Vallata - brevi cenni storici -
Cap. V
Vallata Sacra.

      Le scienze sociali hanno avuto in questi ultimi anni in Italia un grande sviluppo, con conseguente rilancio dell'antropologia culturale, della cultura popolare, del folklore, delle tradizioni popolari, ecc.
      Anche in campo ecclesiale molti studiosi, dietro la spinta della sociologia religiosa francese, sviluppando una originale intuizione di D. Giuseppe De Luca, con accurata metodologia, si sono addentrati nella religiosità popolare, esaminandola sia sotto l'aspetto teologico, che in quello ecclesiologico e pastorale, per coglierne, sotto il velo delle sovrastrutture storiche, l'autentico volto.
      Il De Luca, al di là di un'antropologia puramente naturale, aveva concentrato la sua attenzione sull'uomo, con la sua vocazione al trascendente, nei suoi riflessi nel quotidiano. Con profonda sensibilità umana e con rigore scientifico, egli ha cercato di scandagliare l'uomo concreto, materia e spirito, con le sue esaltazioni ed i suoi dubbi, con i suoi gesti di altruismo ed i suoi ripiegamenti egoistici, con i suoi fardelli quotidani ed i suoi impulsi e slanci divini, penetrando così nel santuario della coscienza umana, dove l'uomo, in piena libertà, prega o maledice, adora o calpesta Dio. Ha scoperto in tal modo che quest'uomo, impastato di materia e di spirito, è capace di provare in sé "la presenza amata di Dio'', ed in particolare, ha cercato con la sua indagine di trasmettere a tutti la convinzione che l'anima italiana non è stata mai scettica, avendo sentito profondamente il lievito oltremondano del cristianesimo.
      Con un metodo rigorosamente critico-storico, per lunghi anni, superando l'orientamento psicologico e letterario dell'indagine religiosa Francese, guidata da Wilmart, De Guibert e soprattutto dall'Abbé Bremond, con cui ebbe una lunga corrispondenza, ha esaminato, decifrato qualsiasi testimonianza, orale o scritta, documentaria o tradizionale: un luogo sacro o una semplice edicola alpestre, una pittura o scultura, una canzoncina o una tradizione popolare. Ha potuto così riscoprire un Vangelo inscritto nel cuore del popolo, giunto a noi attraverso documenti, monumenti, tradizioni, canti, ecc.
      Il tema non poteva non appassionare ogni intelligenza onesta e leale: antropologi, storici, sociologi, se volevano comprendere l'uomo nella sua concretezza, non potevano ignorare "l'animo informato di pietà", realtà viva di ogni uomo, che scopre in se stesso presente Dio, "non in mero concetto e in puro sentimento, ma nell'amore" (De Luca = Introduzione alla Storia della pietà - Roma, 1962, pag. VIII e ss.).
      La ricerca tenace ed attenta del De Luca ci ha offerto 6 volumi de "L'Archivio Italiano per la Storia della pietà", che raccolgono, in pagine spaziose e luminose, testimonianze e studi su documenti relativi alla pietà, analizzati con passione e rigore scientifico.
      Del resto, autori come Pelser, Batllori, De Rosa, Prodi, Weiss, Guarnieri, solo per citarne alcuni, non scrivono per appagare la fantasia o la curiosità: traggono dall'oscurità documenti e testimonianze che, con i loro riferimenti al particolare, al concreto, al quotidiano, sollecitano a riflettere in qual modo ogni uomo, immerso nella vicenda mutevole del tempo, progredisca, più o meno consapevolmente, nell'amore di Dio, tanto da divenire egli stesso trasmettitore di una scintilla almeno di questo amore nel mondo.
      In tale prospettiva, ogni uomo, lasciandosi coinvolgere dalla parte migliore di sé, può contribuire, secondo l'intuito profetico di M. Pomilio, alla stesura di quel "Quinto Vangelo", forse mai scritto, ma che gli uomini continuano a scrivere nelle pieghe della propria vita, lungo il corso dei secoli.
      Con Ernesto De Martino abbiamo il recupero di una struttura unitaria di storiografia socio-religiosa, nella quale si supera l'idea di una cultura popolare intesa come mondo a sé, sviluppando una dialettica costruttiva tra culture egemoni e culture subalterne.
      Negli anni Sessanta, con Gabriele De Rosa, abbiamo una nuova e più significativa svolta: egli rivolge principalmente l'attenzione alla fede vissuta, ed, in prospettiva pastorale, ai vari tentativi della Chiesa post-Tridentina di sollecitare nel Sud una pratica di vita autenticamente cristiana.
      In questo sforzo di rinnovamento, la chiesa istituzionale, secondo il De Rosa, avrebbe incontrato nel Mezzogiorno due punti di "resistenza", come li chiamano alcuni, uno di carattere psicologico-culturale, e l'altro di carattere strutturale: il primo, costituito dalla realtà ecclesiale di base, condizionata da fattori storico-culturali, e impregnata dì un sincretismo magico-religioso, contro cui i vescovi dovranno a lungo lottare; il secondo, dato dall'esistenza nel Sud di un numero notevolissimo di "chiese ricettizie" a patronato laicale, e perciò fruenti dì autonomia, rispetto all'autorità vescovile. In tali chiese il clero, nativo o originario del luogo, partecipa alla massa comune dei beni ed esercita collegialmente la cura delle anime, pur delegandola di fatto ad uno o più membri di esso.
      Nel corso dell'assemblea annuale della Società Napoletana di Storia Patria, nel febbraio scorso, il Prof. Giuseppe Galasso, in un'ampia e documentata relazione, pur giudicando suggestive le ipotesi e le ricerche del Prof. De Rosa, ha giustamente sottolineato il pericolo di un uso di schemi semplificatoci, che finiscono per costringere la realtà dentro categorie rigide e riduttive.
      L'acume critico del nostro M. Rosa Professore di Storia Moderna all'Università di Pisa, in "Religione e Società nel Mezzogiorno" a pag. 148 aveva già evidenziato questo limite: 'V storia, questa di De Rosa, che privilegia il magistero e la gerarchia ecclesiastica, o meglio taluni suoi vertici, e che tralascia una più articolata e dialettica storia della Chiesa, per individuare come una sua non compromissione col governo civile e politico, identificato col regalismo borbonico, con il clero locale e con (quelle che De Rosa chiama) - le forze primitive e fantastiche di un mondo prelogico e sensitivo -".
      Si tratta di un errore di valutazione, purtroppo ancora frequente in ogni campo, di guardare con ottica "cittadina o verticistica" una realtà di base, considerata come terra di "conquista", di cui si coglie soltanto (o prevalentemente) l'aspetto di resistenza ad una certa azione "dall'alto", trascurando completamente l'aspetto dinamico delle forze provenienti "dal basso", rivelatrici di esigenze religiose diverse, ma non per questo meno valide.
      Anche la struttura ricettizia della Chiesa meridionale, con la sua caratterizzazione di "civicità" e di "autonomia", ha avuto un suo importante ruolo storico, nella vita socio-religiosa delle nostre popolazioni. E' verò che ha offerto una certa resistenza al movimento innovatore voluto dal Tridentino, (del resto, quale innovazione non incontra resistenza?), ma ha certamente seguito, pur tra remore paganeggianti e superstiziose, un suo movimento ascensionale di reinvenzione di una propria religiosità, più rispondente alle esigenze effettive della base.
      Ne danno testimonianza alcune importanti opere sociali e caritative, cui diedero vita proprio quelle comunità cristiane formate dal clero ricettizio che, nel contesto feudale di sfruttamento e di arretratezza, ricorse a tanti originali espedienti, atti ad animare dall'interno queste comunità:
      Canti popolari, di cui alcuni pregni di significato biblico-teologico, che non hanno nulla da invidiare alle nostre migliori sintesi teologiche; rappresentazioni sacre, drammatizzazioni, liturgie e paraliturgie, che attualizzavano il messaggio biblico-teologico, traducendolo in forme rispondenti alle esigenze effettive della gente di campagna;
      folklore e feste patronali, che costituivano un importante momento di incontro, di contatto e di socializzazione;
      santuari e chiese, che costituivano dei veri monumenti di fede e di arte, e dei centri vitali di comunità, di cultura e di formazione;
      semplici edicole e croci, innalzate nei luoghi più impensati, come richiamo continuo a fare della propria, sofferta storia, una storia di salvezza, ecc.
      Tutto questo immenso materiale, analizzato rigorosamente con quegli strumenti critico-interpretativi, che la scienza demologica attuale ci fornisce, può aiutarci ad attingere inesplorate profondità della vita religiosa delle nostre popolazioni. Anche una equilibrata sintesi delle intuizioni offerte dai vari studiosi può costituire un valido metro di valutazione, per una più obiettiva analisi dei diversi livelli di vita, azioni e reazioni, spinte e controspinte di carattere religioso.
      Una ricerca elaborata in tale prospettiva aiuterà veramente a riscoprire un Mezzogiorno inedito, che è stato sempre terra d'incontro e di convivenza di culture diverse, per essere stato nel corso dei secoli terra di scambi e di interessi culturali molteplici, da quella araba alla greco-ortodossa, alla bizantina, alla romana, alla normanna, alla francese, alla spagnola.
      Per la sua particolare posizione geografica, il Sud ha avuto una sua storia di sudditanza or all'uno, or all'altro conquistatore di turno, subendo un'oppressione politica, oltre che una sottomissione culturale.
      In questo plurisecolare contesto, cultura originaria e religiosità popolare rivestono il ruolo di una controcultura di liberazione, travagliata e sofferta, che germoglia nell'humus dell'anima popolare ed affonda le sue radici nel terreno della propria storia.
      Il cristiano meridionale, schiavo dello sfruttamento, dell'oppressione e della miseria, trova consolazione e riscatto nella fede viva, che scandisce tutta la sua vita familiare e sociale, nell'accettazione della sofferenza e nella contrastata lotta per il superamento, nel desiderio di speranza e di redenzione, in gesti quotidiani di donazione, di cordialità, di solidarietà e di fedeltà: gesti semplici, umili e genuini di una fede anch'essa vissuta in semplicità, che dà fondamento e significato alla vita stessa.
      E' qui la ricchezza della nostra religiosità popolare, guardata e giudicata con sospetto dall'esterno, da tanti freddi studiosi di "anotomia patologica religiosa", dal facile bisturi del pennino. Eppure, per tanti improvvisati chirurghi, basterebbe asportare quel velo di superstizione o di magia, che abbacina i loro occhi, per scoprire l'originalità di una fede autentica che diventa cultura, intesa quest'ultima come capacità di leggere in un dato modo gli avvenimenti della storia; cultura che diventa saggezza, ossia capacità di incidere nella storia e di costruirla, pur tra tante difficoltà, con la fatica delle proprie mani.
      Dobbiamo essere soprattutto noi meridionali a farci carico della cultura e della religiosità popolare, (da noi stessi acriticamente rifiutate in un recente passato) ed a creare autentiche comunità, che siano luogo e strumento di mediazione tra la ricchezza umana e cristiana dei nostri avi e la creatività feconda delle nuove generazioni.
      Si tratta di riscoprire la positività di certe espressioni popolari tradizionali, liberandole di quanto ci può essere in esse di superstizioso e di pagano, e reinventando, in continuità tra passato e presente, tutto ciò che di valido c'è nel bagaglio delle nostre tradizioni meridionali.
      Pertanto, non si tratta solo di accettare la continuità storica, ma di assumerla, per dare un fondamento ed un'anima alla nostra creatività, che ci porti a reinventare continuamente cultura e religiosità.
      Di qui l'esigenza di cercare nella nostra stessa storia le fonti della cultura e della religiosità popolare, perché il popolo possa riappropriarsi dell'una e dell'altra: bisogna ritornare a popolarizzare la cultura ed a culturizzare il popolo; come, nel campo religioso, bisogna ritornare a popolarizzare il Vangelo e ad evangelizzare il popolo.
      Il modo per realizzare un'autentica promozione umano-cristiana della nostra gente è fare comunità, fare popolo, attraverso la riscoperta di tanti valori umani e cristiani, validi ancora oggi, che costituiscono la vera ricchezza delle nostre popolazioni.
      Dei valori culturali già abbiamo parlato in precedenza; in questo capitolo ci soffermeremo sull'aspetto religioso, tenendo presente che l'attuale recupero della religiosità popolare va operato non in termini solo di riti e simboli, gestualità singole o collettive, ma soprattutto in termini di valori spirituali profondi: Dio sofferente e solidale, Dio provvidenza, Dio speranza e giustizia liberatrice, senso di comunitarietà e di condivisione...
      In tale prospettiva, nel solco additato anche dalla esortazione "Evangelii Nuntiandi" onde evitare ogni pericolo di deviazione, cercheremo di cogliere da questa realtà, così ricca ed insieme così vulnerabile, "le sue dimensioni interiori ed i suoi valori innegabili... giacché, ben orientata, questa religiosità popolare, può essere sempre più per le nostre popolazioni, un vero incontro con Dio in G.C." (N. 48).
      Ciò premesso, ci disponiamo ad esaminare una serie di documenti, finora inediti, che, pur nella loro loro aridità anagrafica, si rivelano quanto mai utili per la nostra ricerca.
      Cominciamo con l'esame di alcune "Relationes ad limina", che da alcuni anni hanno lasciato finalmente la "segretezza" dell'Archivio Vaticano, per essere materia di analisi da parte di studiosi. Erano queste delle relazioni, introdotte da Papa Sisto V con la costituzione Romanus Pontifex del 20/12/1585, che periodicamente i Vescovi presentavano al Papa, in occasione delle loro visite "ad limina", perché la Congregazione del Concilio fosse continuamente informata della situazione generale delle Diocesi.
      Le relazioni che riguardano V., pur nella loro schematicità, ci offrono utili elementi di valutazione della vita socio-religiosa della nostra Parrocchia, dedicata a S. Bartolomeo Ap.

* * *


      La prima relazione di cui siamo in possesso è del 1595, ad appena dieci anni dalla disposizione di Sisto V, che riproduciamo nel testo originale latino (Archivio Segreto Vaticano - Rationes ad Limina - S. Angeli Lombardorum. I^ Cartella, coll. 47 r. e v.).
      Ne diamo la traduzione:
      Nella terra di V. c'è una grande chiesa madre, sotto il titolo di S. Bartolomeo Ap., alla cui cura si provvede per mezzo di quindici sacerdoti, riuniti sotto l'ubbidienza all'arciprete, che costituiscono il capitolo o collegio, e collaborano con semplice funzione di vigilanza nelle cose sacre, ed alle loro necessità mediante gli introiti delle decime e di altre elemosine, messi sotto il nome del capitolo in massa comune. L'elezione dell'arciprete si sa che spetta all'Ill/mo Signore di detta Terra.
      Presso le mura del paese c'è una chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie molto venerata, che è insignita della dignità primiceriale, il cui assetto completo spetta al Vescovo.


      Vi sono ancora in paese due sodalizi laicali, uno in onore dello Spirito Santo e l'altro in onore del SS. Sacramento, con massima devozione e adesione sia di uomini che di donne, per cui si verifica che le entrate delle stesse siano di una certa consistenza, redatte annualmente in resoconti da esaminare. Si è presa visione. A detti sodalizi è annesso un ospedale abbastanza comodo, nel quale si provvede con grande carità alle necessità sia dei pellegrini che dei più poveri, bisognosi di ogni cosa.
      In detta Terra, i canonici della Metropolitana di Benevento posseggono un semplice beneficio, unito in perpetuo al loro Capitolo, sotto il titolo di S. Giorgio, che rende venti ducati annui.
      Ci sono poi, sia dentro che fuori le mura, alcuni semplici benefici di quasi nessun valore, gestiti dai legittimi possessori, i quali, secondo i loro impegni e nostre particolari disposizioni, non mancano di far celebrare sante Messe e di attenersi ad altre funzioni sacre gravanti su di loro.

      Questo primo testo ci offre già un quadro abbastanza chiaro del livello di organizzazione della Parrocchia, vero centro di vita religiosa e sociale. La nostra ricettizia aveva ben quindici sacerdoti, con a capo l'Arciprete, al cui sostentamento provvedeva tutta la comunità cristiana, col pagamento di decime e con offerte varie riunite in massa comune. L'Arciprete, designato dal Signore del paese, era delegato dal clero alla cura delle anime, dopo l'insediamento da parte del Vescovo; il clero conservava il ruolo di vigilanza e di collaborazione. Altri Sacerdoti curavano le cappellanie.
      Le associazioni laicali, cui con grande fervore partecipavano uomini e donne, non avevano soltanto lo scopo di incrementare il culto, ma si preoccupavano di soddisfare "con grande carità" i bisogni sociali più immediati, provvedendo ad un "abbastanza comodo ospedale" per pellegrini e poveri. C'era quindi una religione che animava dall'interno la vita (con le espressioni fondamentali di fede in Cristo, nello Spirito Santo, e di devozione alla Madonna), ed una vita che rendeva credibile la fede.
      A conferma di questa significativa azione sociale svolta dalla comunità vallatele e dal clero, a pag. 36 del R.D.IV, troviamo una notizia quanto mai interessante: "Ciriaco Fucino de' Casali di Sirino è morto all'ospedale di questa Terra di Vallata ai 9 8bre 1745, il quale si nomò ferraio; luegato (= legato): un paio di scarpe, una camisciola rossa ed un calzone, li quali se li lasciò per messe in suffragio dell'Anima sua". Un vero gioiello di legato! L'assistenza religiosa ai malati dell'ospedale era affidata allo Arciprete e ad altri Sacerdoti (cfr. R.D. III, 65 e ss.).
      Il particolare poi dei canonici della Metropolitana di Benevento, che possedevano in V. il povero beneficio di S. Giorgio, conferma quanto abbiamo detto in precedenza, circa la permuta di questo beneficio con S. Maria dei Viveri in Boiano, avvenuta tra i Verginiani ed il monastero di S. Lupo in Benevento: si vede che successivamente il beneficio passò dal detto monastero ai canonici di quella città.
      Quanto è detto alla fine della relazione circa le varie cappellanie, evidenzia la disponibilità da parte dei legittimi possessori ad assumersi impegni vari di SS. Messe da far celebrare, di novene, di processioni, ecc. in conformità alle tradizioni locali ed alle disposizioni dei Vescovi.

      Passiamo adesso ad esaminare la relazione del 1605.
      A V. c'è la chiesa sotto il titolo di S. Bartolomeo, a cui sono addetti quindici sacerdoti e l'Arciprete che ha la cura delle anime; l'Arciprete però, sebbene da molto tempo sia stato investito, dietro regolare presentazione, non ancora è entrato in possesso del beneficio parrocchiale del medesimo luogo, per un esposto dello stesso Rev/mo predecessore, e tuttora la controversia su di esso è in corso presso la Sacra Rota.
      Vengono svolti i vari esercizi di pietà; vi sono quattro pii sodalizi: in onore SS. Sacramento, dello Spirito Santo, del SS. Rosario e della Madonna di Monserrato; le rendite sono usate per i bisogni delle stesse confraternite e per i bisogni dei più poveri; ogni anno si fa il regolare resoconto alla presenza del Vescovo, come si fa anche per le rendite dell'ospedale. Poco distante dal paese c'è una chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, con poche rendite, unità al primiceriato della stessa chiesa madre; vi sono anche alcuni altri benefici ecclesiastici di valore insignificante, che si possiedono legittimamente.
      Questa relazione accenna ad una controversia in corso presso la S. Rota, per il possesso del beneficio parrocchiale tra l'Arcip. Di Donato (designato dal Signore di V., che all'epoca era Francesco Del Tufo, ed investito dal Vescovo), ed il suo predecessore, che probabilmente era stato rimosso. Nella relazione del 1614, questa lite risulterà ancora pendente.
      Vi si riscontra pure una rifioritura di sodalizi: ai due precedenti si aggiungono altri due dedicati al Rosario ed alla Madonna di Monserrato (in quest'ultimo è evidente l'influsso spagnuolo), le cui rendite sono utilizzate per i bisogni delle confraternite e dei più poveri, con annuale resoconto alla presenza del Vescovo, come per le rendite dell'ospedale: l'amministrazione di questi beni, a scopo sociale, avveniva con regolarità e precisione.

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