- Racconti - A cura del Prof Severino Ragazzo

Racconti
Seconda Parte

A cura del Prof Severino Ragazzo.
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Teste: Ragazzo Severino

DON FRANCESCO E IL CHIERICHETTO

    Don Francesco, aveva anche dei comportamenti particolari e peculiari che nel tempo lo fanno diventare un personaggio unico.
    Ci fu un periodo in cui serviva la messa al sacerdote un chierichetto della famiglia dei “Bertone” e fu così che un giorno durante la celebrazione della messa, al momento della consumazione del vino quale sangue di Cristo, don Francesco insisteva per farsi riempire il calice dicendo al chierichetto: “ e mèttene n’òtu pìcch’’ (e mettine un altro poco) e una e due e tre volte ripetutamente, finché il chierichetto, non potendone più, rispose dicendo: “ e mo’ basta ron Francì’, ca la vigna la zàpp’ ìjo” (e adesso basta don Francesco, perché la vigna la zappo io).

DON FRANCESCO E LA FESTA MONDANA

    Un anno, in occasione di una festa di un santo a Vallata, il comitato festa intese, per la parte civile, presentare al pubblico uno spettacolo in cui c’erano delle ragazze artiste ballerine tipo quelle del “moulin rouge” francese.
    L’ arciprete era risentito per l’aspetto profano che a suo parere prendeva la festa e quasi gridava allo scandalo per il non rispetto alla devozione del santo.
    Don Francesco volle accertarsi direttamente ed ebbe un colloquio “cu’ lu maste re feste” (con il maestro di festa) il quale lo rasserenò dicendo che al di là di un po’ di scollatura ai seni e di svolazzamento di gonne non c’era niente di trasgressivo rispetto a quello che avveniva già in altri paesi e persino nell’avanspettacolo teatrale e televisivo in voga in quel periodo.
    Al che don Francesco in risposta al maestro di festa. “lassàtelo perde a quìru màtte re l’acciprèvete, facìtere venè kire uagnard’, c’ accussì me fàzze l’ùcchj nu’ poco pur’ìjo” (lasciatelo perdere quel matto dell’arciprete, fate venire quelle ragazze, perché così mi rifaccio gli occhi un poco pure io).

DON FRANCESCO E IL VENDITORE DI LEGNAME

    Negli anni 70’ la chiesa madre fu completamente rifatta, compreso il tetto, per cui le attività religiose venivano svolte nelle altre chiese.
    Nella cappella di S. Rocco alla via omonima si celebrava “la messa matina” e don Francesco, quale vicario dell’ arciprete don Gerardo De Paola, era addetto alla funzione.
    Un giorno un commerciante forestiero entra in chiesa e prima che cominci l’ufficio domanda al prete se intenda comprare della legna.
    E don Francesco, in risposta, per liquidarlo velocemente, così lo apostrofa: “e che maggja ‘nfucò la coglia ?” (e che mi debbo riscaldare i co...glioni?)
    Può sembrare un modo volgare per liberarsi dell’impostore, ma don Francesco, a differenza di Gesù che fustigava i mercanti del tempio se ne libera usando semplicemente una frase colorita e di impatto immediato.


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Teste: Ragazzo Severino

“Z’AFFONZ’ LU CUROTELO” NEI DIALOGHI CON LA MOGLIE CARMELA

    Il soprannome “curòtelo” deve intendersi riferito al termine curato che era il parroco del paese che oltre alla cura delle anime nelle attività canoniche faceva anche sermoni, discorsi e zio Alfonso era specialista nel recitare, con racconti, brindisi che a volte inventava all’improvviso.

Z’Affonz’ e la liant’ (zio Alfonso e la legante )

    Zio Alfonzo era andato in campagna con la consorte Carmela per preparare il materiale necessario alla potatura della vigna e dei frutti in generale. A Vallata si usano i rami della pianta del salice perché sono pieghevoli, elastici e non si spezzano; oggi sono intervenuti prodotti tecnologici a base di plastica che legano velocemente l’oggetto facendo un semplice nodo.
    Nella tradizione si usavano i salici per la preparazione anche di cesti di forma e caratteristica i più vari.
    Quel giorno z’ Affonz’ invitò la moglie ad andare a tagliare le ginestre che dovevano a suo dire servire a legare a sua volta i fasci di salice.
    La consorte ingenuamente si recò nel ginestreto, fece un bel fascio e lo presentò al marito.
    Zio Alfonzo a questo punto rimbrottò la coniuge dicendo: “ohj matta matta, ma nun tìni pròpje sìnzi ‘ndò la cape, ma come, nun sòje ca li sàlici sìrvine pe’ lijà e ‘nc’èra ‘bbisugn’ re ri scinestre”? (ohi matta matta, ma non tieni proprio i sensi in testa, ma come non sai che i salici servono per legare e c’era bisogno delle ginestre ?)
    E la moglie in risposta: “ma m’aje ‘mmannàte tu a fa stu sirvìzje!” (ma mi hai mandato tu a fare questo servizio!) E zio Alfonzo replicando: “vulèvo verè pròpje a ‘ndò tu arrevav’ a reflette cu lu cìrvìlle” (volevo vedere proprio dove tu arrivavi a riflettere con il cervello).

“ Z’ Affonz’ e lu pìnele ” (zio Alfonso e la pillola)

    Un giorno zio Alfonzo prefigura alla moglie l’ eventualità di dover morire e raccomanda che al cimitero sia portato o a spalla o al massimo sopra una “sdraula”, una specie di slitta che si usava mettere dietro gli animali per trasportare, a strascico, robe le più varie.
    La moglie Carmela ricorda al marito che il trasporto funebre è cambiato e che quasi tutti i defunti vengono portati con la macchina del carro funebre.
    Al che Z’ Affonz’ di rimando alla moglie: “ma a me nun me fàce la màchena, me face ‘ruvuscjò”(ma a me non fa la macchina, mi fa rimettere).
    E la consorte ingenuamente gli suggerisce di prendere ‘ lu pìnele’( la pastiglia) per evitare di rimettere.
    A questo punto zio Alfonzo sbottando: “ohj critina ! ma si ìjo sò mùrte, cùme me lu piglje lu pìnele”? (ohi cretina ! ma se io sono morto, come mi prendo la pastiglia?).

Z’Affonz’ e li pruvèrbje (ZIO ALFONZO E I PROVERBI)

    Zio Alfonzo era un ottimo narratore e all’occorrenza il proverbio o il detto usato al momento opportuno e nel luogo giusto lo rendevano un personaggio particolare.
    Lo scrivente era un giovanotto quando si trovò insieme nella stessa sala del matrimonio dello stesso parente.
    Zio Alfonzo per la prima mezzora non faceva altro che scrivere appunti su un foglio, fino a quando alzatosi dal tavolo incominciò a fare auguri agli sposi con versi in rima baciata che seppure non dotati di erudizione profonda esprimevano la semplicità di un cantore popolare.
    E per chiudere anche con un pizzico di ilarità, così rivolto ai presenti disse: “questo bicchiere è bello e fino alla salute degli sposini, questo bicchiere è bello e galante alla salute di tutti quanti” e poi “tra tazze e bicchieri, alla salute di questi cavalieri e tra bicchieri e tazze, alla salute di ? …(si interruppe e poi riprese, sollecitando il finale) ri lu ca…zzo!( a questo punto vi lascio immaginare la risata delle donne presenti al festino).


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Teste: Minieri Gerardo

LA VEDOVA NON RICAMBIATA

    Una donna vedova cercava di rendersi utile e generosa con gli altri vicini di casa, assecondando ogni richiesta.
    Nella società contadina il rispetto del vicino a volte era più importante del parente.
    E così se un vicinante chiedeva un po’ di sale, o un uovo o il lievito (“lu criscenzo”) in prestito per far lievitare il pane o qualsiasi altra cosa di cui fosse nella sua disponibilità, lei sempre pronta a soddisfare il bisogno.
    Un giorno in vena di sfogarsi e non ce la facendo più a tenere il segreto nascosto così disse a una vicina di casa:”ma come, io do tante cose agli altri ma non c’è uno che mi dica una volta: “tècchete stu cà…zzo e arrifrìsckite ‘ssà fè…ssa”!


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Teste: Ragazzo Severino

GIOVANNI “MO’ MI NI VENCO”

    Lo scrivente, oltre che suo nipote era ed è un amico e compagno di dialoghi, di serate trascorse insieme, di passeggiate in campagna per ricercare asparagi e funghi specie la ‘cardarella’ di cui andava ghiotto.
    Il suo soprannome deriva dal fatto che la madre “ZI ROSA” quando lo chiamava a rientrare in casa, egli rispondeva sempre “mo’ mi ni venco” e sentendolo gli amici, gli affibbiarono il detto.
    Tra le sue peculiarità c’era il fatto di sapere indovinare il numero delle scarpe di una persona, avendo avuto solo qualche indizio.
    Aveva la capacità di improvvisare quartine di canti la per la, per giunta sapeva cantare mentre sonava l’organetto che è una caratteristica di poche persone.

GIOVANNI E LA STORIA DELLA “CARBONELLA”

    Fino agli anni 70’ del 900’ nella scuola dell’obbligo esisteva il Patronato Scolastico che gestiva diversi servizi come il trasporto alunni, la mensa scolastica ecc…
    Un anno col direttore Francesco Vigorita, all’atto di dover pagare le spese del trasporto che “ron Felice” osava chiamare “la carbonella” in analogia con il carbone o la benzina o il gasolio per far funzionare i mezzi di trasporto, il capitolo specifico del bilancio risultò vuoto in quanto un tale ‘don Genesio’ lo aveva distratto per altre cose.
    Così i noleggiatori fecero protesta e il direttore fu costretto a richiedere alla Regione Campania, a nome del patronato un altro finanziamento.
    Giovanni che faceva il bidello, di nascosto a tutti, prese il gesso e su una lavagna di classe prima disegnò un albero di sorbe e poi un arbusto di vite con i grappoli di uva pendenti ed infine mise una scritta così a corredo: “le sorbe sono acerbe, l’uva non è matura, il direttore non è sicuro che la carbonella arriverà!
    Il direttore avrebbe voluto redarguire l’autore della scritta ma nulla poté non avendo testimoni oculari.
    Alla fine il problema fu risolto e a don Felice restò il soprannome ‘carbonella’ che oggi è passato al parente autista di autobus Bove B.


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Teste: Cirillo Rocco

“Lu prèvete e lu pastore” (IL PRETE E IL PASTORE)

    Un pastore si ritira dopo alcuni anni dalla moglie e in confidenza racconta tutti i suoi peccati commessi nella sua lunga lontananza.
    Così la consorte, indicandogli la presenza di un bambino, fa presente che questo è il frutto del piacere del prete che la aveva aiutato a generarlo, rimproverandolo di averlo lasciato a metà: “l’haje lassate mizz’ fatt’ e mizz’ no !”( l’hai lasciato mezzo fatto e mezzo no!).
    Il pastore ritornato dal padrone, questa volta restò pochissimo tempo lontano e si presentò a casa sua dicendo alla moglie che era stato licenziato.
    Al che la moglie pensò subito di tenerlo impegnato, chiedendo al prete di occuparlo nelle faccende della sua fattoria.
    E così avvenne che il pastore andò a svolgere il lavoro del guardiano.
    Un giorno anche le nipoti del sacerdote andarono con lui in campagna e facendo caldo si misero al sole belle distese, addormentandosi.
    Il guardiano con abilità riuscì a sfilare loro le collane d’oro che avevano al collo, senza minimamente farsene accorgere.
    Le signorine svegliatesi e non trovando più al collo i gioielli, chiesero del perché al guardiano.
    Questi inventò il fatto che il sole eccessivo li aveva squagliati e che ora si trovavano nella loro pancia.
    Per riuscire a recuperarli il guardiano fece credere loro che avendo rapporto sessuale i gioielli sarebbero fuoriusciti dal loro corpo.
    La cosa così avvenne e il guardiano con uno stratagemma restituì i preziosi.
    Un giorno le nipoti raccontarono il fatto allo zio prete che, capito il trucco messo in atto dal pastore, così lo rimbrottò: “e bravo, che bellu ‘uardiano re ca…zzo, sape terà pure re cullane r’ oro ra la cionna re re fèmmene!!” (e bravo, che bello guardiano di ca…zzo, sa tirare pure le collane dalla vulva delle donne!).
    E il guardiano in risposta al prete: “e che bellu prevete re ca…zzo, sape lassà li figli mizzi fatte e mizz’ no!” (e che bello prete di ca…zzo, sa lasciare i figli mezzo fatti e mezzo no!)

“R’ òssera re Ciòla (LE OSSA DI CIOLA)

    Un padre con il cognome “Ciola” (forse da un termine messo a un bambino proietto) aveva un figlio che si consumava tutto, disperdendo gli averi con gli amici.
    Un giorno il padre predisse al figlio che quando non avrebbe avuto più di che mangiare, era meglio che si impiccasse al nodo scorsoio posto sulla trave che copriva il soffitto della casa con a fianco un paniere.
    Avvenne che veramente il figlio si trovò in cattive acque, gli amici lo abbandonarono ed egli per la disperazione mise in atto il presagio del padre.
    Se nonché nel paniere vide riposto del denaro, si divincolò dalla corda e scoprì il tesoro nascosto che il genitore gli aveva lasciato.
    In breve tempo riprese a vivere, comprò beni, si rimise in sesto e gli amici vedendolo di nuovo in possanza tornarono di nuovo a frequentarlo.
    Ciola allora che cosa pensò di fare?
    Andò dal macellaio, si fece dare tutte le ossa di scarto, le mise in un pentolone “lu callare” a bollire e invitò a mangiare tutti gli amici.
    In un primo momento dette da mangiare un bel piatto di brodo.
    Uno degli amici si risentì lamentandosi di essere stato invitato a bere solo brodo! Ma Ciola rassicurò che il secondo sarebbe stato migliore.
    Poi riempì il piatto tutto di ossa ed un secondo invitato si lamentò di essere stato trattato come un cane.
    A questo punto Ciola esclamò rivolgendosi a tutt: “na vòlita si ‘mpiccàje Ciola, mo’ nun s’mpìcca chiù e mo’ mangiàteve r’ossera! Ve pare belle a vuje, quònne Ciola aveva e pussereva, Ciola ra qua e Ciola ra da! Po’ quònne Ciola nun teneva chiù nint’, l’avìte lassàte sulo cum’a nu còne e mo’ jàte venne e nun ve facìte chiù verè! Ca se no so’ uàje pi vuje!” (una volta si impiccò Ciola, adesso non si impicca più e adesso mangiatevi le ossa! Vi sembra bello a voi, quando Ciola aveva e possedeva, Ciola di qua e Ciola di la! Poi quando Ciola non teneva più niente, lo avete lasciato solo come un cane e adesso andatevene e non vi fate più vedere! Perché se no sono guai per voi!).


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Teste: Antonio De Longis

Lu sacrestane e lu prèvete (IL SACRESTANO E IL PRETE)

    Un sacrestano aveva una famiglia numerosa con diversi figli di cui la maggior parte nati dal rapporto segreto della moglie con il prete della chiesa locale.
    Dovendo il sacrestano provvedere al mantenimento di siffatta prole, di nascosto si vendeva parti dell’arredo della chiesa (sedie, candelabri ecc…):
In ultimo decise di vendersi anche il calice e così andava dicendo di soppiatto: “lento lento, mo’ me freco pure lu sacramento”. (lento lento, adesso mi rubo pure il sacramento)
    Il prete accortosi in tempo del furto che stava per essere consumato rispose al sacrestano: “e sì! e ìjo roppe rico la messa cu lu ca…zzo! (e sì e io dopo dico la messa con il ca…zzo).


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Teste: Vincenzo Giraffa

“Lu marijul’ fin’ fin’ “ (IL FINE MARIOLO)

    Di tre fratelli il primo imparò il mestiere del sarto, il secondo quello di calzolaio e il terzo quello di mariolo.
    L’ultimo acquistò la nomea di essere un mestierante fino nella capacità di derubare gli altri.
    Un giorno decise di andare a svaligiare quanto di più caro e di prezioso ci fosse in un convento di monaci.
    Fece cucire cento vestiti di quelli che indossano i religiosi e preparare cento paia di scarpe tipo sandali da parte dei due fratelli.
    Si presentò al convento e si finse filantropo per eccellenza, convincendo i monaci a ricevere in dono il pensiero che per loro aveva preparato.
    Prima però pretese che tutti i conventuali bevessero alla sua salute avendo portato con sé anche una botte di vino di quello che fa andare di testa.
    E così fecero e dopo un po’ di tempo i monaci furono tutti ubriachi.
    A questo punto il fine mariolo si introdusse nel convento e riuscì a riempire un sacco tutto di oggetti preziosi e in meno che non si dica riuscì a dileguarsi mentre i monaci erano avvolti nel sonno per i fumi dell’alcool.
    La nomina o nomea di questo personaggio arrivò perfino al re che decise di farlo comparire a corte e metterlo alla prova..
    Il fine ladro giurò di essere all’altezza di vincere qualsiasi prova a cui il re intendesse sottoporlo.
    E così il re chiese se fosse capace di rubargli la coperta “cu’ re ciancianelle” d’oro che si trovava sul proprio letto matrimoniale.
    Il mariolo accettò la prova; andò segretamente al cimitero, e dal custode, corrompendolo con denaro, si fece dare un morto fresco che portò e sistemò di notte, in piedi, davanti al portone principale della reggia.
    Il re aveva dato l’ordine ai suoi guardiani di sparare a vista, qualora avessero visto il ladro presentarsi nei paraggi.
    I guardiani videro la sagoma della persona (del morto che era stato sistemato così bene da sembrare vivo ), chiamarono il re e riempirono di pallottole il povero estinto scaricando tutte le armi che avevano a disposizione.
    Dopo di che il re con le sue guardie presero il corpo e lo portarono al cimitero.
    Nel frattempo il ladro fino fino, entrò nel palazzo,arrivò nella stanza da letto dove dormiva la regina e con uno stratagemma fingendosi re riuscì ad avere rapporto con lei e poi silenziosamente rubando la coperta riuscì a dileguarsi dal palazzo reale.
    Quando il re tornò, andò dalla regina e questa così l’apostrofò: “ehi fesso re reùccio, quìre ave futtùte a me e se futttùta pure la cuperta arrecamata r’òro”.(ohi fesso di reuccio, quello ha svergognato a me e si è rubata pure la coperta ricamata in oro!).


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Teste: Ragazzo Severino

“L purch’ e lu ciuccio” (IL MAIALE E L’ASINO)

    Nell’azienda di una famiglia contadina fino agli anni 50’ del secolo scorso il maiale e l’asino erano di casa, insieme a tanti altri animali.
    Per il maiale, anche nel centro urbano di Vallata si costruiva una struttura muraria particolare chiamata “lu jusìdd” (da chiuso) nel quale l’animale passava il tempo a mangiare, a crescere fino ad arrivare al giorno fatidico in cui doveva essere sacrificato per il fabbisogno alimentare.
    Per l’asino c’era la stalla in cui però convivevano anche altri quadrupedi e bipedi.
    I due locali erano spesso contigui.
    La vita svolta dai due animali era completamente differente, il primo aveva il meglio perché doveva raggiungere la massima grandezza, il secondo invece si arrangiava con quello che trovava ed era costretto anche a trasportare il foraggio tanto che c’era il detto: “lu ciùccio porta la paglia e lu ciùccio si l’ammaglia”.
    Fu così che in un dialogo immaginario tra i due, il maiale rimproverava l’asino di lavorare sempre, di essere sacrificato e di essere sottomesso in tutto e per tutto al padrone mentre il suo stato era invidiabile in quanto veniva servito e riverito continuamente.
    L’ asino, non potendone più delle continue critiche, infine sbottò: “sìnte purch’, ijo fatìhe sèmpe e mangje cùme pozzo,ma càmpe tand’ànne fin’ a la vicchjaia; ma a me pare ca l’ànne passate a lu post’ tùje ‘nc’era ‘n’ ot’uno! (ri purch’) (senti asino, io fatico sempre e mangio come posso ma campo tanti anni fino alla vecchiaia; ma a me pare che l’anno scorso al posto tuo ce n’era un altro di maiale!).

“Lu prèvete e la prova ri lu palluncino” (IL PRETE E LA PROVA DEL PALLONCINO)

    Oggi le tecniche per verificare se una persona al volante è ubriaco oppure no sono affinate e le forze dell’ordine hanno a disposizione il cosiddetto palloncino, che fatto gonfiare può stabilire il tasso alcolico del conducente di automobile, superato il quale decidono le sanzioni da prendere fino al ritiro della patente o l’arresto immediato.
    Capita così che una pattuglia della strada ferma un’automobile e sottopone il conducente al test.
    Così il carabiniere all’uomo al volante che in questo caso è un prete: “ma tu staje ‘nbriàche!”( ma tu sei ubriaco!),e questi in risposta: “e sì, se capìsce, ra stammattìna aggje rìtte quatte messe, nu quòrt a messe, m’aggje vippete nu litre re vine!” (e si capisce, da questa mattina ho detto quattro messe, una quarta a messa, mi ho bevuto un litro di vino!).


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Teste: Rosario Gallicchio

IL grillo e il contadino

    Nella società contadina generalmente i lavori si facevano in più persone, prima impegnando le braccia sane della famiglia compresi anche i minori e poi all’occorrenza anche persone estranee con una forma di rapporto di tipo mutuo soccorso.
    Insieme si lavorava e insieme si mangiava e certamente non con un servizio di galateo come esiste oggi giorno.
    Tutti intorno ad una “spasetta” (zuppiera) ripiena di maccheroni ognuno dava “na furcenata” a turno fino a quando non finiva il contenuto, con un fiasco di vino da cui si faceva “na veppeta”(una bevuta) a uno alla volta.
    Così successe che un giorno all’ombra di un gelso dinanzi ad un pagliaio mentre si mangiava, un grillo inavvertitamente andò a posarsi sui maccheroni e il contadino che in quel momento stava per prendere un boccone infilzò insieme anche l’animale che vistosi intrappolato incominciò a cantare, sperando di essere liberato.
    “Crì crì crì…” lamentava il povero mal capitato, ma il contadino non sentendo compassione mangiò l’animale insieme ai maccheroni e così in risposta: mi dispiace compare grillo “tàrd’ candàste”! (tardi hai cantato!).

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