NUMISMATICA E STORIA PREZIOSE MONETE D’EPOCA IMPERIALE ROMANA ritrovate a Vallata fra il XVIII e il XX secolo e poi irrimediabilmente scomparse. - Prof. Rocco De Paola

NUMISMATICA E STORIA
PREZIOSE MONETE
D’ EPOCA IMPERIALE ROMANA
ritrovate a Vallata fra il XVIII e il XX secolo
e poi irrimediabilmente scomparse.

A cura del Prof. Rocco De Paola

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      Tra gli altri elementi di pregio, rinvenuti nell’agro di Vallata, spiccano varie monete di epoca imperiale, una volta custodite in un medagliere di cui parla don Arturo Saponara, nell’ormai celebre opuscolo in cui tratta delle vestigia di Roma affioranti o venute alla luce nel corso dei secoli(1) nel nostro territorio. Tali monete, stando alla testimonianza di Saponara, erano state ritrovate nelle campagne circostanti tra il ‘700 e il ‘900. Purtroppo, già all’epoca, ossia negli anni Cinquanta del secolo scorso, quella teca era desolatamente vuota. Erano sopravvissuti unicamente dei cartellini con delle annotazioni relative alle monete una volta in essa contenute. Le etichette riportavano le seguenti postille: “HERCULES, DEA TEMPESTA, MARCIA OTACILIA SEVERA Philippi Senioris Uxor et Junioris Mater, MARCUS AURELIUS PROBUS, IMP. MARCUS AURELIUS CLAUDIUS et ejus frater Quintilius, IMP. LUCIUS VERUS et ejus uxor Lucilla(2)”.
Si trattava, come si vede, di una cospicua collezione di monete delle quali si è conservata memoria solo in quegli scarni appunti, senza altra specificazione relativa al loro valore, alle iconografie riportate ed al metallo di conio.
La scritta “HERCULES” è molto generica ed irrituale come legenda, in quanto essa è quasi sempre seguita da un qualche appellativo(3). La forma al nominativo sembrerebbe indicare che si tratti piuttosto di una semplice nota esplicativa dell’estensore del cartellino, anche se sono comunque attestate didascalie del tutto simili in talune monete. Inoltre, si ignora se possa considerarsi un diretto riferimento ad Ercole oppure alluda ad un imperatore che si sia arrogato il diritto di esserne ritenuto un emulo con caratteristiche pari o superiori a quelle del semidio. Se si trattasse della prima ipotesi, il ventaglio delle attribuzioni sarebbe estremamente ampio, svariando dalla età repubblicana fino al Basso Impero e oltre, per cui risulterebbe vanificato ogni tentativo di identificazione della moneta o della medaglia nonché del titolare delle stesse. Il culto di Ercole, infatti, attraversa tutta la storia di Roma ed è attestato fortemente anche in età imperiale. Se, invece, l’indagine fosse limitata al solo periodo imperiale, si potrebbe in certo qual modo circoscrivere l’ambito dei possibili titolari e determinare l’iconografia delle monete o delle medaglie coniate con l’effigie dell’eroe, con sotteso intento encomiastico e celebrativo tendente alla magnificazione della figura del regnante.
Molti imperatori dedicarono santuari e monumenti a quell’eccelso eroe della mitologia greco-romana e a lui si ispirarono. In particolare Traiano ( 98 - 117) ed Adriano (117 - 138) furono particolarmente versati nel culto del semidio. Commodo (180-192), poi, il cui ipertrofico “ego” non conosceva limiti, giunse ad identificarsi con lui, rivendicando per sé il titolo di “Ercole romano” e facendosi raffigurare sulle monete e nelle statue, come è ancora possibile vedere in quelle scampate alla “damnatio memoriae”(4), con la clava e la pelle di leone, come usualmente veniva raffigurato l’Alcide, quali simboli della sua possanza fisica e della sua prima fatica, conclusa con l’uccisione del leone Nemeo.
Le monete che facevano parte di quel medagliere di cui si è detto sono in gran parte riferibili al II ed al III secolo dell’impero di Roma, pertanto anche quella con la scritta “Hercules” andrebbe logicamente assegnata a quel periodo storico. In virtù di quanto detto finora, l’attribuzione non dovrebbe discostarsi da una delle figure che, secondo la documentazione storica a noi pervenuta, maggiormente ebbero cura del culto di quel semidio, ossia Traiano, Adriano o Commodo. La mancanza di ulteriori ragguagli e di qualsiasi altro particolare su quella moneta potrebbe anche far ipotizzare che si trattasse di una medaglia celebrativa dedicata esclusivamente ad Ercole, come in tante altre analoghe coniature.


      Naturalmente, le ipotesi avanzate si basano in esclusiva su meri indizi e su semplici supposizioni, in difetto assoluto di prove inoppugnabili, per cui tutta la “vexata quaestio” resta indeterminata, senza una plausibile soluzione.e.
Quanto all’altra presunta moneta, che secondo l’anonimo compilatore dei cartellini avrebbe riportato una legenda riferita alla “Dea Tempesta”, i dubbi e le incertezze sono ancora più radicali. Di un nume che presiedeva alle “Tempestates”, si ha notizia in Ovidio
(6) e in Virgilio(7). Sesto Rufo e Publio Vittore, a conferma di quanto già noto dal testo di Ovidio, concordano sulla presenza di una “aedes Tempestatis”(8) che sorgeva nella “Regio Prima” di Roma nei pressi di porta Capena, dalla quale principiava la via Appia. Anche Cicerone parla di “Tempestates” come di divinità alle quali erano dedicate cerimonie religiose da parte del popolo romano(9). La festività della “dea Tempestatis” ricorreva alle calende di giugno di ciascun anno solare, contemporaneamente alle celebrazioni di “Mars Extramuranus”, della dea Carna e di Giunone Moneta(10).
L’edificio consacrato al culto delle Tempeste fu fatto erigere da Lucio Cornelio Scipione, figlio di Barbato, quale tangibile segno di riconoscenza per essere scampato a un terribile fortunale, nell’anno 259 a. C., presso le coste della Corsica
(11). A parte le attendibili testimonianze degli scrittori citati, l’esistenza di quel tempio è resa certa dal ritrovamento di una epigrafe di quell’eminente personaggio, il cui testo, riportato da Antonio Nibby(12), include in calce un chiaro riferimento ad un tempio che lo Scipione “dedit Tempestatibus merito”. Epitaffi con scritte simili(13), rinvenuti presso il sepolcreto di quella illustre famiglia(14), comprovano l’autenticità della iscrizione relativa a Lucio Cornelio Scipione, ritenuta falsa da Scipione Maffei nella sua Arte Critico-Lapidaria(15), con argomentazioni poi confutate da quella importante scoperta. Questo conferma che fu proprio il comandante della flotta romana, conquistatore di Aleria e della Corsica, a far costruire di sua iniziativa il tempio della dea Tempesta, che, probabilmente, sorgeva nelle adiacenze del monumentale complesso funebre degli Scipioni, fuori porta Capena(16).
Se, allora, è comprovata la presenza di un tale nume nel pantheon degli dei della Roma antica, non altrimenti sicura è la coniazione di monete che riportino una scritta, nel dritto o più verosimilmente nel rovescio, ispirata a quella dea. Il riscontro certosino effettuato, in numerosi repertori, di diverse centinaia di monete, sia di epoca repubblicana sia di età imperiale, non ha prodotto nessun risultato. Si deve, allora, pensare che quella scritta potesse riferirsi ad un medaglione, riproducente la “dea Tempesta”, o che potesse corredare una moneta del tutto ignota ai numismatici ed ai compilatori dei cataloghi di antiche monete romane. Ove una tale congettura fosse vera, il danno per la perdita di quel prezioso cimelio risulterebbe incommensurabile, non in riferimento al valore venale del medesimo, comunque cospicuo, ma per le implicite, rilevanti valutazioni di carattere storico-numismatico. Purtroppo, la cruda realtà non può non acuire in noi un vivo senso di rammarico per il nocumento prodotto dalla scomparsa di quella moneta, o medaglia, che poteva essere un esemplare unico, non essendoci al presente nessun’altra attestazione di essa.

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1) Don Arturo Saponara, Vestigia di Roma in Vallata e nel suo territorio, Tip. Pergola, 1957, ora in Vallata.org
2) Idem, ibidem.
3) Come nella legenda “Herc(ules) Gadit(anus)” dell’aureo coniato nel 119 d. C. o in epiclèsi del tipo “tutor”, “invictus”, “victor”.
4) Nella “Historia Augusta” si legge che i Senatori, oltre a comminare la “damnatio memoriae” al defunto imperatore, auspicarono che il corpo esanime di Commodo fosse trascinato con un rampone nel Tevere, secondo la tradizione dei padri, ma Pertinace lo fece seppellire segretamente nel mausoleo di Adriano, che sarebbe poi stato denominato ed è tuttora noto come Castel Sant’Angelo. Per una sorta di beffarda nemesi storica, la memoria di quel dissoluto e sanguinario imperatore sarà riabilitata qualche anno dopo da Settimio Severo, che addirittura gli tributerà onori divini, con l’intento di legittimare il proprio potere, ricollegandosi alla dinastia degli Antonini.
5) Il denario è in RIC 305.
6) Ovidio, Fasti, libro VI, v. 193: “ Te quoque Tempestas meritam delubra fatemur / cum pene est corsis obruta classis aquis”.
7) In Virgilio (Eneide III, vv. 118-120) si parla del sacrificio alla dea Tempesta di una pecora nera operato da Anchise: “sic fatus (Anchises n.d.r.) meritos aris mactavit honores / taurum Neptuno taurum tibi pulcher Apollo / nigram Hyemi (alla Tempesta n.d.r.) pecudem Zephirys felicibus albam”. I Greci, ritenendo quella divinità un nume maschile, sacrificavano, invece, un agnello bianco.
8) Sesto Rufo e Publio Vittore furono due scrittori latini vissuti al tempo di Valentiniano II. Del primo è noto un compendio di storia di Roma, mentre del secondo si ha certa cognizione di un opuscolo che descrive le “regioni” della città, con riferimenti puntuali alle strade ed agli edifici più importanti di ogni “regione”. (Giuseppe M. Cardella, Compendio della Storia della bella letteratura greca, latina e italiana, Pisa, ed. presso Sebastiano Nistri, MDCCCXVI, pag. 445; Famiano Nardini, Roma antica, vol. I, edizione postuma, in Roma, Per il Falco, M. DC. LXVI, pag. 72 e pagg. 151-153).
9) Cicero, De natura deorum, III, 51: “Quod si nubes retuleris in deos referendae certe erunt Tempestates quae populi romani ritibus consecratae sunt”.
10) “Dizionario mitologico” del sig. Ab. Declaustre, tradotto dal francese, Tomo II, Venezia, presso Domenico Ferrarin, MDCCLV, pag. 70.
11) Francesco Antonio Fasce, Compendio delle principali usanze degli antichi Romani ad uso delle scuole Pie, ed. Calasanzio, Firenze, MDCCCXXII, a pag. 115, parla di un tempio eretto alla Tempesta per opera di Lucio Cornelio Scipione figlio di Barbato davanti alla porta Capena.
12) Antonio Nibby, “Roma nell’anno MDCCCXXXVIII”, Tip. Delle Belle Arti, Roma, Parte II. Antica, 1839, pag. 569. Proprio nell’ultima riga del testo vi è un riferimento esplicito al delubro della dea Tempesta. L’iscrizione, in un latino arcaico piuttosto scabro rispetto alla politezza dei canoni classici, ma di icastica espressività, riporta l’elogium a Lucio Cornelio Scipione in versi saturni:



Nibby ne fornisce una “traduzione” in latino più regolato:“ hunc unum plurimi consentiunt Romae / bonorum optimum fuisse virum / Lucium Scipionem: filius Barbati, / consul, censor, aedilis hic fuit apud vos: / hic cepit Corsicam Aleriamque urbem, / dedit Tempestatibus aedem merito”. (Vedi anche CIL, VI, pars I, 1287, dove si riporta la data della scoperta della lapide al 1614 anziché al 1616). La parte iniziale dell’epigrafe con l’intestazione in lettere rubricate, ossia scritte con colore rosso, fu rinvenuta solo nel 1781. (Vedi CIL, VI, pars I, 1286).
Lucio Cornelio Scipione fu console nell’anno 495 a. U. C. e censore nell’anno 496 a. U. C. (Le date riportate da CIL seguono il calendario varroniano che anticipa di un anno, al 754, i natali di Roma. N.D.R.). Era figlio di quel Lucio Cornelio Scipione Barbato, console nel 456 a. U.C., che avrebbe espugnato le città di Taurasia e Cisauna nel Sannio e sottomesso tutta la Lucania, deducendone numerosi ostaggi, come si legge nell’elogio funebre scolpito alla base del sarcofago.
Come il precedente elogium, che Mommsen esplicitamente definisce carmen, anche questo è in versi saturni, tanto da far ipotizzare la nascita di una letteratura poetica a Roma ben prima dell’età universalmente riconosciuta. Ma, d’altra parte, se fosse vera l’ipotesi che autori degli “elogia” potessero essere Ennio e Pacuvio, storicamente riconosciuti come gli iniziatori della letteratura poetica in Roma, occorrerebbe postdatare le due epigrafi ad età notevolmente posteriore, nel contesto di una temperie storica tendente alla esaltazione della famiglia degli Scipioni. Nel caso di Barbato si rileva il contrasto tra quanto affermato nell’elogium e ciò che rinveniamo nelle cronache istoriche di Tito Livio, in cui si afferma che egli avrebbe guidato le legioni romane in Etruria, assegnando al collega di consolato Gneo Fulvio Centumalo il trionfo “de Samnitibus”. Secondo i Fasti, poi, Fulvio trionfò “de Samnitibus Etrusceisque”. Sulla complessa questione si veda “L’elogio di Scipione Barbato” di Adriano La Regina in “Dialoghi di Archeologia”, anno II, n.2, 1968, pagg. 173-192.
(CIL, VI, pars I, 1284 e 1285) L’elogium di L. Cornelio Scipione Barbato.


13) Famiano Nardini, Roma antica, vol I, quarta ristampa romana presso De Romanis, in Roma, MDCCCXVIII, a cura di Antonio Nibby. Nella nota di pag. 152, lo studioso romano, contrariamente a quanto affermato da Nardini, il quale riteneva che il tempio fosse stato edificato per iniziativa di Metello, ne attribuisce il merito a Lucio Cornelio Scipione, adducendo come prova cruciale la scoperta, avvenuta nel 1780, del sepolcreto degli Scipioni, con iscrizioni simili a quella della lapide dedicata a Lucio Cornelio Scipione, rinvenuta molto tempo prima, nel 1616, come si è avuto modo di dire (vedi nota 12).
14) Luigi Canina, Indicazione topografica di Roma antica in corrispondenza dell’epoca imperiale, quarta edizione, Roma, dai tipi dello stesso Canina, 1850, pag. 61. Tra le iscrizioni rinvenute nel sepolcreto degli Scipioni, è compresa anche quella del figlio di Barbato. L’intestazione a Lucio Cornelio Scipione,“litteris non incisis sed rubro colore pictis” (CIL, VI, 1286), venne fuori proprio nella contestuale circostanza del ritrovamento del sepolcreto, anche se fu scoperta solo l’anno successivo (vedi nota 12), e servì di conferma dell’autenticità dell’iscrizione del 1616, da taluno revocata in dubbio.
15) Famiano Nardini, op. cit., pag. 152.
16) Luigi Canina, op, cit., pag.62. “Da un tal ritrovato può dedursi ancora essere stato quel tempio situato a poca distanza dal luogo ove fu scoperta la detta iscrizione, cioè lungo la via Appia a poca distanza dal medesimo sepolcro”.

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