Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Processi dal 1771 al 1776.

Capitolo IV
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4.3 Processi dal 1771 al 1776.

        Nella Dg. II, b. 445 f. 9042 del 1771, Don Nicola Cuoco di Trevico promosse atti civili contro Biase Gallicchio di Vallata per una corresponsione di 100 ducati quali saldo dell’acquisto di una masseria. Quindi, il primo volendo perseguire il suo obiettivo, comparve a Foggia innanzi al Doganiere, al Credenziere ed all’Uditore giudiziario con funzioni di avvocato fiscale e ricordò, come sin dal 1767, tramite un atto del Notaio Fabio Magaletta di Vallata, vendette al noto Locato di quella Regia Dogana Don Biase Gallicchio, una masseria di tomoli 41 e misure 6 dotato di un fabbricato, una stalla ad uso pecore ed un pozzo, in un luogo detto “Longarella” nel tenimento di Trevico. Don Nicola Cuoco stabilì con Don Biase Gallicchio che il prezzo sarebbe dovuto essere di 500 ducati e, precisamente 365 ducati e grana 75 per il terreni al prezzo di ducati 9 il tomolo e 134 ducati e grana 25 per la masseria, la stalla ed il pozzo. Quando fecero l’atto dal Notaio, lui ebbe subito 200 ducati, altri 200 furono pagati da Don Biase tramite animali vaccini e pecorini, mentre avanzavano altri 100 ducati a completamento dell’intera somma e nel frattempo: “Don Biase non solo non finì di pagarmi, ma si sta godendo pure la masseria percependo indebitamente i frutti da quasi 4 anni”. Infine, Don Nicola Cuoco raccontava come quella masseria fosse arrivata a lui, tramite suo zio, il canonico Don Giovanni Cuoco che l’aveva comperata dal Mag.co Don Giuseppe Verdoglio di Trevico. “Pertanto, oggi , 27 Febbraio 1771 chiedo che Don Biase paghi non solo i 100 ducati, ma anche gli interessi maturati ed i frutti pendenti e ricompensativi di questi 4 anni che avrei dovuto godere io, ma Don Biase fu anche molto furbo perché sull’atto del Notaio fece scrivere che da parte mia non poteva esserci l’azione di ricompera”. L’atto scritto dal sacerdote Malanconicus, segretario della Regia Dogana, fu formalmente concepito dall’avvocato Don Carlo Maria Valletta che invitò Gallicchio a presentarsi a Foggia entro sei giorni dal ricevimento dello stesso. Ma, Don Biase Gallicchio, preferì non comparire ed inviò una sua procura, a firma del Notaio Martinez Novia e con i testimoni Francesco Saverio Cirillo e Francesco Novia, nella quale nominava al suo posto Don Alessandro Sorrentino, dandogli ampio mandato a rappresentarlo in quella sede. Anche Don Nicola Cuoco si comportò allo stesso modo, nominando Don Nicola Belmonte confidando senza remore nel suo operato e adducendo che non poteva essere a Foggia perché aveva un’altra udienza nello stesso giorno stabilito per l’udienza del 22 Aprile 1771, nella Corte Marchesale di Trevico. Quella procura fu autenticata dal Notaio Marcellino Pagliarulo ed i testimoni furono Timoteo Pagliarulo e Giovanni Cerullo. I due procuratori con puntualità alle ore nove del 22 Aprile 1771 si presentarono a Foggia presso il Palazzo Doganale, innanzi al Presidente del Tribunale, Don Angelo Granito, “Miles et Patricius Salernitanus et Marchese di Rocca del Cilento”, ed ai due Avvocati Fiscali della Dogana che erano Don Francesco Nicola De Dominicis e Don Carlo Maria Valletta ed al verbalizzante sacerdote Melanconico. Il Procuratore di Cuoco portò l’atto del Notaio Fabio Magaletta del 1767, affinché fosse dettagliatamente studiato, nel quale fu ripetuto tutto ciò che fu scritto in precedenza, con la sola aggiunta della descrizione dei confini della Masseria, che era situata tra i beni della Venerabile Cappella di San Rocco detti “Li Vitrali”  e quelli del Convento di Monte Vergine sempre in detta città di Trevico, mentre a mezzogiorno confinava con i terreni liberi e franchi del Signor Fariello. Quando, invece, comparve il procuratore di Don Biagio Gallicchio, disse: “come voi tutti sapete Don Biase è un noto locato di questa Regia Dogana ed è nota anche la sua solvibilità, pertanto non è che non vuole pagare utilizzando falsi pretesti, ma se la controparte è d’accordo bisogna misurare il terreno perché Don Biase che è esperto in materia, crede che la masseria è più piccola di 41 tomoli e 6 misure”. Ci fu quindi un accordo tra le parti ed il Doganiere Marchese Don Angelo Granito fece il suo proclama, scrivendo che era formalmente invitato a fare questo lavoro il Regio Agrimensore di Vallata che godeva la fiducia di entrambi i convenuti, Don Diego Villani, e la data della ricognizione fu stabilita per il 6 Maggio 1771. Tutto fu fatto nei tempi dovuti, ed il 30 Maggio ritornarono alla nuova udienza a Foggia. La perizia tecnica diede ragione a Don Biase Gallicchio, perché furono misurati solo 34 tomoli, due quarti e misure 24. Allora, l’Avvocato De Dominicis, scrisse la sentenza sempre scritta in latino e disse che Don Biagio doveva pagare comunque i 100 ducati residui come indicato sull’atto originale, ma senza interessi e senza frutti ricompensativi, perché c’era stata quell’irregolarità di fondo abbastanza grave e che bisognava regolarizzare prima della vendita e non dopo e poi, anche le vacche e le pecore avute come pagamento per un totale di 200 ducati avevano già dato dei frutti goduti da Cuoco e, per le spese processuali ed i diritti di segreteria, andavano divisi a metà. Tale decisione fu formalizzata e l’avvocato De Dominicis che conosceva bene  Don Biagio, scrisse di suo pugno a Carlo Antonio La Piccirella, ufficiale della Regia Dogana di Foggia, di portare la notifica dell’avvenuta sentenza nella città di Vallata, nel “Palatius eius”.
        Nella Dg. IX - Processi criminali – b. 46 f. 905 il 29 Marzo 1774 Bartolomeo Gallo e Francesco Macchia entrambi di Vallata, trovandosi reclusi nelle carceri di quella città per scontare una pena detentiva di tre anni per furto ed altri reati minori, praticando un foro al di sotto di una inferriata, riuscirono ad evadere, portando via anche “le mascature ed i cugni di ferro”, poi altri detenuti tentarono ugualmente la stessa via, ma furono bloccati dagli sbirri. Pertanto, furono chiamati Nicola Cirillo e Pietro di Lorenzo che erano due fabbri della città in Principato d’Ultra, affinché facessero un sopralluogo, cosa che regolarmente fecero e, facendo la deposizione innanzi al cancelliere, confermarono che : “ la grata è stata scollata e furono asportate sia le mascature che i cugni” che, a quel punto, avrebbero dovute essere rifatte; allo stesso modo furono chiamati due fabbricatori nelle persone di Pietro Cardillo e Ciriaco Gallo che fecero scrivere che quel muro era troppo debole perché fatto con la pietra calcina. Ma, grazie a delle spie, il caporale degli sbirri Domenico Torello della Corte di Vallata, dopo averli ritrovati in un pagliaio nascosti in una campagna vicino Trevico, li arrestò. Ma, al momento dell’arresto avvenuto la mattina all’alba del 31 Luglio 1774, Bartolomeo Gallo estrasse con rapidità “un pugnale dalla punta molto puntuta dalla calzetta della gamba destra” e minacciò gli sbirri che, accerchiandolo lo disarmarono. I due furono arrestati e tradotti nel carcere del feudo di Migliano nelle pertinenze della città di Trevico, dove si provvide al loro riconoscimento, per opera del Rev.do Padre Don Antonio Mazza e del Mag.co Don Arcangelo Patetta. Sparsa la notizia del loro arresto, si passò a verificare di chi fosse quel pugnale e più persone, come Bartolomeo Cannellino, Giuseppe e Felice Cornacchia, Domenico Gallo, Michele di Filippo e Francescantonio Gallo, andarono a testimoniarono che era proprio di Bartolomeo Gallo. Poi, il Governatore di Trevico scrisse alla Regia Dogana di Foggia una lettera portata dall’Ufficiale doganale di Vallata che era anche abilitato a Trevico, chiedendo il trasferimento dei due arrestati nelle carceri doganali più sicure della città di Foggia; la risposta fu positiva, ma il Governatore avrebbe dovuto pagare un quantum da stabilire, per cui si consigliava di provvedere quanto prima a rendere più sicure le carceri del Feudo di Migliano.
        Nella Dg. IX b. 49 f. 989 il 27 Luglio 1774 ci fu una causa tra il Regio Arrendatore del Sale e del Tabacco contro i quattro carcerati di Vallata accusati di contrabbando, Biase Batta, Euplio Giglio, Giuseppe e Michelangelo di Cosmo. Il fatto fu che i quattro furono arrestati la notte del 26 Luglio alla “Taverna del Pagliarone”  che si trovava a 12 miglia dalla città di Foggia, sulla strada che va ad Ascoli, sulla strada del ritorno a casa dei quattro contrabbandieri che si erano fermati per riposarsi e rifocillarsi prima di effettuare l’ultimo tragitto in piena notte. Infatti, erano le dieci di sera ed i quattro dormivano dentro uno dei pagliai della Taverna, quando il soldato Salvatore de Luca di Foggia che stava assieme ad un suo collega anche questi al servizio del Regio Arredatore del Sale e del Tabacco, tal Domenico Santoro di Savignano ed entrambi dipendenti della Regia Dogana di Foggia, quando notarono fuori dalla Taverna quattro cavalli che non stavano  legati al posto dove comunemente venivano legati, ma stavano in disparte, dietro ad un pagliaio. I due soldati s’insospettirono ancor di più quando s’avvicinarono e videro che portavano delle bisacce; allora cominciarono la perlustrazione della zona e si resero conto che dietro un muro c’erano altri animali da soma, con le bisacce tipiche dei Vaticali(=valutatori di animali) ed altri sacchi stracolmi di sale oltre a quelle piene di tabacco. I due, prima di fare irruzione nel pagliaio dove riposavano quei contrabbandieri, chiamarono dei testimoni che stavano lì  vicino, Giuseppe Santoro di Ruvo in Basilicata, porcaro al servizio del dottor Pasquale Lioja di Venosa, che si trovava in quella zona perché pascolava gli animali sulle spighe dei campi della Masseria di Don Giuseppe Nannarone, famoso proprietario ed allevatore di cavalli della zona, oltre ad un altro loro amico, tal Giovanni Antonio Russo di Ascoli che era pastore e che era solito venire in quella Taverna del Pagliarone per passare un po’ di tempo in compagnia.  Dopo di che i due soldati, presentandosi all’improvviso, procedettero all’arresto di 4 contrabbandieri forestieri che furono identificati per cittadini di Vallata, Euplio Giglio, Biase Batta, Giuseppe e Michelangelo di Cosmo. Dopo l’arresto, si procedette al sequestro di somari muli e cavalli, e furono lì vicino trovate anche alcune bisacce rovesciate a terra non si seppe da chi. Gli animali posti sotto sequestro furono 11 anche se i due soldati fecero mettere a verbale che erano quasi sicuri che fossero di più. Inoltre, in attesa che si svolgesse il processo, si passò all’identificazione di tutti gli ospiti della Taverna del Pagliarone che furono convocati alla Regia Dogana di Foggia. Gli animali sequestrati furono consegnati a Francesco Saverio Caputo che li custodì nella sua stalla che si trovava sulla strada del ritorno a Foggia. Allo stesso modo, tutto il sale ed il tabacco sequestrato fu portato da colui che, per quell’anno 1774, aveva vinto l’appalto dell’arrendamento di quei prodotti del Monopolio, tal don Giovanni Martinez. Fu anche subito avvertito Don Michele del Muscio che era il cassiere responsabile e luogotenente del Fondaco Regio del Sale di Foggia, che sia pur dipendente della Regia Dogana di Foggia, aveva un rapporto più diretto con Napoli, poiché quello specifico argomento era di competenza del Marchese Juan de Goyzueta, Segretario di Stato e della Real Azienda che fu da quello prontamente informato dell’accaduto. Rispondendo da Napoli a Don Michele del Muscio, Don Juan de Goyzueta chiese spiegazioni circa la provenienza di quei prodotti, che dopo un po’ di indagini s’accertò venire dalle Regie Saline di Barletta ed il Presidente della Regia Dogana Don Giovanni d’Alessandro nell’istruzione del processo scrisse : “si deve dare una punizione esemplare a quei contrabbandieri perché occorre dare un esempio di come funziona la Giustizia del Re e perché quel comportamento mette a repentaglio le entrate del Regio Fisco”. Quando Francesco Saverio Caputo si presentò in Tribunale quale affidatario degli animali, oltre a mettersi a disposizione circa tutti i provvedimenti che sarebbero stati presi, fece un dettagliato elenco degli animali, riportando anche i disegni di quelli che erano marcati, definì l’età di tutti i somari, muli e cavalli e firmò l’atto assieme a due testimoni : Michele Biccari ed Emanuele Talia. Questa l’intera descrizione degli animali : 1) un cavallo di pelo morello di dieci anni ed alto 5 palmi e mezzo; 2) un cavallo di pelo morello maltinto alto 8 palmi e mezzo, castrato e marcato alla coscia sinistra (con relativo disegno della marca); 3) un cavallo di pelo baio alto 5 palmi e mezzo di dodici anni; 4) un cavallo di pelo morello con una balza bianca al piede sinistro di dietro alto 5 palmi e mezzo e marcato alla coscia sinistra(con relativo disegno della marca; 5) un cavallo di pelo morello alto 5 palmi e mezzo di 12 anni marcato alla coscia destra con una scritta a marchio doppio e questo non stava con i 4 cavalli precedenti, ma assieme al gruppo dietro il muro, a cui si devono aggiungere; 6) un mulo dal pelo baio, “castagnanuova” di 8 palmi marchiata alla spalla sinistra; 7) una mula baia “castagnanuova” di cinque anni verso i sei senza alcuna marca ed alta cinque palmi e mezzo; 8) un somaro dal pelo corvino di 14 anni con marca alla coscia destra; 9) un somaro di pelo morello di anni 6 verso i sette senza marca; 10) un cavallo di 15 anni di 6 palmi senza marca; 11) un somaro dal pelo baio di 12 anni con una marca nella coscia sinistra. Già in data 28 Luglio il Presidente don Giovanni d’Alessandro dispose che andavano ascoltati tutti i testimoni che quella sera avevano visto qualcosa e che erano stati presenti all’arresto, compresi il Tavernaro del Pagliarone, Giuseppe Marchetti di 40 anni e sua moglie Chiara de Lillo di S.Erasmo di Ascoli, per accertare se ci fossero loro responsabilità e collusioni da scoprire, dal momento che quest’ultima gridò a squarciagola mettendo sull’avviso i contrabbandieri. Ascoltati i due, il Presidente si rese conto che non erano imputabili anche perché i quattro arrestati di Vallata non avevano avuto precedenti con la giustizia e non essendoci nulla nei loro confronti, non potevano il tavernaro e sua moglie non fornirgli ricetto per quella sera, e poi i due affermarono che la Taverna del Pagliarone era di proprietà del Dottor fisico Don Marcantonio Verzilli di Bovino che l’aveva affittata  a loro per quasi 107 ducati da pagare in tanne (= a rate).  Poi, fu la volta di altri due, Tommaso Jantoli e Savino Bucci, amici tra loro e commercianti di frutta secca a Foggia che dissero che stavano lì per caso perché di ritorno dalla città di Bari dove si rifornivano di frutta secca, ed infine fu il turno di Onofrio Marcone, Gaetano Caputo e Michele Mantovano, tutti di Foggia, bottegai e venditori di sale. Il Presidente d’Alessandro chiese come mai fossero li e se per caso c’entrassero pure loro con il contrabbando di sale, perché gli pareva che quella circostanza fosse troppo fortuita per essere credibile, ma i tre negarono di conoscere i contrabbandieri e dissero che erano soliti venire in quella Taverna al Pagliarone durante l’estate per bere qualcosa assieme. Poi, il Presidente d’Alessandro ascoltò le deposizioni dei due soldati Salvatore de Luca e Domenico Santoro. Fu ascoltato pure un garzone di nome Giuseppe Santoro, custode di pecore di 32 anni che fu chiamato dai due soldati, che disse di trovarsi in quella zona perché stava pascendo due morre di pecore dell’Ecc.mo Principe di Torella e che stava utilizzando il pascolo fornito dalle spighe appena trebbiate intorno alla Taverna del Pagliarone. Il 31 Luglio il cassiere e luogotenente del Regio Fondaco del sale di Foggia, Don Michele del Muscio scrisse a Don Vincenzo Pavone delle Regie Saline di Barletta ed al Presidente della Regia Dogana di Foggia che presso l’affittatore del sale Don Giovanni Martinez erano a disposizione: 9 bisacce di quelle tipiche dei vaticali piene di sale, 3 sacchi di sale di notevoli quantità, altro sale raccolto da terra perché buttato lì, e 3 bisacce piene di foglie di tabacco, mentre gli animali stavano sempre presso la stalla di Saverio Caputo. In base a ciò, si procedette alla nomina di due esperti maniscalchi e valutatori di animali nelle persone di Domenico Danese di 46 anni e Michele Salierno di 44 anni che nella loro relazione scrissero che tutti quegli animali non potevano essere venduti per meno di 182 ducati. Il 13 agosto 1774 Paquale Moscarella funzionario della Dogana fu incaricato di affiggere nei soliti posti il bando dell’incanto degli animali, ma dovette portarlo anche a Vallata, luogo d’origine dei 4 contrabbandieri detenuti presso le carceri doganali di Foggia. Il 16 Agosto davanti alla Porta reale furono accese tre candele, ma si presentò solo Don Antonio de Biase, noto proprietario ed allevatore di cavalli con la Masseria situata in Via Troia e comperò solo alcuni soggetti, 7 in tutto, lasciando gli altri 4 che furono conservati per una successiva asta da tenersi nei giorni seguenti. Ma, il 20 Agosto il Presidente d’Alessandro ebbe “una lettera anonima” inviata da Napoli con la quale si diceva di rimettersi alla sua intelligenza e che notasse bene chi era il vero ed ultimo oblatore di tutti gli animali sequestrati e venduti e che il contrabbando aveva coperture ad alto livello. Il 26 Agosto il Presidente d’Alessandro volle essere personalmente presente all’asta dei 4 soggetti rimasti invenduti ed osservò che giunsero tre persone molto conosciute in quella sede, apposta per rispondere all’asta : il Dottor Fisico Don Raffaele Testa di Frigento, Don Fortunato Accorta ed entrambi accompagnavano Don Francesco Saverio Giancamillo, agente del Duca di Vallata e tutti e tre comprarono i restanti 4 animali per ventuno ducati e grana venti. Il Presidente d’Alessandro, dopo aver taciuto per tutto il tempo dell’estinzione delle candele, convocò tutti e tre i personaggi provenienti dall’Irpinia nel suo studio. Li fece aspettare più di due ore perché mandò a convocare anche Don Antonio di Biase che aveva comprato guarda caso tutti gli animali che recavano dei chiari segni di riconoscimento alle cosce per un totale di 165 ducati, poi, facendoli entrare, chiese a brucia pelo: “Desidero sapere chi è il vero oblatore di tutti gli animali ?”. Tutti, a voce bassa e con il capo chino affermarono che era Giancamillo, agente del Duca Orsini di Gravina e possessore utile di Vallata. Il Presidente d’Alessandro mandò tutti a casa, dispose ulteriori indagini, ed avendo capito le connivenze del traffico illegale di sale e tabacco, scrisse al Duca Orsini ed al Re. Fu così che, mentre i 4 arrestati stavano in carcere, fu inviata all’attenzione del Presidente d’Alessandro, Governatore referente della Regia Dogana, un’altra lettera su cui comparve anche la strada che doveva percorrere chi era incaricato di portarla: “Strada per il Ponte di Bovino che porta a Foggia, 3 gennaio 1775, provenienza Vallata”, in cui c’erano accuse pesanti nei confronti di altri cittadini dediti al contrabbando che “tanto ledeva gli interessi di Sua Maestà il Re”; e che per stroncarlo definitivamente bisognava procedere nei confronti anche di altri tre personaggi, Antonio Sena che teneva una bottega di vino assieme a delle donne del luogo, dove si vendevano giochi che pubblicamente erano stati vietati dalla legge del Re ed era un pubblico contrabbandiere, Domenico Schiavina e Francesco Antonio Pavese. Uno di loro tre, quella sera, era pure presente alla Taverna del Pagliarone ad Ascoli. “Tutto quello che riportiamo in questa lettera, lo possono confermare le tante persone e dottori qui presenti”: il dottor Giuseppe Silla, i Dottori Mag.ci Don Giuseppe e Don Bartolomeo Cataldo, il Notaio Martinez Novia, il Dottor Fisico Don Gaetano Mirabelli, il Mag.co Pasquale D’Errico, il Mag.co Don Domenico Pelosi, Don Bartolomeo Floja, il Mag.co Don Arcangelo Patetta, Don Crescenzio Tanga, Paolo Monaco, Vito la Carpia, Pasquale Vecchia, Vito Cornacchia figlio di Felice, Vito Cannone e Don Nicola e Don Domenico Batta. Fu così che il 7 gennaio 1775, nella sede della Regia Dogana, proveniente da Vallata, si presentò il Rev.do padre Don Pasquale Pelosi di anni 40 e davanti allo scrivano Michele Farina lasciò una deposizione in cui riferì che : “ dopo l’arresto dei 4 compaesani detenuti a Foggia, allorquando si diffuse la notizia nel  paese, tutti seppero che il 5° contrabbandiere era Antonio Sena che quella sera riuscì nella confusione del momento a fuggire dal Pagliaro, provocando un foro e scappando con un amico calabrese che stava fuori, poi, versò il sale che stava sul suo cavallo e fuggì verso Vallata portando con se altre cavalcature, pensando pure di recuperare il sale versato a terra nei giorni successivi. Il nome dell’amico calabrese Antonio Sena non lo disse a nessuno ma, io stesso, quando l’incontrai, gli chiesi come fossero andate le cose quella sera del 26 Luglio e, spavaldamente, raccontò di essere fuggito dalla taverna del Pagliarone lasciando i suoi abiti li dentro, scappando solo con camicia e calzonetto e confermò che alcune cavalcature era riuscito a portarle con se”, quindi il sacerdote, aggiunse : “il totale delle cavalcature quella sera erano 18”.
        Don Pasquale Pelosi firmò la sua deposizione e tornò a Vallata ma, nessuna decisione venne presa in merito a quella deposizione, anzi, sembrava che tutte quelle testimonianze fatte fino a quel punto, aggravate dalle lettere anonime al Presidente d’Alessandro, andassero a rendere più difficile una soluzione pacifica della storia che vedeva implicate diverse persone ai più alti livelli e su cui c’era stata poca chiarezza fino a quel punto. Passò ancora un po’ di tempo durante il quale Don Michele del Muscio, cassiere e luogotenente del sale fece il resoconto della vendita degli animali, con un’ entrata di 165 ducati la prima volta e 21 ducati e grana 80 la seconda volta, realizzando un totale di 186 ducati e grana ottanta, somma molto vicina all’apprezzamento dei 182 ducati fatta all’inizio dai due maniscalchi ed esperti valutatori. Il Presidente Don Giovanni d’Alessandro scrisse che quei soldi servivano per pagare solo parte della multa di 200 ducati al Regio Fisco, ma che i 4 contrabbandieri avrebbero dovuto pagare anche il pane che si dava loro, a cominciare dal giorno in cui stettero in carcere. Ma, l’8 Marzo 1775 si diffuse la voce che ci sarebbe stato un “Decreto Reale d’ Indulto” proveniente da Napoli e che però ancora non si sapeva chi erano i carcerati che ne avrebbe potuto beneficiare e quali reati avrebbe compreso quel Decreto. Quando materialmente arrivò il Decreto, a firma del Presidente della Sovrana Regia Camera di Napoli, Don Francesco Machuca de Vargas, anche i quattro vallatesi dovettero essere prosciolti, non prima di aver fatto loro firmare un documento con il quale prendevano atto della multa di 200 ducati da versare al Regio Fisco, di non molestare né permettersi di far molestare alcuno di quelli che avevano deposto in quel processo contro di loro e che avrebbero dovuto pagare il pane consumato in carcere, secondo la nota presentata dal forno che serviva le Carceri Doganali. Pertanto, fu stabilito che, tenuto presente che il pane veniva servito a rotoli e che un rotolo andava a tre grana l’uno, i rotoli in totale erano 868, per un totale di 26 ducati e grana quattro, così distribuito, 104 rotoli a Settembre, 120 ad Ottobre, 124 a Novembre, 124 a Gennaio, 112 a Febbraio, 124 a Marzo, 120 ad Aprile e 40 a Maggio perché furono scarcerati il 10 maggio 1775 dopo l’ora di pranzo. I rotoli serviti negli ultimi giorni di Luglio e nel mese di Agosto non furono conteggiati perché quel forno che l’aveva serviti aveva finito di lavorare ed i proprietari s’erano trasferiti in altra città. Il Decreto di scarcerazione fu inviato a Vallata ed il Segretario della Regia Dogana scrisse che i quattro non dovevano essere più disturbati perché avevano assolto alla loro pena, terminata con l’indulto e che il Re aveva previsto che anche i contrabbandieri potessero essere compresi in quel Decreto. Infine, comparve un atto scritto dal Presidente Don Giovanni d’Alessandro in data 21 Settembre 1775, con il quale scrisse di suo pugno che “con mia somma meraviglia apprendo che anche questo reato era soggetto ad indulto”.
        Nella Dg IV b. 81 f. 5280, in quello stesso anno nel quale uscì la sentenza, il Presidente Don Giovanni d’Alessandro, Duca di Pescolanciano, fu rimosso dall’incarico ricoperto a Foggia, perché quello fu il volere della Camera della Sommaria di Napoli  che lo richiamò in sede e le funzioni che in un primo momento gli furono rinnovate per un altro biennio (Dg. V vol.10),  vennero affidate prima al giudice De Dominicis e successivamente al Marchese Don Saverio Danza (Dg. V b. 76 f. 5109). Secondo quanto riportato nel processo a carico del Presidente d’Alessandro, vi fu un conflitto insanabile tra lui ed il cancelliere della suddelegazione dei cambi, Sacerdote Melanconico che, pur essendo universalmente riconosciuto come persona mite e gentile, lo accusò di avergli arrecato un gran danno agli interessi della Corona, perché con la sua lentezza, confusione ed indolenza, aveva impedito la spedizione di parecchi atti d’esecuzione, rifiutandosi di firmarle e non permettendo, col suo comportamento, di realizzare gli incassi preventivati.
        Nella Dg. II b. 495 f. 10531 il 5 Settembre 1774, il Dottor Don Nunziante Pavese mosse atti civili contro Rocco e Donato Cirillo della stessa terra di Vallata per la rescissione di un contratto ipotecario su un capitale di 221 ducati più una terza maturata di ducati 46 e carlini 8. Don Nunziante all’atto della presente causa era appena passato a pagare quanto dovuto alla Regia Dogana di Foggia perché questi era un noto locato della Locazione di Vallecannella ed aveva denunciato di possedere pecore reali fisse 300, così come appariva sullo Squarciafoglio 1774 che entrava nel 1775. Con queste ottime credenziali, si recò a far visita al Presidente della Regia Dogana che era in sede a Foggia, il Miles Don Joannes de Alexandro, e dopo un po’, questi lo accompagnò dal suo segretario Signor Grimaldi, che subito si mise all’opera per iscrivere a ruolo quella causa così delicata e caldeggiata dal Presidente di quel Tribunale dei locati. Don Nunziante chiedeva una rescissione di un contratto con Rocco e Donato Cirillo di Vallata, rispettivamente padre e figlio, poiché questi da circa 10 anni non corrispondevano i ducati 9 e grana novantaquattro e mezzo, a cui si doveva aggiungere un tasso d’interesse del 4.5% annuo, che avrebbero dovuto versarli entro il mese di Agosto di ogni anno. Il tutto, secondo Don Nunziante, in base ad un contratto che prevedeva un’ipoteca su di un capitale di 221 ducati; pertanto, rescindendo il contratto in modo formale, sarebbe potuto intervenire ad essere ristorato sul loro capitale. Don Nunziante aggiunse che essendo perfettamente a conoscenza del Regal Decreto del 1738, anche il Regio Fisco avrebbe dovuto avere la sua parte, e sin d’ora si metteva a disposizione perché il capitale di 221 ducati fosse tassato, ma faceva presente che tutte le spese di giudizio ed i diritti di segreteria dovevano, beninteso, rimanere a carico del soccombente. Poi, dichiarandosi occupato in altre faccende e pertanto impossibilitato a partecipare alle altre udienze, “confidando dell’intellighentia e della sua esattezza”, nominò suo procuratore Don Nicola Maria Colabianco a comparire in quel Tribunale di Foggia. Questi, comparve subito e portò con se un atto che fece allegare al processo, che in realtà era un  estratto dall’atto originale che a suo tempo, ed a suo dire, era stato redatto dal Notaio Michael Rosa di Vallata, questo era, invece, del Notaio Martinez Novia. Quest’ultimo notaio diceva solo che c’era un’ipoteca sui beni di Donato Cirillo figlio di Rocco, per la quale dovevasi pagare l’annuo censo di ducati 9 e grana 94 e mezzo a Don Nunziante Pavese, e poi, se questi non avesse pagato, potevasi rescindere il contratto, ma questi possedeva i seguenti beni: una casa soprana ed un sottano nella strada detta dell’Oliveto, sopra la Cappella dell’Annunziata, nella parte abitata della città, questa era confinante con la casa dei figli ed eredi di Giuseppe di Filippo, poi questi ha pure una casa con un sottano che si trova sotto lo spiazzo della strada dei Miracoli, ma data in affitto a Giovanni “Lo Scialabrato” che tiene pure un orto come se fosse lui il padrone, da molto tempo, ma è sempre di Donato Cirillo, come pure il fondo di quell’orto dove ci stanno degli alberi fruttiferi ed una siepe che sembra quasi un giardino, di18 metri di lunghezza e dietro c’è anche una grotta, proprio sotto il luogo detto di San Vito, lì dove ci stanno le case del maestro Prospero. Quindi, il Procuratore di Don Nunziante, disse che tutto avvenne nel 1764, anzi il fatto precisamente avvenne nel 1763, ma l’anno dopo cominciò a decorrere il censo, che ammontava già a ducati 46 e carlini 8, pertanto era opportuno rescindere il contratto ed entrare con lettere di esecuzioni sul capitale ipotecato. Questo atto ufficiale del 17 Settembre 1775, portava il sigillo di Giovanni Battista Branca con i testimoni che erano Bartolomeo Tanga e Vito Novia, ed era anche riportato che se fossero trascorsi ancora pochi giorni, cioè dopo il 20 Settembre, sarebbe maturata ancora un’altra terza da aggiungere ai 46 ducati ed otto carlini. Questo atto di notifica, assieme alla richiesta di rescissione del contratto fu inviato a Vallata dove il l’attuario Francesco Antonio Gallo della Corte Ducale, andò alla ricerca dei Cirillo, ma questi non si riuscivano a trovare, tanto che scrisse a Foggia e disse che i Cirillo erano da considerarsi contumaci. Da Foggia partì un altro ordine con quale si comunicava di rintracciarli subito, al massimo entro 20 giorni perché andava loro notificata almeno la rescissione del contratto con Don Nunziante Pavese. Ma il tempo non passò inutilmente perché il caso Cirillo fu preso in esame da un famoso avvocato fiscale napoletano, Don Carlo Valletta che si trovava a Foggia per esaminare alcuni casi complicati, e questi, chiese all’avvocato fiscale De Dominicis, che ha lasciato una traccia indelebile per la sua preparazione ed esperienza nella Regia Dogana, di valutare insieme quel processo che veniva dal Principato d’Ultra. Dopo aver consultato gli atti mandarono a chiamare il Procuratore di Don Nunziante, Don Nicola Maria Colabianco e lo sottoposero ad un interrogatorio inconsueto e che mai avevo visto fino a questo punto; “ma chi abita in quella casa soprana, chi in quella sottana, e da quando tempo vivono lì, e l’orto è sicuro che è di Donato Cirillo, e da quando tempo c’è l’ha quel tale Scialabrato?” Ma le risposte non erano sicure, trapelava incertezza ed il dubbio negli avvocati avanzava sempre di più. Tornato a Vallata il Procuratore ne parlò subito con Don Nunziante e questi, dopo pochi giorni chiese l’aggiornamento del debito e chiese che si affrettasse il giudizio finale. Ma, i due avvocati fecero diversamente e mandarono a chiedere al mastrodatti della Corte Ducale a Vallata che facesse dei sopralluoghi sul posto, consultasse le carte, verificasse lo stato patrimoniale dei Cirillo e poi, con atto notarile glielo restituisse a Foggia. Il Mastrodatti a Vallata era don Pietro Pelosi che scrisse a Foggia una lunga lettera a riguardo, ma le cose essenziali erano racchiuse nel fatto che la casa vicino all’Annunziata solo da poco tempo era stata scritturata a nome di Donato, prima questi era minore e non poteva prendere degli impegni così gravosi per un capitale di 221 ducati, l’orto era ed ancora oggi risultava di Rocco, ma da tanti anni per un buon accordo amichevole lo lavorava Scialambrato, e non ci sono atti a riguardo, ma lui sapeva che era della buonanima di Elisabetta Schiavina, e per eredità deve andare al figlio Donato, ma la faccenda è che dopo che questa passò a miglior vita, Rocco si risposò con Ursula Andreotti ed ebbe da lei due altri figli Michelangelo e Giuseppantonio. Pare che Rocco vuole dare l’orto a questi due figli, ma con il consenso di Donato; tutto ciò che il mastrodatti aveva scritto ed il Notaio Branca legalizzò con i testimoni Sebastiano de Gennaro e Pasquale Lillo, non fece altro che alimentare maggiormente i sospetti dei due avvocati  fiscali, che a sorpresa, mandarono a chiamare nuovamente il procuratore di Don Nunziante e gli ordinarono di esibire l’atto originale di Michael Rosa del 1764 ed anche l’atto dei capitoli matrimoniali di Elisabetta Schiavina perché c’era di sicuro qualche errore poiché non si poteva venire in possesso di beni dotali altrui, specialmente se a Rocco Cirillo quei beni erano arrivati per parte della moglie che era pure deceduta lasciando un figlio. Ma, l’atto di Michael Rosa non arrivò perché non si trovava l’atto, né si poté parlare con Martinez Novia, entrambi erano passati a miglior vita e questo fu comunicato a Foggia. Ma, il 27 Novembre 1775 comparve in udienza il Signor Giovanni Pepe di Vallata, con l’atto di procura di Rocco e Donato Cirillo e procuratore degli interessi anche di Michelangelo, Giuseppantonio e della loro madre Ursula Andreotti. Questi disse che tutto il processo era falso ed era stato architettato con una formidabile montatura perché Rocco e Donato non erano affatto creditori di Don Nunziante Pavese, ma le cose ora, le raccontava lui. “ Tutto cominciò diversi anni fa, precisamente nel 1756, cioè 19 anni or sono, quando Rocco Cirillo, gran lavoratore, decise di aprire un negozio di panni e robbe(=robe) mercantili, e fece una società con il Reverendo Padre Don Francesco Nunziante, fratello di Don Nunziante. Ad un certo punto della loro attività, i due presero a credenza da Francesco Guerrasio della terra di San Severino molte robbe e s’obbligarono con questo con una polizza di cambio, pagabile entro lo stesso anno. A quell’epoca, Donato era piccolo, come poteva impegnarsi?”. Il procuratore continuò dicendo ciò che gli inquirenti già avevano saputo, cioè che le case e l’orto erano beni dotali della moglie di Rocco, poi “questa se ne mori e anche se c’è buon accordo tra tutti, i beni sono di Donato, e forse anche un po’ degli altri due”. Nel frattempo, Don Nunziante Pavese chiese di estendere gli atti ad Ursula Andreotti e figli, perché qualcuno doveva pagare, sia pure in solido con i primi denunciati,  e poi, scrisse che questi avevano una vigna nel luogo detto Ricupo, confinante con la vigna di Carmine La Manna e quella dei coniugi Ingegna, ed infine chiese che tutto fosse mandato alla Corte di Trevico, anche perché sede della Curia Vescovile e lì si sarebbero potuto, non solo ascoltare i testi per le testimonianze per sapere di chi fossero quei beni, se dotali o meno, ma era anche quella la sede giusta perché i Cirillo misero in campo l’onorabilità del fratello sacerdote. Le richieste di Don Nunziante furono accontentate, tutti gli atti da Foggia furono mandati alla Curia di Trevico, esaminati e di lì inviati alla Corte Marchionale della stessa città. In quella città, in quei giorni si recò, su invito del Marchese di quella città, il Marchese Don Xaverius Danza, Governatore della Regia Dogana di Foggia che, ricevette una nota scritta dall’Avvocato De Dominicis che scrisse “di verificare anche le condizioni generale di quell’Archivio di quella Corte, così la relazione da inviare al re sarà più completa”. Il Marchese  di Trevico, affidò tutto nelle mani del suo luogotenente Signor Daniel Paglia che iniziò pazientemente ad ascoltare tutti i testi, confinanti con i beni dei Cirillo o che in qualche modo sapessero fornire utili indicazioni, risultato di lunghe e noiosissime deposizioni. Tutto ciò avvenne tra Maggio 1776 ed il 27 Luglio 1777, a comparire furono Vito de Paola, Domenico Schiavina, Angela Andreotti tutti di Vallata ed Eusebio Pelosi di Trevico. Ma, ad un certo punto il procuratore dei Cirillo scrisse a Foggia ricusando il luogotenente Daniel Paglia perché troppo amico di Don Nunziante Pavese e quindi persona troppo sospetta. La Regia Dogana accolse l’invito e visto che ormai i testi avevano deposto, avocò tutti gli atti nuovamente a Foggia, perché il giudizio finale spettava comunque al Tribunale dei Locati. Fu mandato di nuovo a chiamare Giovanni Pepe di Vallata, procuratore di Donato Cirillo e l’avvocato De Dominicis gli chiese di mettere agli atti il seguito della storia che aveva fatto due anni prima e che sicuramente non aveva completato; questi fece scrivere che “la metà di quella polizza di cambio, Rocco Cirillo la pagò e la diede, senza un documento comprovante, direttamente nelle mani del Reverendo Padre, ma non si sa come alla fine risultò che c’erano da pagare ancora 81 ducati tra terze, interessi e more e furono attribuiti a Rocco, era il 1763, Donato divenne maggiorenne ed insieme a sua madre Elisabetta Schiavina fecero una nota promissoria sopra i loro beni, in particolare sopra l’orto con la grotta e la casa vicino all’Annunziata, ma quella cambiale fu presa da don Nunziante Pavese che, colludendo con il fratello sacerdote, finsero che furono inviate delle lettere in esecuzione del debito da parte del Tribunale della Nunziatura ed il Reverendo Padre apparve che pagò il debito di quegli inesistenti 221 ducati per mezzo di un falso atto del Notaio Michael Rosa, poi il Reverendo Padre, per mezzo del Notaio Martinez Novia passò la cessione del credito al fratello Don Nunziante che si riversò sui Cirillo, perché ora Donato era dotato”. Concludeva il Procuratore Pepe che adesso il presunto debito  era di 261 ducati perché 221 era il capitale, 40 erano le terze, in più c’erano gli interessi, ma in realtà c’erano solo quegli ottanta ducati che poi avrebbero essere dovuti esseri pagati a metà tra i due ex soci e mai Rocco Cirillo poteva immaginare di quello che gli sarebbe successo in seguito; poi il procuratore continuò dicendo che arrivò una “cartula neanche protocollata” e chiedeva la nullità del giudizio. Il 4 Giugno 1778 l’Avvocato De Dominicis, avendo delle legittimi suspicioni sulla validità degli atti esprimendo tutti i suoi dubbi, in un latino maccheronico ma abbastanza comprensibile, dichiarava la sospensiva dell’atto di rescissione del contratto, dichiarava nulli gli atti ed il processo nel suo complesso.
        Nella Dg. I b. 339 f. 12099 il notaio Andrea Sauro di Vallata, il 6 Aprile del 1776 venne a Foggia presso la Regia Dogana e presentò una richiesta al Presidente Ill.mo Signor Marchese Don Saverio Danza, Regio Consigliere nonché Presidente della Sommaria di Napoli, di poter sostenere gli esami per poter avere la Patente di Regio Agrimensore, avendo da vari anni esercitato “l’uffizio di compassatore nella corte locale di Vallata, Trevico, Andretta e Carife”. Il 26 Aprile venne fissata la prova dell’esame da compiere alla presenza dei due Regi Agrimensori nominati a tal scopo che furono Carlascenzio Inforgiati ed Angelo Recchia. Il giorno successivo, i due Regi Agrimensori, definendosi “umilissimi servitori” della Regia Dogana, comunicarono al Presidente:  “lo abbiamo esaminato  e lo abbiamo ritrovato idoneo e capace di fare la nostra professione, non solo per le misure e per le divisioni, ma anche per l’impegno degli interessi fiscali”. In quella stessa data del 27 Aprile il notaio Andrea Sauro chiese se gli potessero dare subito la patente, così avrebbe potuto portarla con se a Vallata ma, l’avvocato, De Dominicis, in qualità di “Patronum Fisci” scrisse, tramite il suo segretario Grimaldi, che avendo esaminato la relazione positiva dei due Regi Agrimensori, il notaio di Vallata doveva presentare una regolare e formale richiesta e che avrebbe dovuto aspettare il “Decreto di Nomina”, e soltanto allora avrebbe potuto avere la Patente. Infatti, il 29 Aprile comparve il Decreto del Presidente, Marchese Don Saverio Danza, che chiariva che: “Secondo le ultime disposizioni emanate dall’ Ill.mo Cardinal Granvela, in qualità di viceré del Regno, ed in virtù di quanto stabilito dal Collateral Consiglio e dalla Regia Camera della Sommaria, sotto pena pecuniaria di ducati mille, il nuovo Regio Agrimensore, Sauro Andrea, dovrà svolgere il suo uffizio, se chiamato da una delle due parti per un compenso di carlini 10 al giorno, ma se sarà chiamato dal Regio Fisco non gli verrà pagato nulla se il suo lavoro e le sue fatiche non supereranno i quattro giorni, dopo il 5° giorno, invece gli saranno dati 5 carlini al giorno, però, in compenso, potrà godere del Foro Privilegiato della Regia Dogana come un locato, sia per le cause civili che criminali “ ed inoltre il Presidente dispose che gli fossero dati “amplissimi privilegi ed ordinò a tutti i camerlenghi, ai Sindaci, agli eletti, a tutti i componenti le Unità Comunali ed a tutti gli uomini del Regno, che i Regi Agrimensori, vanno trattati come franchi ed immuni da pesi, gabelle, passi, piazze, scafe e da altri pagamenti”.

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