice Segretario Gaspare, 200+5 donne dice subito il Marchese di Mantova, 250 dice lo stesso Marchese 52 gg dopo, il 28.6.1496 a Floriano Dolfo o come sostiene il Saponara 170+250=420 dei quali 250 sono trucidati in via Chianchione. E’ innegabile, però, che tutti riportano che i terrazzani sono tagliati a pezzi e sono salvate le donne e i bambini, nonché preservati tutti dalla violenza della soldataglia6, il Saponara e il De Paola ne dubitano. Il saccheggio si protrae ancora fino al 14 maggio a causa del cattivo tempo. L’esemplare punizione data ai vallatesi sortisce l’effetto sperato dal Marchese di Mantova, che non appena ha fatto un invito ai paesi vicini, sono le ore 20, che già all’alba questi si presentano con le chiavi in mano e sono: Carife, Trevico, Castelbaronia, Guardia e Bisaccia che hanno ascoltato il bombardamento di Vallata e nè hanno scrutato l'eccidio.
        Il 9 maggio il Gonzaga destituisce l'arciprete Don Angelo accusandolo dì essere stata la causa principale di tanto macello e propone al Feudatario di Vallata la sostituzione con Don Matteo de Antonello7.
        All’alba del giorno 14.5.1946. quando ]e truppe se ne vanno da Vallata alla volta di Panni dopo aver assicurata tutta la Baronia ai Re, si portano il frutto del loro bottino: un’infinità di bestie, argenti, vino, formaggi e oggetti di valore9.
        Nel 1500 Vallata ha una popolazione di 1780 abitanti, nel 1532 di 1784, mentre Saponara ne determina 1000 abitanti su 319 fuochi; nel 1545 di 2096, mentre Saponara ne conta i fuochi nel numero di 365: nel 1600 ab. 2076, neI 1765 ab. 4000; nel 1864 ab. 3604a nel 1928 ab. 4132; nel 1951 ab. 4798; nel 1961 ab. 5117; nel 1981 ah. 3985: 31.12.1995 ab. 3463.
        Da quanto detto, si può concludere, che Vallata il 6.5.1496 ha subito il saccheggio e l'eccidio di tutti gli adulti che si trovano nelle mura, mentre possono essere stati salvi quelli che si trovano già alla campagna. non si giustifica altrimenti il numero degli abitanti presenti nel 1532; le vittime sono state sepolte in via Chianchione. collina di S. Maria e località S. Andrea. La via Chianchione, luogo delle sepolture, e posta in adiacenza della porta Tiglio, è luogo abitato e luogo di transito quotidiano dei suoi cittadini per ra~aiungere la campagna e certamente: luogo del pianto, “chiagnere” (Saponara) e luogo del rnacello, “chianca” (De Paola), l’una motivazione non esclude l’altra. 
    Anticamente, il 6 maggio si celebrava ivi la Messa funebre.

_________________________________________________
NOTE BIBLIOGRAFICHE
  1. Bernardo Contarini - oratore dello Stato Pontificio - accreditato ai seguito della Spedizione di Francesco Gonzaga - in Lucera, sede del comando generale; lettera de] 3.5.1496 a Roma: in un consulto delle interforze del 30 Aprile fu stabilito che il Marchese andasse a Monteleone da Ascoli con 100 uomini d’arme. 1.000 cavalleggeri e 1.000 fanti circa ed ivi bisognava condurre le bombarde. Sta anche in G. De Paola - Vallata, rassegna storica civile religiosa, Tip. Valsele, Materdomini - AV - 1982 pag. 102.

  2. Don Arturo Saponara - l'aspenssima battaglia di Vallata: Biblioteca Prov. di Avellino, pubblicata da “Economia Irpìna”; 1963.

  3. Saponara, op. cit.:Archivio di Stato di Mantova - Lettere del Gonzaga alla moglie, Monteleone 5.5.1496; Lettera di Paolo Capello, oratore veneziano al seguito della spedizione. Lucera; Gerardo De Paola, op., cit.

  4. Delegazione mantovana (formata da:) sta in: Saponara. op. cit.; De Pao]a, op. cit., lettere del Marchese di Mantova; e in altri documenti.

  5. Giovan Filippo Aureliano, cronista al seguito del Gonzaga, collaterale di Paolo Capello veneziano e di Bernardo  Contarini romano, narra la presa di Vallata perchè era presente di persona “io referisco il vero perchè vedo ogni cosa con l’occhio”; lettera scritta alle ore 19.00 del 6.5.1496 e spedita alle ore 6.00 del mattino successivo da Vallata, arriva al comando generale in Lucera alle ore 12.30 e rispedita agli stati alleati successivamente.
    Sta in: Sanudo Marino - I Diarii, Bibl. Naz. Centrale. Roma;
    De Paola; op. cit., pp. 100- 101.

  6. Si aggiunga alla documentazione citata anche Paolo Giovio, Iannacchini, Segretario Gaspare.

  7. Lettera del Marchese di Mantova da Vallata in data 9.5.1496 - Sta in: De Paola, op.cit.. Giuseppe Coniglio - Francesco Gonzaga e la guerra contro i Francesi nel Regno di Napoli.

  8. Dai tempi di percorrenza si desume che il corriere abbia viaggiato alla media di 10 Km/h.

  9. Segretario Gaspare - Cronache del Marchese di Mantova - Archivio Storico Lombardo in: De Paola, op. cit..

La Battaglia di Vallata nella Storia:
— Mario Equicola (1470 - 1525) Istoria di Mantova.
    “Qualunque si preparava alla resistenza diveniva miserabile preda dei soldati. Vallata il sa....t
—  Paolo Giovio, 1483 - 1553 - Istoriarum sui temporis
    “Il Marchese di Mantova, dunque, desideroso di punire di proprio volere si tolse quell’impresa.... Vallata fu presa con gran forza e colera dei soldati, essendovi tagliati a pezzi tutti i terrazzani....
—  Gaspare Segretano - Croniche del Marchese di Mantova
—  Giuseppe Coniglio - il Regno di Napoli al tempo di Carlo V
—  Giovanni Gioviano Pontano - De Bello Neapolitano
—  Marino SanLido - Diarii.

In occasione del 

5° Centenario
Battaglia di Chianchione

il Laboratorio Teatrale del Liceo Scientifico di Vallata

presenta

 ...coniunx nostra amatissima...
 et domane col nome de Dio
andaremo sequitando 
la victoria

Mariella Archidiacono
Filomena Del Sordi
Michele De Leo
Alessandra Marino
Annalucia Palmisano
Patrizia Pironti
Raffaele Francesca
       Roberta Rauseo
Stefania Stanco
Francesco Cerreto
Gerardo Cataldo
Giuliano Di Cresce
Annamaria Paternostro
Alfonsina Zamarra
Giuseppe Di Ianni


 - Campus del Liceo Scientifico - VALLATA (Av)

...coniunx nostra amatissima... et domane col nome de Dio andaremo sequitando la vietoria...  è uno spettacolo prodotto dal Laboratorio Teatrale del Liceo Scientifico   di Vallata in collaborazione con  “La  compagnia dei narranti”ed alcuni  giovani attori - Simona Ciampi, Maurizio De Matteo, Nadia Ricciardi  impegnati  negli ultmii anni in una interessante  sperimentazione su diversi e molteplici modelli espressivi. La realizzazione scenografica è di Salvatore Zecchino, un artista del gruppo Biopolis che ha fatto della ricerca sui segni un  elemento centrale di approfondimento creativo. 
 L’ideazione, il testo e la regia sono di Mario Parente.


La proposta di affidare al Laboratorio un lavoro teatrale che facesse riferimento alla Battaglia di Chianchione e la sua realizzazione nell'ambito delle iniziative per il 5° anniversario di tale avvenimento sono state della Giunta Comunale e del Comitato organizzatore costituito per la celebrazione ditale battaglia.

In un grande spazio che diventa il paese, i personaggi vivono e si muovono più che dentro una lineare storia ricostruita, in una comune ed inquietante condizione esistenziale. In questo riconquistato sentimento del tempo si sciolgono e annullano le fasulle costruzioni che spesso hanno abbellito la realtà, negandola. Così lo stesso spazio scenico attivato si modifica continuamente.

Personaggi come “la donna” o “la narratrice”, “il coro ”,“il prete”, il Gonzaga ed Isabella, agiscono  in un continuo modificarsi di linguaggi, 

       verbali e non verbali, in un loro visibile conflitto che è il segno della ricca complessità della vicenda.

Alla fine ciò che è stato costruito ritorna ad essere ciò che era prima della costruzione. Niente. Il teatro scompare per dirigersi altrove.., ne si sa dove, nè quando... ciò che resta è ciò che ha disoccultato.

...coniunx nostra amatissima... potrebbe essere, quindi, la ricerca di una o più ragioni alle  tragedie di cui è disseminata la storia, O forse il tentativo di superare tutto ciò che nella storia rende razionale ed accettabile la violenza. O forse niente di tutto ciò.

Essa è prima di tutto ed oltre tutto il dolore delle donne o meglio il dolore di essere donna che distrugge e nega ogni forma di inutile eroismo delle vittime, contro cui cozza e si annulla il calcolo del servile potere locale e rende melodrammatico e lontano l’amore untuoso e sdolcinato dei potenti e dei conquistatori. Così ogni personaggio si muove oltre se stesso, vive e manifesta più la sua condizione esistenziale che il suo essere storico, supera i confini e le delimitazioni anguste in cui spesso sono stati consumati da una visione freddamente didascalica.
I personaggi e l’intera vicenda non sanno e non vogliono insegnare più niente. Si realizzano solo. Come se dovessero ancora vivere pur esistendo da sempre. In definitiva si sfidano e sfidano gli altri a partire della propria vita, dalla esplicitazione di ciò che è stato occultato e disperso.


STRALCIO DELLA RAPPRESENTAZIONE TEATRALE
tenutasi la sera del 6.5.1996 in occasione del “V0 Centenario”, presso la palestra del Liceo Scien-
tifico di Vallata, con un afflusso di pubblico stimato in non meno di 850 persone

CONIUNX NOSTRA AMATISSIMA.....
.....et domane col nome de Dio andareiuo sequitando la victoria......
ideata e realizzata da Mario Parente

 
..se guardi da questa parte.....
                                   laggiù
è la valle....
che la nebbia avvolge e ruba allo sguardo
talvolta è come se fosse leggera lana di pecora
talvolta un mare di piume di cardo....

....e dall’altra parte gli innevati monti
che l’inverno copre e custodisce
cui parla con il gelido vento
del primo mattino
quando..................

vi narrerò di un storia
inesistente ed avara ... o forse reale e vera
più della nostra esistenza....

ecco il mio paese..
la chiesa
le mura
       le case
le strade
gli alberi
i campi
e dentro ognuna di queste pietre
...i  ricordi....
la memoria è questo non perdersi per sempre
i tenere stretti, legati a se stessi
i mille e più volti
che ognuno di noi ha.....

.. .vedi non esisterebbe la piazza per me
per ognuno di noi
se non fosse dentro di noi
dove andavo e vado ancora con mia madre,
senza che nessuno ci veda
e poi quella strada, piccola, stretta
tra le case di pietra con pochi scalini
................ che vuoi che sia per gli altri’’
Invece per me è tutto.    

 

ed i fiori?
I fiori sono tutti belli
ma il fiore più bello per me è la violetta

per te invece è la rosa. Vero?
per te la margherita. Si?
per te i fiori del ciliegio. No?

per me è la violetta

spuntano fuori come se fossero bambini
dolci ed impertinenti
odorosi e lievi
vicini al ruscello
lungo le siepi, nell’erba

una volta, credimi, ho anche pensato e sognato
di essere una violetta
tra tante violette
li fuori la porta del paese...
e poi darci la mano con le altre
ed iniziare a giocare a girotondo...
e contando e saltellando salire...., salire e rincor rerci
ma poi improvvisamente.............

ho pensato che essa
si involasse
per portare messaggi di amore e di vittoria
ed invece...
notti simile all’altra
piena di solitudine e disagi....

Sento sempre di più il corpo stanco
dolori in ogni parte
Non riesco neanche più a mangiare....
Sostituire alle delicate prelibatezze della terra di
Mantova
i pesanti
vomitevoli
acri sapori di queste zone
è più doloroso di quanto si possa pensare.....

Ecco, è giorno oramai......... 

PRIMO ACCOMPAGNATORE

un altro giorno per andare avanti
Chi guarda dietro e dilato
       sa che ogni cosa è conquistata e restituita
al nostro Re
sue sono le terre, gli uomini................ 

GONZAGA

solo resta sul monte il Castello maledetto
..servi dei Francesi, nostri nemici,
odiosi e spergiuri.... ..fin quando non saran no
conquistati
ed allora
verranno a chiedere pietà. La strada della 
giusti zia è piana, stracolma di questa pietà.
l’omini senza saggezza
Perchè non prima essere amici
fidarsi della nostra protezione
ed invece poi
calpestati e vinti
buttarsi ai nostri piedi
tremando,
offrirci più di quanto noi chiediamo...........

ISABELLA

Signore mio e mio sposo
io sento quanto duro e pesante sia il vivere lontano
da ciò che più si ama..................

E come non vivere..
scomparire a se stessi...........
le ore che passano dell’intero giorno
ci rovinano addosso
come macigni pesanti
fino, talvolta, a seppellirci............

allora è solo il sapersi uniti
ed unici
anche lontano
che ci solleva dalla solitudine e dal dolore

Signore mio e mio sposo
so quanto soffrite
per il continuo muoversi,
giorno dopo giorno
nell’avere mille dimore
nel non sentirsi sereni e felici come quando voi
siete
nella vostra stupenda casa....


ma so anche che la ragione ultima
del vostro
del nostro peregrinare
che la mia anima è la vostra anima,
ha profonde motivazioni
nel vedere del Dio della vittoria
a noi vicino
con il suo grande amore, la sua infinita giustizia..

mio signore e mio sposo
ieri verso sera quando morto il giorno la luna.

GONZAGA

. . . . . . . . . . . . è sorta dietro i monti,
imbiancando poi queste terre maledette

Gonzaga 

se potessi fare di tutto il mondo un nostro giardino
no, fiorito, colorato......

Isabella

in cui, mio signore, vivere e rincorrerci come 
fan ciulli che la vita carezza e con la vita, sereni
gio cano

Gonzaga

essere lontano da ciò che intristisce l’anima ed
oscura i sogni

Isabella

essere ciò che volemmo e vogliamo essere, inven tare 
parole che hanno più di ciò che le parole dicono

DIALOGO TRA LA DONNA E
LA NARRATRICE

donna

eppure vorrei rendermi conto delle cose semplici
da quelle ovvie.....

narratrice

di che cosa? non riesco a capire
      

donna

ripeto delle cose più semplici, ovvie

narratrice

spiegati meglio, fammi capire

donna

del perchè le nuvole hanno le sembianze degli
uomini, degli animali, delle mille cose che 
popo lano il mondo...........

PRIMO ACCOMPAGNATORE

le strade che noi percorriamo
devono essere libere...........
Chiunque è in guerra
gioca con il tempo e lo spazio
La vittoria è questo impadronirsi del tempo e del-
lo spazio degli altri
..........ecco se qualcuno si oppone è NEMICO.....
va battuto, vinto, annullato....
che il suo sangue sia d’esempio ed insegnamento
ad altri
che il suo corpo, fatto a pezzi,
generi orrore e paura....
PAURA........
si! è lo spietato gioco della paura che rende uno
vincitore l’altro vinto.......

GONZAGA

eppure io non vedo ragione alcuna
nè di fede nè di forza,
che questi luoghi possano
per una qualsiasi follia
opporsi a noi
benevoli verso le terre
i loro signori, garanti della loro vita
delle loro famiglie
finanche
nella nostra benedetta grazia
dei loro sogni.....
nostra arnatissima consorte.........................


IL PASTORE

....il marchese di Mantova
portò laggiù....a Troia;...
parte del bestiame
e dove egli giunge
si dice
che o gli si concede onore e si diventa suo servo
o tagliano uomini e donne a pezzi
.......si impadroniscono di tutto.........
non ti lasciano niente.......

spezzano il tuo corpo, perchè dividono la tua vita....
si, me lo hanno detto e ripetuto tutti
io ho visto con i miei occhi
e giuro su Cristo..........
vorrei essere morto
prima
di rivedere le stesse cose........

PRETE
(DON ANGELO ANTONELLO DE MEO)

niente è più diabolico
del volto dei....
dei nuovi conquistatori
accecati dalla infedeltà

che abbiamo impresso nel corpo e nell’anima la
fedeltà
e l’amore per coloro che non ci furono mai nemici
nè oppressori....

PASTORE

e poi si vedevano cose fin ad ora non note
il bestiame correre da una parte all’altra
in due...tre.... dieci direzioni

.....uomini su cavalli veloci attaccavano in più 
luo ghi . . . . .
e grida si sentivano
e poi scontri.....
ed ancora il lamento delle bestie.....
oppure del perchè il fumo sale verso il cielo anche
quando non e e vento o del perchè gli amori 
na scono e finiscono, oppure trovare una ragione al
latrare notturno dei cani,
al miagolio dei gatti....e così...
       NARRATRICE

anche ciò non riesco a capire... tutto è in ciò che
è.... le spiegazioni vengono dopo.

PASTORE

....il bestiame, spaventato....
i pastori legati venivano trascinati da una parte
all’altra....
e ogni cosa sottosopra...
quasi una gara a chi fosse più bravo nella sua cm-
crudeltà....
e quasi quasi talvolta dalla paura e dallo sgomento
si passano al ridere.....
i soldati per avere un maggiore bottino...tosavano
le pecore frettolosamente e male
e gli altri scorticavano quelle già scannate ed 
uccise per avere più lana e pelli
tutte piene di sangue, imbrattate di terra,
sporche...talvolta non sembravano neanche più 
pec ore......

IL PRETE

volete o non volete questa è la mia vita....
per una sola ragione essere costretti a scegliere.
Costretti a scegliere......
tra la barbaria e la tolleranza
tra la fedeltà e l’infedeltà
tra il bene e il male
tra Dio ed il diavolo....

e se prima di Castello che resite e vince...
noi saremo capaci di allontanare gli uomini del
sopruso , della menzogna, del peccato e della morte
....anche altri riavranno coraggio...

....se essi verranno qui per oltraggiarci, bisogna
fare come Cristo con i mercanti nel tempio...
Buttarli fuori..;
...noi non siamo le pecore rubate....ed uccise...
noi dobbiamo...anzi abbiamo deciso...
il nostro paese, la nostra vita....i nostri campi.... e
tutto ciò che è nostro
ha un prezzo che la loro ricchezza non contiene
nè conterrà mai...
mai...
prepariamoci...


contro coloro, che senza alcuna ragione, vengono
per impadronirsi della nostra vita più che delle
nostre terre e delle nostre misere case
noi abbiamo il diritto di lottare.....
SCEGLIAMO tra le direzioni possibili
quella che ci porta a noi stessi...
Ma anche questo non ci basta...
saranno invisibili nel mutato paesaggio le nostre
immagini
e spenti.... distrutti.... spenti per sempre... i nostri
sogni...
non ci conosceranno più.....
non avremo il tempo per narrarci delle nostre 
fantasie e dei nostri sogni...

IL PASTORE

...i pastori dispersi... chi fuggiva da una parte...chi
dall’altra.
il dolore non ha nè direzioni nè senso...
il dolore è qualcosa che basta a se stesso....
perciò è dolore...non ha il valicabile confine della
gioia...
...chi cadeva a terra...arrancando, le mani nella terra
       sporca e bagnata per fuggire....
e poi salvarsi...da questo inferno ove morivano
animali e guardiani.....

IL PRETE

...non sarà, che sia testimone di Dio....
tutto ciò per i nostri uomini, le nostre donne, i nostri
animali, le nostre fanciulle, le nostre case.... me-
glio la morte, meglio la morte

IL PASTORE

...ho visto con i miei occhi pastori e pecore
calpestati da cavalli che giravano a cerchio e poi
partivano di slancio....

IL PRETE

.basta. . . .basta. . .o meglio ascoltate
e che le parole non si inabissino per scomparire....
che le vostre anime siano, come sono, non
pietre...ma sorgenti...che danno vita a fiumi in
piena....e che abbiamo dalla loro parte la forza del
cielo....


MANIFESTAZIONI SOCIO-CULTURALI TENUTE
DAL 5°  CENTENARIO DELLA BATTAGLIA DI 
CHIANCHIONE

Allestimento stand delle produzioni locali (arte, artigianato, lavorazione del vimine e della canne, alimentari, ecc.) ha riscosso notevole favore di pubblico; ma, ultimamente l'esposizione non si è tenuta per mancanza di impegno dei produttori.

Fiera del torello viene tenuta con regolare puntualità durante il ferragosto (2^ domenica).
Per l’occasione viene stipulata un’apposita polizza assicurativa in favore degli allevatori partecipanti a garanzia del capitale a rischio. Per l’edizione 1996 ha vinto il 1° premio l’allevatore Ferrucci Vito; per l’edizione 1997 e 1998 l’allevatore Mariconda Vito.

Corteo Storico riscuote ogni volta una vasta partecipazione di pubblico con coinvolgimento popolare, perchè i protagonisti dello spettacolo sono i Vallatesi.
Nella manifestazione viene inserito un gruppo di sbandieratori e sbandieratrici, che accompagnati dai caratteristici suoni dei tamburi rendono pienamente l’idea di un ritorno al passato. Sono parte integrante del corteo storico le squadre degli arcieri vallatesi, che completano la manifestazione, con la gara del tiro con l'arco.

Gara del torello o del tiro con l’arco concorrono alla vincita del premio, costituita da un torello sopranno proveniente dagli allevamenti paesani, squadre di arcieri in rappresentanza dei diversi rioni e contrade del paese. Gli arcieri devono essere vallatesi residenti o figli di vallatesi o comunque persone che possano dimostrare la loro origine vallatese. Nella gara è consentito l’uso dell’arco a setto libero, non monolitico e senza strumenti di precisione. Le gare continuano a svolgersi (seconda domenica di ferragosto) su bersagli concentrici posti alle distanze di 15,30 e 25 metri.
Finora hanno vinto il torello le squadre:
• Edizione 6.5.1996 la squadra di “Porta Rivellino” (Garruto Francesco, Furia Franco, Candelino Vincenzo, Strazzella Vincenzo, Zamarra Giovanni, Tedeschi Carmine Am., Tanga Francesco)
• Edizione 10.8.1996 la squadra di “Porta Rivellino” (Garruto Francesco, Furia Franco, Candelino Vincenzo, Strazzella Vincenzo, Zamarra Giovanni, Tanga Francesco, Saporito Vito) 
• Edizione 11.8.1997 la squadra di Contrada Fuori le Mura S. Giorgio” (Strazzella Rocco, Tanga Rocco, De Paola Bartolomeo, De Paola Vito, Strazzella Gerardo)
• Edizione 11.8.1998 la squadra di “Contrada Fuori le Mura S. Giorgio” (Strazzella Rocco, De
Salvatore Vito, De Paola Bartolomeo, De Paola Vito, Strazzella Gerardo)
Nella prima edizione sono stati assegnati anche premi individuali ai primi tre classificati:
    1° Ferrara Michele      2° Strazzella Vincenzo     3° Candelino Vincenzo

Lapide commemorativa della Battaglia - il 06.06.1996 nella via Chianchione si è scoperta, alla presenza delle varie autorità intervenute e successivamente alla S. Messa in onore delle vittime, la lapide commemorativa riportante la scritta “Per aspera ad astra - Ai temerari Vallatesi eroicamente caduti nella difesa della libertà - 5° centenario - 1496 6 maggio 1996”

Gadget prodotti
- N. 4 Cartoline di Vallata
- N. 1 Videocassetta contenente: Stand Arte Viva. varie attività promozionali della commemorazione e il CORTEO STORICO dei 05.05.1.996
- N.1 Conio Zecca dello Stato di una nmdaglia commemorativa, in argento 986.

 

_________IL MUSEO CIVICO “IRPINO”_________


        Il Consiglio Comunale nella seduta del 22 febbraio 1997 approva la proposta di Nino Cipollini, figlio di Alfonso in arte “IRPINO” che in qualità di rappresentate della famiglia del compianto pittore ha offerto la possibilità di istituire a Vallata il museo di arte contemporanea con opere del maestro “Irpino” e con altre frutto di una rassegna annuale di artisti italiani e stranieri.
        La famiglia Cipollini dona al Comune di Vallata un cospicuo numero (circa 200) di opere tali da formare - per importanza e qualità - un nucleo fondamentale per una corretta lettura critico-storica dell’artista, illustre figlio di Vallata, e che l’associazione AxA avrà il compito di reperire, sottoforma di donazione museale, opere di importanti maestri dell’arte contemporanea italiana la cui testimonianza abbia indiscusso valore storico e di carattere internazionale.
        Il Museo Civico, già dedicato al Maestro “Irpino” sarà diretto da un Comitato Scientifico e un Comitato dei Garanti, sotto la supervisione del Sindaco di Vallata; questi opereranno per promuovere, controllare e diffondere l’immagine del Museo anche a livello europeo. 
        La pubblicazione di un catalogo generale della Pinacoteca contenente tutte le opere esposte con illustrazioni a colori (o parzialmente a colori) e con introduzione critica di uno studioso d’arte famoso segnalato da AxA è uno dei vincoli istitutivi. Il dott. Alessandro Masi, storico dell’arte e Responsabile delle Relazioni Culturali Internazionali  della Società Dante Alighieri è oggi il reggente del Museo. Hanno partecipato alla l^ e 2^ rassegna i seguenti artisti, le cui opere unitamente alle note biografiche sono raccolte in catalogo:

  1. rassegna di arte, agosto 1997, sul tema “I giorni della libertà - I giorni dell’Europa”:
    a) sezione italiana: Nino Barone, Antonio De Pietro, Michelina di Conza, Antonio Giannetta, Gerardo Lo Russo, Renato Marini, Lino Mastropaolo, Rinaldo Piras, Ernesto Saquella, Antonello Viola;
    b) sezione stranieri (Spagna): Susanna Talayero, Begona Usaola, Begona Zubero

  2. rasegna di arte, agosto 1998, sul tema “La casa europea: dall’emigrazione all’immigrazione. La lingua e la cultura ambasciatori di pace”:
    a) sezione italiana: Antonio Cremonese, Fulvio Crescimanno, Nicola Di Pardo, Giacomina Ferrillo, Vincenzo Gioiso, Leonardo Latini, Gerardina Lattarulo, Orietta Mengucci, Eduardo Palumbo, Antonio Puja, Piero Simoncelli, Pino Salvatore, Mariangelo Zappitelli;
    b) sezione straniera (Germania): Caro Stark, Cora Fisch, Manuela Aureli

    14 - 24 agosto 1998, mostra e stampa del catalogo: “Futurismo & Futuro: prospettive dell’arte italiana del XX secolo” con opere di: Boccioni, Balla, Sironi, F.T. Marinetti, Menin, Marasco, Crali, Bragaglia, Ianni, Cagli, Purificato, Martini, Birolli, Capogrossi, Montanarini, Mirko, Consagra, Mastroianni, Crippa, Oriani, Prampolini, D’Arcevia, Turcato, Barone, Di Pardo, Granetto, Marini, Mastropaolo, Pollini, Ragionieri.

     

  3. rassegna di arte contemporanea, agosto 1999

  4. a) sezione italiana
    b) sezione stranieri, artisti Croati

    c) mostra storica, 4 - 24 agosto
    d) Stampa catalogo della 3^ rassegna

Gli artisti stranieri vi partecipano con una borsa di studio + spese di soggiorno.
Gli stessi artisti creano in loco l’opera a tema.

LETTERA APERTA del maggio 1998
            • AL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE BICAMERALE
            ON. MASSIMO D’ALEMA
            • AI PARLAMENTARI IRPINI IN SENO ALLA BICAMERALE



Federalismo:
Proposta provocatoria di un amministratore locale.

        A giorni ci dovrebbe essere il voto in Bicamerale sul federalismo che porterà una rivoluzione nel sistema istituzionale amministrativo dello Stato Italiano e questo ha stimolato la nostra intelligenza che con una proposta provocatori a vuole generare dei dubbi, una discussione se ciò che andremo a proporre dovesse avere un pizzico di validità.
        Noi altri amministratori ci  dobbiamo preoccupare su cosa accadrà con queste riforme,ed è giusto che anche noi esponiamo le nostre posizioni, che nascono da anni di esperienza e che speriamo possano contribuire costruttivamente al lavoro che la Bicamerale prima e il Parlamento dopo dovranno svolgere per arrivare alla definitiva approvazione del federalismo.
        Sappiamo che il vecchio sistema è in crisi e va modificato, poiché si è constatato che ormai il centralismo statale ostacola uno sviluppo armonico della Nazione.
        Non è più tempo di accentrare i poteri, siamo pronti e maturi per un federalismo solidale che abbia come base l'identità nazionale "Italia" e una struttura federale moderna che affronti e gestisca i problemi legati a situazioni geografiche diverse,operando direttamente con strutture amministrative istituzionali locali.
        Questa proposta che andiamo ad esporre non vuole essere presuntuosa, si spera che possa stimolare la vostra curiosità.
    L'Italia, poiché oggi si parla tanto di entrare in Europa, all'Europa dovrebbe guardare anche per il riassetto istituzionale in senso federale della nostra Repubblica, eliminando passaggi inutili e inutili doppioni riuscendo forse anche a risparmiare in termini economici sulla spesa. In Francia infatti si  va dai Comuni ai Cantoni, le Circoscrizioni, i Distretti; in Germania si va dai Comuni ai Circondari o Kreise ai Distretti   o Bezirke ai Lander; in Italia si potrebbe avere: Comuni - Distretti - Regioni - Parlamento - Presidente della Repubblica - Metropoli.
        Vi chiederete che fine ha fatto la struttura Provincia e perché spariranno le A.S.L., le Comunità Montane e tutti gli enti inutili che in tanti anni hanno sottratto la ricchezza allo Stato Italiano; spariranno perché in un riassetto serio di competenze e responsabilità mantenere le suddette strutture sarebbe come "lavare la testa all'asino", perché non si avrebbe tangibile la vera autonomia.
         COMUNI: La struttura amministrativa dei piccoli comuni (al di sotto di 20.000 abitanti) non cambierà molto, però, l'autonomia impositiva delegata alle regioni e con l'attribuzione di competenze specifiche ai distretti, il lavoro del sindaco sarà facilitato perché farà parte direttamente del Consiglio di Distretto.
        DISTRETTI: Nuova struttura istituzionale amministrativa plurifunzionale alla quale sarà delegata l'intera attività politica, amministrativa, socio - assistenziale,sanitaria, scolastica, protezione civile e giudiziaria di una popolazione non inferiore a 50.000 abitanti. Il Distretto può essere formato da più Comuni o da un unico Comune (superiore ai 50.000 ab.) con le sue Circoscrizioni. Ai Distretti oltre alle funzioni delle Provincie, delle Comunità Montane, delle AA.SS.LL. e di tutti gli altri enti da sopprimere saranno delegate anche a tutte le funzioni dei Provveditorati agli Studi, degli Uffici Provinciali del Lavoro, Geni Civili, tutte le attività di gestione dei servizi. Inoltre si potrebbe avere un collegamento con l'attività giudiziaria di prima istanza civile e penale legata al territorio con una figura di Giudice Distrettuale. La nascita di un corpo di Vigili di Distretto addetti al controllo del territorio in materia di Igiene, Ambiente, Evasione Fiscale, Urbanistica, Commercio, Sicurezza sul Lavoro, Strade. Un Ufficio regionale distrettuale per un disbrigo di tutte le pratiche dei comuni con la regione. La gestione del Distretto sarà affidata ad un Consiglio formato dall'assemblea di tutti i sindaci del Distretto o (dove il Distretto è formato di un unico Comune) dai Presidenti delle Circoscrizioni. Al Distretto saranno demandate tutte le materie relative al bilancio distrettuale,alla programmazione degli investimenti e alla programmazione delle entrate. La gestione corrente del Distretto sarà affidata ad un Presidente e una Giunta (formata da tanti assessori quanti sono i campi di competenza del Distretto) liberamente eletti a scadenza quinquennale. Ai Sindaci non spetta alcuna indennità nelle funzioni di consigliere di Distretto, al Presidente e alla Giunta spetterà un'indennità mensile così come da disposizione di legge.
        REGIONI: Organismo amministrativo e legislativo con competenze di programmazione e sviluppo del territorio; tutte le deleghe  dello Stato tranne per gli Interni, Difesa, Esteri. Le Regioni delegano ai Distretti tutte le competenze tranne Trasporti, Strade, Sanità, Turismo, Ambiente, Università, Il Consiglio Regionale sarà affiancato da un organismo consultivo, formato da 30 (trenta) rappresentanti delle giunte distrettuali, che esprimerà il proprio parere sulla programmazione e sulle proposte di leggi.
        PARLAMENTO: Sarà formato da una Camera dei Deputati in un numero di 400 liberamente eletti dal popolo e da una camera bassa o degli enti locali, formata da 172 rappresentanti (3 rappresentanti per ogni regione; 5 rappresentanti per ambito regionale eletti fra i rappresentanti sindaci dei consigli distrettuali; 3 rappresentanti per ogni metropoli) oltre ai senatori a vita.
        PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA: Così come già approvato dalla Commissione Bicamerale.
        METROPOLI: Città con più di 1.000.000 di abitanti a statuto e ordinamento proprio con competenze assimilabili a quelle delle Regioni tranne per l'Università, Turismo, Ambiente, in più le competenze dei distretti e dei comuni.

        Pasquale Zamarra - Sindaco di Vallata

 

DIRITTO ALLO STUDIO L.R. 30/85

SCUOLE SUPERIORI DI VALLATA

 

        Nell’ambito degli interventi in favore degli alunni delle scuole superiori ricadenti nel territorio di Vallata, l’Amministrazione Comunale, volendo perseguire una politica di incentivazione delle frequenze agli istituti scolastici superiori tale da creare un sicuro Polo Culturale Pluriformativo per i giovani della Baronia, da diversi anni eroga contributi per le spese di viaggio (30%) agli studenti provenienti dai paesi vicini e assegna borse di studio a quelli più capaci e meritevoli.
        Sono stati premiati, uno per ogni classe, gli alunni come di seguito:

  1. anno scolastico 1993/94
        tramite selezione effettuata con prova scritta d’italiano

    1. alunni del Liceo Scientifico:
      Bufalo Fabiola, Cardinale Maria, Ferrucci Anna, Marino Alessandra, Tenore Germana 

    2. alunni Istituto Tecnico per Geometri:
      Archidiacono Rocco, Crincoli Davide, Fonzo Michela, Gallo Maria Teresa, Siconolfi Giuseppina

  2. anno scolastico 1995/96
        tramite selezione effettuata con prova scritta d’italiano

    1. a) alunni del Liceo Scientifico:
      De Paola Luigi, Colicchio Maria Giovanna, Cardinale Maria, Bufalo Fabiola, Arcbidiacono Mariella, Quaglia Nice

    2. alunni Istituto Tecnico per Geometri:
      Guiducci Marianna, Morellio Antonio, Corrìaccia Francesca G., Archidiacono Silvana, Crincoli Davide

  3. anno scolastico 1996/97
        tramite selezione effettuata con la migliore media dei voti di scrutinio o di esame di Stato

    1. alunni del Liceo Scientifico:
      Toto Vito, Tizzano Michela, Cusano Irene - ex aequo, Rossi Ilaria - ex aequo, Muscillo Antonio, Savella Carmela, Pagliarulo Angela, Pagliarulo Euplio, Achidiacono Mariella, Lo Russo Michela

    2. alunni Istituto Tecnico per Geometri:
      Capobianco Michele - ex aequo, Di Masi Vito - ex aequo, Tartaglia Vito, Guiducci Marianna,Ciccarella Angelo - ex aequo, Giannetta Gabriele - ex aequo, Rigillo Michele - ex aequo, Cornacchia Francesca G., Lo Russo Dino, Archidiacono Silvana, Crincoli Davide

  4. anno scolastico 1997/98
       tramite selezione effettuata con la migliore media dei voti di scrutinio o di esame di Stato

    1. alunni del Liceo Scientifico:
      Colella Loredana, Toto Vito, Cusano Irene, Del Sordi Adele - ex aequo, Savella Carmela ex aequo, Toto Domemca, Tizzano Michela, Muscillo Antonio, Pagliarulo Angela, Pagliarulo Euplio
    2. alunni Istituto Tecnico per Geometri:
      Cipriano Michele, Di Masi Vito, Di Donato Antonio, Rigillo Michele, Lo Russo Dino, Guiducci Marianna, Coppola Veronica, Archidiacono Silvana
    3. alunni Istituto Tecnico Commerciale (Ragioneria):
      Toto Veronica Giovanna


Attività Ricreative & Sportive


        Sull’onda di un adeguamento al continuo cambiamento del costume sociale e sulle nuove esigenze dettate dalla vita sedentaria delle nuove generazioni si è avuto negli ultimi anni in Vallata una fioritura di scuole che disciplinano le attività ricreative o ludiche. Va crescendo il numero degli iscritti alla palestra privata di culturismo fisico per i più adulti; notevole successo riscuotono le scuole di: danza, arti marziali, musica e canto, calcio.
        Quest’ultimo ha un ruolo predominante svolgendo una parte più attiva con la partecipazione a 5 diversi campionati della F.I.G.C. - Lega Nazionale Dilettanti - Regione Campania. L’associazione calcio Ever Green - Vallata sostiene il campionato di 2a categoria; mentre la Polisportiva Vallatese sostiene i campionati di: “Pulcini” (6-10 anni di età), “Giovanissimi” (12-14 anni di età), “Allievi” (14-16 anni di età) e quello di la categoria. Attualmente il calcio Vallatese si trova in fase di transizione dovendo provvedere al ricambio generazionale dei giocatori. Oramai, quel gruppo di calciatori, che hanno scalato i livelli di campionati della 3a ctg. fino alla “Promozione” dove hanno ottenuto strepitosi successi sulle ali dell’entusiasmo, oggi sembrano spenti sul piano della volontà e del sacrificio, sempre gratuito, che si richiede per una confacente partecipazione alle gare. Bisogna dire, però, che questi veterani profondono impegno ed agonismo da vendere quando scendono in campo; stanno mantenendo una tranquilla posizione di metà classifica, non subiscono gli avversari, anzi talvolta si permettono di vincere partite in condizioni di inferiorità numerica contro squadre molto più quotate. Comunque reggono la posizione, aspettando la crescita della “nuova chiocciata”. Ed è questo che si chiede, visto che si sta completando la costruzione del nuovo Stadio in località più felicemente riparata dai rigori del freddo. La nuova struttura sportiva sarà dotata di una tribuna coperta e un terreno di gioco avente le dimensioni richieste per qualsiasi salto di categoria. 
        Da un’occhiata di massima sui giovani della scuola calcio si può ben sperare solo a condizione che questi sapranno reggere il duro sacrificio che richiede ogni tipo di sport agonistico, anche a livello dilettantistico. Altrimenti le nuove promesse rimarranno sempre tali, senza una compiuta realizzazione.

  1. Con l’approvazione da parte della Regione Campania (finanziato £30.000.000 per l'anno) del progetto triennale redatto ai sensi della legge 285/97 è la prima volta che un progetto, concepito in forma di associazione di Comuni (legge 142/90), ottiene esito positivo. Il progetto prevede l’istituzione di un “centrodi sostegno al minore e alla famiglia” a servizio delle popolazioni della Baronia.

  2. La deliberazione consiliare n. 63 del 14.11.1994 concedeva un contributo di £ 10.000.000 agli alluvionati del Nord Italia e consentiva la raccolta volontaria tra la popolazione. In seguito la Giunta Municipale nella seduta del 21.01 .95 provvedeva all’accredito in favore del Comune di Bagnasco (CN) della somma di £ 16 193.000, comprensiva anche dei diversi contributi raccolti tra la popolazione e associazioni locali.

  3. Per contribuire alla rinascita delle zone colpite dal sisma 26.9.1997 nelle Marche e Umbria l’amministrazione comunale, con atto di  G.M. 22.10.1998 n. 241, ha erogato un contributo di £ 6.000000 in favore della “Casa Serena di Capodacqua” di Foligno (PG), una casa di riposo per anziani gestita dalla Confraternita della Misericordia e presieduta dal Vescovo di Foligno, Mons. Arduino Bertoldo.

  4. Impegno per la pace. Con atto n° 321 del 17.7.1993 di G.M. si aderisce alla richiesta di Pasquale Angelo Crincoli per la partecipazione al raduno internazionale denominato Serajevo2. Con atto n0 325 del 9.6.1994 di G.M. si aderisce al digiuno pubblico del movimento per la pace di Vallata, rappresentato dallo stesso Crincoli, come atto di protesta in ordine agli accadimenti di guerra civile in Rwanda e in altre parti del mondo. Con delibera consiliare n°33 del 29.6.1994 Vallata viene dichiarato “Comune per la Pace”, aderisce al Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace sostenendo le attività con contributo annuale. Con atto n°267 del 5.7.1996 si autorizza P.A. Crincoli a recarsi in Rwanda quale rappresentate di Vallata. Con atto n°267 del 25.9.1997 si aderisce al progetto “Noi Popoli delle Nazioni Unite per un Economia di Giustizia  per la Pace” e alla Marcia Perugia/Assisi. Con atto n°262 del 12.11.1998 si aderisce all’intervento umanitario in Kosovo con [a visita dell’attivista per la pace PA.Crincoli, che al suo ritorno relaziona sulle condizioni di quelle popolazioni.

  5. Ultime note bibliografiche in Baronia

    V  De Paola Gerardo - Zino e contemplazione (30 volume della trilogia di Zino) - Valsese, Materdomini 1998
    V  Salvatore Salvatore - Marcoffio rint’à la luna - Sellino & Barra, Avellino 1998
    V  Michele Cogliani - La cripta di Trevico - Realtà Sannita, Benevento 1997
    V  Giovanni Battista Zamarra - Gli Zamarra di Vallata, una antica famiglia in Alta Irpinia - Kappa, Roma 1996
    V  Anna Ferrucci - Soglia - Delta 3, Grottaminarda 1997
    V  Museo Civico “Irpino” di Vallata - Catalogo opere della 1a rassegna di arte contemporanea - Roma 1998
    V  Museo Civico “Irpino” di Vallata - Catalogo opere sul “Futurismo e Futuro” - Roma 1998
    V  Museo Civico “Irpino” di Vallata - Catalogo opere della 2a rassegna di arte contemporanea -Roma 1999 (in corso di stampa)

    Pubblicazioni patrocinate dall’amministrazione comunale di Vallata

    V  VICUM - Periodico di storia della Baronia in pubblicazione dal 1983 - direttore S. Salvatore
    V  Antonio Palomba/Francesco Spera - Arte in Valle Ufita dal sec. VI al sec. XX - lrpinia. Grottaminarda 1997
    V  Tra Memoria e Futuro, in viaggio con gli amministratori della Valle dell’Ufita - Delta 3, Grottaminarda 1997

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