- Racconti - A cura del Prof Severino Ragazzo

Racconti
Nona Parte

A cura del Prof Severino Ragazzo.

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Teste: Severino Ragazzo
L'uso civico e il diritto del cittadino.

    Oggi sta tornando di attualità la discussione sull'argomento dell'uso civico, cioè del diritto dell'abitante di un paese di poter godere di un beneficio derivante dalla presenza del demanio nel territorio locale, si dice a volte di un 'ristoro' dagli utili che possono ricavarsi (pascolo, raccolta di legna, funghi o quant'altro ) come se una piccola parte di quel bene fosse anche la sua.
    Così successe che in un periodo in cui la legna scarseggiava e il clima era particolarmente inclemente, un cittadino non avendo a chi rivolgersi, decise di andare a fare provvista nel demanio forestale del suo paese.
    Volle che nell'ultimo giorno in cui fu impegnato al taglio e alla raccolta, capitasse l'ispezione della guardia municipale che decise subito di arrestarlo e portarlo dinanzi alla legge.
    Il giudice chiese all'imputato il motivo della decisione e questi così rispose: “signor giudice, io so che una parte della legna, per l'uso civico, spetta anche alla mia persona e non avendo l'autorità preposta provveduto a darmela , ho pensato di prendere la quota a me spettante ora che ne sono bisognevole e necessito”.
    Il magistrato comprese lo stato miserevole della persona che si trovava dinanzi e decise per l'assoluzione anche perché in termini di diritto non aveva tutti i torti, infliggendogli una leggera pena pecuniaria giusto per irregolarità formali.
    Oggi il problema della cura del demanio che anche a Vallata è ancora consistente, si pone in maniera più impellente dopo l'abbandono da parte delle istituzioni preposte (C.M. Comuni, Provincie, Regione, Corpo forestale) anche perché il sottobosco, anno per anno, sta diventando impraticabile pure per chi è amante della natura e voglia fare qualche escursione.

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Teste: Severino Ragazzo
'Cumba Cosenzo' e l'aggiudicazione dei Misteri.

    Oggi i Misteri del Venerdì Santo a Vallata non si pagano più, ma fino a qualche decennio fa c'era una vera e propria asta pubblica per aggiudicarsi i medesimi, specie l'Aquila, il Cristo morto etc. etc.
    L'aggiudicazione veniva fatta qualche decina di minuti prima che uscisse la processione; molto attivi erano gli emigranti che tornavano a posta per l'evento ma anche la gente del luogo particolarmente devota e vogliosa di protagonismo.
    E fu così che un Venerdì Santo degli anni 50', all'asta per portare il simulacro del Cristo morto che si realizzava offrendo in contanti o in quantità di grano, partecipò anche 'cumba' Cosenzo Bove detto 'Spezzacatene' che scommettendo a rialzo arrivò ad impegnarsi diversi quintali di grano per aggiudicarsi il Mistero.
    Quando nei giorni seguenti i mastri di festa si recarono alla casa di Cosenzo, chiesero il grano equivalente che era stato concordato.
    La povera moglie Teresa pensava che si trattasse di alcune misure (una misura era uguale a due kg.) e cominciò, aprendo la portella in basso del 'cascione', a fare scorrere il grano.
    Vedendo che i mastri stavano svuotando quasi l'intero contenuto, si rivolse al marito e così esclamò: “mo si ru grono vàje tutto pi la gloria re Dìjo, noi e 'ste crijature, auònn', cantamm' lu miserère ?” (Cosenzo aveva anche una bella nidiata di figli).
    Fino agli anni suddetti era consuetudine in tutte le case anche di quelli che non erano contadini ed esercitavano altri mestieri, avere una certa provvista di grano per poi all'occorrenza portarlo al mulino e con la farina ricavata fare il pane, i maccheroni e quant'altro.
    Il nostro Cosenzo dovette rispettare il patto, essendosi impegnato sull'onore della propria persona.
    D'altronde basta vedere le foto antiche degli anni 50' e 60' che facilmente lo si riconosce non solo nel portare il Cristo, ma anche nel portare le statue degli altri Santi, specie di San Rocco.
    Cosa dire, altri tempi, dove l'umile, quel giorno, pur di mettersi in evidenza, era disposto a fare grossi sacrifici.
    La verità era che, in questo, approfittavano anche i mastri di festa che pur di far quadrare il bilancio, poco si preoccupavano che la persona arrivasse perfino ad indebitarsi.

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Teste: Severino Ragazzo
La vendita del latte e il trucco dell'annacquamento.

    Fino agli anni 60' del secolo scorso, il latte nel paese veniva venduto sfuso, fresco di giornata, appena munto.
    Venditori come “Panzaridd'”, “ Pilone o Pasqualucce”,“lu Mancin'”, “Capelungh'”, “Sckafaridd'”,“Cascett'... ogni mattina giravano le vie con un bidone apposito e con misurini di una quarta , di mezzo litro, di un litro e consegnavano il latte alle famiglie facendo la vendita come si dice oggi, porta a porta.
    Poi subentrò il confezionamento e la vendita nei negozi, così che scomparve questa pratica.
    Le cose non sempre andavano per il verso giusto.
    Così successe che un giorno il venditore aveva quasi finito il latte, quando un acquirente chiese con insistenza una quantità superiore al contenuto rimasto.
    Che fare? Il venditore chiese di aspettare una mezzora giusto il tempo di tornare nella stalla ed andare a prendere altro latte.
    In verità costui si allontanò di qualche centinaio di metri e al primo fontanile mise una quantità d'acqua giusto per raggiungere il richiesto.
    Un altro fatto si annovera come un aneddoto vero e proprio.
    Il figlio di un lattaio era diventato grandicello ed il padre volle metterlo alla prova.
    Per qualche giorno gli fece conoscere i clienti e poi gli dette la completa autonomia della vendita.
    Il giovane era intraprendente e ben presto aumentò la clientela, ma non potendo soddisfare tutti, passando per la fontana, ne aumentava il contenuto così da poter accontentare tutti i richiedenti.
    Ma in giro, cominciarono le lamentele, dicendo che il latte era troppo acquoso.
    Della cosa ne venne a conoscenza il genitore che decise di fare una verifica di persona.
    Un giorno, di nascosto, seguì il figlio nella vendita e lo scoprì giusto nel momento della commistione.
    Al che il padre al figlio: “e bravo! Si tu ca misch' l'acqua cu ru lott' e quest' a me, tu, nun l'avìva fa'”!. (e bravo! sei tu che mescoli l'acqua con il latte e questo a me tu non lo dovevi fare!).
    Il giorno seguente dovette il genitore tornare a farsi il giro del paese ed il figlio dovette aspettare qualche anno prima che acquisisse la maturità dovuta.

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Teste:Maria Ragazzo e Rocco Cirillo
Pratiche magico- sacrali contro il malocchio e contro la grandine.

    Una pratica antica ma ancora oggi presente è quella che alcuni anziani del paese fanno per togliere il malocchio ad una persona.
    Lo scrivente ha assistito all'evento e ne riporta i dati essenziali.
    Sulla testa della persona vengono fatte delle croci al centro e ai due lati e poi proseguendo lungo il petto, con il pollice destro.
    Il guaritore o la guaritrice recita in silenzio delle parole, quelle principali del tipo: “Rijàvel'' ri stu' munn' vattìnn' a l'òtu munn'” (Diavolo di questo mondo vattene all'altro mondo) ed altre frasi miranti a scacciare il demonio dal corpo della persona.
    Poi in un piatto cavo, pieno di acqua, sono versate gocce di olio che vengono tagliate a croce con un coltello.
    Se le gocce non si sciolgono vuol dire che il malocchio è tolto, se invece le medesime si diffondono bisogna continuare la pratica fino ad ottenere il risultato desiderato.
    Altra pratica magico-sacrale è quella contro la grandine.
    Quando cadeva la grandine, veniva praticata una forma di scaramanzia particolare.
    Pare che la persona facendo delle croci verso il cielo, dicesse frasi del tipo: “Rijàvel', Rijàvel', vattìnn' ra la vigna mìja e vàje a quere ri l'òte” (Diavolo , Diavolo, vattene dalla vigna mia e vai a quella degli altri).
    Oggi sappiamo che la prima pratica è sconfessata dalla scienza medica e la seconda dalle previsioni meteo che ne determinano l'evento, facendo uso di modelli matematici sempre più avanzati.
    Ma a volte nella credenza popolare esiste ancora qualcuno che fa ricorso a queste pratiche, pensando di allontanare da se il male o il pericolo.


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Teste: Severino Ragazzo
Il pascolo abusivo.

    Il reato a cui spesso e volentieri era soggetto chi possedeva animali era il 'pascolo abusivo' cioè lo sconfinamento della bestia nel terreno altrui.
    Era anche il mezzo per gli avvocati per fare cause ed indipendentemente dalla sentenza fare carriera (d'altronde non era nemmeno colpa loro quanto dei cittadini che ne facevano ricorso).
    A volte i danni provocati venivano saldati con trattazione bonaria tra le parti, ma nella maggioranza dei casi era la legge che provvedeva a dirimere il contenzioso.
    I grossi possidenti terrieri avevano anche l'avvocato di famiglia per cui per loro era facile, con una semplice citazione, farsi rivalsa.
    Volle che un giorno gli animali di un signorotto, per distrazione del pastore, andassero a pascolare nella proprietà di un altro possidente.
    Questi, informato, provvide subito ad esporre querela ed il primo provvide subito al risarcimento.
    Ma a distanza di qualche mese la situazione si invertì, nel senso che gli animali del secondo andarono a finire nella proprietà del primo; questi subito fece altrettanto, facendosi riconoscere il danno subìto.
    Così che il ristoro che il secondo possidente aveva incassato, dovette successivamente restituirlo al primo.
    Tra loro due, grandi proprietari, ci fu la compensazione, ma per i piccoli questo non sempre avveniva allo stesso modo, specie se di mezzo c'era il nullatenente dal quale, oltre gli animali, non c'era più niente da prendersi.
    Oggi quei pochi allevatori rimasti, per evitare lo sconfinamento, hanno recintato le proprietà per cui i reati di 'pascolo abusivo' si sono quasi azzerati.


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Teste: La Vecchia Raffaele
Il falso invito.

    C'erano due contadini che avevano il terreno a confino; sistematicamente uno dei due doveva passare dentro la proprietà dell'altro, in vicinanza della 'pagliarola' o del 'pagliaio' per accedere al proprio fondo.
    Successe che il passaggio avveniva proprio quando il secondo stava facendo 'murenna' (il pranzo quotidiano ), all'ombra, sotto una quercia antistante l'abitazione.
    Invitando il vicino, a consumare con lui il mangiare, gli fece capire che non poteva accontentarlo perché non aveva la posata appropriata. E così il primo giorno per mancanza di cucchiaio, il secondo giorno per mancanza di forchetta e il terzo giorno per mancanza di coltello, trovò la scusa per non dividere la spesa.
    Il quarto giorno, però, il vicino si portò con se in tasca tutte e tre i tipi di posate e quando ebbe il falso invito così rispose: “cumbà, non ti preoccupare che le posate me le sono portate da me!”.
    Non poté questa volta rifiutare il desinare all'ospite e fu costretto a dividere con questi il pasto che aveva dinanzi.


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Teste: Vincenzo Cataldo
Gesù, San Pietro e l'attraversamento di un torrente.

    Per questo racconto e per il successivo lo scrivente fa una precisazione: è grazie alla religione cattolica che si può parlare anche della vita di Gesù, degli apostoli, dei Santi, della Madonna, oltre che dei loro miracoli anche della loro quotidianità, immaginandoli anche come persone umane che compiono attività comuni a tutti gli altri; viceversa per altri credi si incorre nella censura se non nella persecuzione come diversi esempi dimostrano.
    Dalla leggenda popolare si apprende che un giorno il Maestro Gesù e il suo apostolo prediletto Pietro dovevano attraversare un ruscello.
    Gesù andava lungo la riva camminando sulle pietre di sedime, mentre Pietro attraversava il corso d'acqua giusto in mezzo.
    Via via Pietro si vedeva aumentare il livello dell'acqua fino a che quest'ultima gli arrivò alla gola.
    Allora, tutto preoccupato, Pietro chiese aiuto a Gesù e questo con semplicità gli rispose: “Pìtr', Pìtr', nun vìr' ca ìjo me mantengh' 'ncimm' a re pret' e tu vàje a mizz' a mizz'?” ( Pietro, Pietro, non vedi che io mi mantengo sopra le pietre e tu vai in mezzo all'acqua ?).
    Il consiglio fu utile perché l'apostolo fece subito tesoro e, imitando Gesù, si tolse dall'imbarazzo in cui era caduto.

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Teste: Teodoro Minieri
Gesù, San Pietro e la raccolta delle ulive.

    Nella leggenda popolare si narra che Gesù oltre alla predicazione non disdegnava di fare qualche attività dei comuni mortali.
    Così successe che un giorno invitasse l'apostolo Pietro ad andare a raccogliere le ulive per ricavarne un utile per il loro sostentamento, in un fondo che, pensava, fosse di un suo antenato.
    Detto, fatto, Pietro a raccogliere stando giù per terra e Gesù sull'albero.
    Volle che arrivassero dei soldati romani che fecero rilevare subito l'abuso, in quanto il terreno era di proprietà di un legionario e non il loro.
    Presero Pietro che era alla loro portata e lo riempirono di botte.
    Il giorno dopo successe la stessa cosa.
    Il terzo giorno erano rimasti pochi alberi da raccogliere e Gesù insistette per finire il lavoro e Pietro era recalcitrante, ma, per il bene che voleva al Maestro, si convinse ad acconsentire solo che pretese che questa volta fosse lui a stare sull'albero e Gesù per terra.
    E così avvenne.
    Dopo poco arrivarono i soldati, e come nei giorni precedenti, stavano già per percuotere quello che si trovava per terra, allorché il loro capitano intervenne di autorità e questa volta prescrisse che ad essere punito fosse quello che si trovava sull'albero così dicendo: “e mo basta re rall' semp' a quir' re sott','sta vota rallìt' a quire re cìmm'!” (e adesso basta di percuotere sempre a quello di sotto, questa volta datele a quello di sopra !).
    Così che toccò per la terza volta a San Pietro subire le conseguenze.
    Se una morale si può ricavare è quella che, indipendentemente dai personaggi citati, a volte sono sempre gli stessi a pagare, pur se cambia il contesto ambientale in cui si vengono a trovare;come in un detto lucale: “càvel' e presòtt', cinch' furcìne vàje pe' sott'”.

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Teste: Rosario Gallicchio
“Maronna mìja, speramm' ca nun se 'nfràceta”.
(Madonna mia, speriamo che non si guasti ).


    La società contadina fino agli anni 50' imponeva dei codici di comportamento ben precisi, come ad esempio quello che una ragazza da marito fino al giorno del matrimonio mantenesse la illibatezza e che il giorno dopo dell'evento, i familiari potessero verificare la coerenza, con l'esposizione del lenzuolo macchiato di sangue.
    Così avvenne che una coppia di giovani fossero innamorati pazzi l'uno dell'altro ma dovevano tenere a freno gli istinti sessuali fino al giorno del matrimonio.
    Mancavano due o tre giorni dallo sposalizio e i due lavoravano in campagna l'uno a fianco all'altro, la donna con la classica veste longa che arrivava fino ai piedi per coprire anche la mancanza di mutande che allora, per le classi umili, era una cosa normale; il maschio, era assetato di sesso ed invitava la compagna a fare uno strappo alla regola, ma la sposa resisteva anche per le conseguenze che ne potevano derivare specie da parte della madre e della suocera.
    Alla fine questa cedette, ed alzata un attimo la veste, fece vedere allo sposo, inginocchiato, il suo organo sessuale.
    Lo sposo in quel momento avvertì un senso di cattivo odore che proveniva in vicinanza anche legato al sudore che si produceva lavorando nel periodo estivo e così esclamò: “Maronna mija, falla stà bbòna pe' 'n'òte dùje o tre jurn' , sperann' ca nun se 'nfràceta”( Madonna mia, falla stare bene per altri due o tre giorni, sperando che non si guasti ).

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Teste: Michele Cogliani
Il podestà e l'abuso di autorità.

    Era il ventennio e dopo il 1926 con l'abolizione delle elezioni democratiche del sindaco, a capo dei paesi venivano nominati i podestà che, a volte, facevano il bello e il cattivo tempo, approfittando del potere assoluto che avevano e di restare impuniti.
    Così successe che uno di questi di un paese che non vi dico, aveva un figlio con handicap fisico e spesso lo portava in giro su un calesse trainato da un cavallo, per farlo distrarre.
    E con lo scudiscio, facendo sentire lo schiocco, padre e figlio non disdegnavano, prendendone gusto, di colpire, oltre l'animale, anche i passanti che si trovavano nei paraggi.
    Le persone coinvolte si tenevano l'offesa anche per non avere grattacapi con il potere costituito.
    Ma un giorno, però, un cittadino possidente, dotato di ottima forza fisica, dopo un paio di volte che aveva subito l'affronto, la terza volta non ne potette più.
    Si fece avanti, fermò il cavallo, fece scendere dal calesse il padre e il figlio e con lo scudiscio li fece a tutti e due “nuv', nuv' re mazzàte” e poi velocemente si dileguò.
    Il podestà cercò, nei giorni successivi, in tutti i modi, di venire a capo dell'autore ma nulla poté, perché, seppure qualche compaesano aveva visto, preferì tenere la bocca chiusa, quasi a godere del gesto del 'giustizialista' che era stato capace di ribellarsi ai continui soprusi.
    A margine, lo scrivente ricorda, per averlo sentito dire direttamente, come il suo genitore Eugenio, per una bestemmia pronunciata in Piazza Garibaldi per la caduta del mulo carico di roba, fu multato di 6 lire che a quei tempi, inizio anni 40', era una bella somma, o come qualcuno, nel ventennio, fu messo a zittire con olio di ricino per essersi ribellato ad un sopruso del gerarca di turno.

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Teste: Nicola Cicchetti e Valerio Monaco
Don Antonio Batta e la prescrizione della supposta.

    Antonio Leonardo Batta è stato un personaggio di Vallata che ha fatto dire di se nella vita pubblica e professionale per circa un trentennio, dal 50' al 70' del secolo scorso prima che si trasferisse definitivamente, ad Avellino.(I Batta già dal settecento avevano in famiglia la passione per la medicina, tanto che nella chiave del portale principale del loro palazzo si trova il simbolo di Esculapio).
    Valente dottore, specialista, in particolare, nella cura delle artrosi e dei dolori reumatici, aveva in quel periodo quasi la metà dell'assistenza medica dei propri compaesani ed era voluto bene anche perché era affabile nel trattare con la gente.
    Di idee socialiste, fu impegnato nella politica locale (sindaco dal 1956 al 1960) e provinciale con comportamenti e scelte a volte anche discutibili).
    In quel periodo suo antagonista sia nella professione che in politica fu il dottore Tanga Pasquale, sindaco dal 1946 al 1955 e organizzatore del partito della D.C. a Vallata e che preparerà con una tattica sapiente la strada al nipote Alfonso Tanga che diventerà poi senatore della Repubblica. Con un numero minore di assistiti in quel periodo era presente a Vallata , anche, il dottore Gerardo Tarchini.
    Volle che negli anni 50', in un inverno particolare, il dottore Batta si trovasse ad assistere un cliente di una frazione di campagna, che aveva una febbre influenzale e che gli ordinasse delle supposte antipiretiche.
    Dopo un paio di giorni, tornato a visitare il malato, trovò che la febbre anziché diminuire era aumentata.
    Chiese a costui se avesse assunto la medicina e l'assistito sprezzante ma approfittando del tono familiare che il dottore aveva con tutti, così rispose: “dottò', ma tu te sìnt' bune! 'Ste còse re mìtt' 'ncul' a sòret'” (il dottore aveva delle sorelle).
    Il medico si arrabbiò per tale risposta, ma in ossequio al codice deontologico, prese una supposta e la mise di persona nell'ano del paziente.
    L'assistito, vedendo che la prima aveva fatto effetto, le altre supposte se le mise da solo e quando il dottore ritornò, la febbre era scomparsa completamente ed il malato questa volta, in tono dimesso, chiese: “dottò v'àggja rìce 'na cosa, ma foss' ca la supposta s'add' ammunnò?, picché nun è stat' manch' pi' la fa' scì 'ncàp' ammont', quont' pi' la fa' scenn' ncàp' abbadd'” (dottore vi debbo dire una cosa, forse che la supposta va sbucciata? Perché non è stato tanto per farla andare sopra quanto per farla scendere giù).
    Così il dottore capì che il paziente la supposta se l'aveva messa con tutto il guscio e questo gli procurava fastidio.
    Quando si dice che c'è sempre da imparare nella vita e che la presunzione non paga.

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