SCRITTI VARI - Tommaso Mario Pavese - Patriottici e politici.

Patriottici e politici.

        XX Settembre. *I precursori. — Signori, si festeggiò l'anno scorso il cinquantenario del Regno d'Italia ; ma, cinquant'anni fa, Roma non era ancora con l'Italia una. Sono quarantadue anni soltanto da che l'Italia, libera tutta, e tutta unita in uno Stato solo, appartiene non più a diversi principi, ma agl'Italiani retti da Casa Savoia. L'unità e la libertà d'Italia intera però non fu soltanto da quarantadue anni desiderata e voluta, ma è frutto di sentimenti e di necessità secolari: la pensarono i politici, l'affermarono i guerrieri per lei caduti, la profetarono i poeti, fu desiderio e speranza infine delle generazioni che ebbero la fortuna di effettuarla. Politici e poeti testimoniano concordemente che sempre fu pensato e sperato di ridurre in libertà l'Italia, e darle ordinamento federativo od unitario; ed insieme fu desiderato che, tolta via la confusione delle due potestà, temporale e spirituale, nella persona del pontefice, Roma fosse francata dal dominio sacerdotale. Dal secolo decimoquarto al decimonono codeste speranze e codesti concetti hanno solo cambiato di nome e di forme, a seconda delle variabili condizioni de' tempi, ma nell'essenza loro sono rimasti immutati. Un liberatore di Roma e d'Italia fu invocato e desiderato dai padri più antichi a gli ultimi pronipoti. A salute dell'umile Italia, Dante augurava il “veltro„ ; Machiavelli un “ redentore„ , che doveva francarla dalle crudeltà ed insolenze barbare ; G. B. Nicolini bramava un di re possente „ che avesse avuto per scettro la spada e per corona l'elmo ; mentre a Giuseppe Giusti, scherzoso scrittore di serie cose, bastava un “uomo purchessia fuorchè poltrone„ . Fu sperato quindi in qualche magnanimo imperatore come Arrigo VII; in qualche fortunato condottiero come Uguccione della Faggiuola o Cane della Scala ; in uno “sparto gentil „ come Cola da Rienzi ; e perfino in qualche papa come Giulio II, che aveva proposto di liberare l'Italia dai barbari ; e fu sperato anche in Leone X, in papa Paolo IV, e finalmente in Pio IX stesso che, in un momento forse di sincero entusiasmo, aveva lanciato il grido fatidico : Gran Dio, benedici l'Italia.
        Benchè varie volte deluse, le speranze erano sempre sopravvissute ; ed il nome santo d' Italia, gridato nel secolo XIV da Dante Alighieri e da Francesco Petrarca, “Italia mia„ trova, con accenti di rampogna o di affetto, un'eco per tutti i secoli seguenti nelle rime de' poeti, che piangono le sventure della patria, di cui o rimproverano gli errori, o la incuorano ai magnanimi fatti. Riecheggia il nome d'Italia sulle labbra di Giovanni Guidiccioni, di Giambattista Marini, di Tommaso Campanella, di Vincenzo da Filicaia, di Alessandro Marchetta, ed infine dai canti di Giacomo Leopardi, grande quanto infelice, passa a quelli di Alessandro Manzoni, che desidera l'italica gente

        “Una d'armi, di lingua, d'altare,
        Di memorie, di sangue, di cor „ ;

        nè era destinato a spegnersi ancora, perchè poi a Roma ed all'Italia s'ispireranno pure ardentemente due vati odierni, Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli, come pure ogni altro poeta di eletto sentimento. Ma ai poeti è permesso sperare e sognare; non così ai politici, che debbono prendere per mira unica e salda fatti concreti, precisi, seri. Mal perciò si apposero coloro che, atteggiandosi a propugnatori di un nuovo Stato italiano, credettero che di tal nuovo Stato avesse potuto essere iniziatore e fondatore un pontefice. Tra costoro fu il Gioberti. Invece, oltre a tener conto che ai preti non si addiceva la guerra per cacciar i barbari e gli stranieri, e che non avevano i mezzi per far ciò ; oltre al tener conto che il potere spirituale ed il temporale non si conciliano bene insieme, per espresso divieto, quasi, del fondatore stesso della Chiesa, Gesù Cristo: doveva pure considerarsi che se i papi, come Giulio II e Leone X, propugnarono talvolta la cacciata de' barbari o de' principi stranieri, fu, non solo per amor di patria, ma anche per cupidigia di estendere in tal modo il loro regno. All' illusione che dal Vaticano avesse potuto partire la libertà d' Italia non doveva prestarsi fede; perchè furono i pontefici, per tradizione politica, contraria ai principii di libertà e di progresso, almeno per regola generale. E che sia, com' è infatti , così , ditelo voi che, in tempi antichi e recenti, aveste ad affrontare il rogo ed il martirio, perchè non vi si volle riconoscere neppure una libertà, non di azione, ma almeno soltanto di pensiero. Ditelo voi , Huss, Wicleff e tu Giordano Bruno, che non foste distrutti per intero dal rabbioso rogo papale, ma che sopravvivete, anime radianti, con le vostre dottrine, alle ceneri che vi avvolsero e che furono tramandate, splendide faville, all'avvenire, insieme con quelle del Savonarola e del Vanini; dillo tu Paolo Sarpi, spento dalla punta di pugnali settaria; tu Tommaso Campanella, tu Galileo Galilea, che sentisti i morsi della tortura, per aver affermato la grande verità che “eppur si muove„ ; ditelo voi Albigesi, Arnaldo da Brescia, e voi martiri dell'Inquisizione, straziati perchè non vi si volle accordare una benchè minima libertà di coscienza.
        Avarizia, regresso, lussuria, ambizione, nepotismo furono le tradizioni plurisecolari della Chiesa: ciò spiega la giusta ira di pensatori e di scrittori contro di lei. Nella Divina Commedia sono molte invettive contro preti, cardinali e papi, relegati dal grande poeta spesso perfino nell'inferno; ma andrei molto per le lunghe, se volessi anche solo accennarle. La musa del Petrarca contro la corte papale lanciava, fra l'altro, tre famosi e sdegnosi sonetti, vituperandola perchè

       “Nido di tradimenti, in cui si cova
       Quanto mal per lo mondo oggi si spande:
       Di vin serva, di letti e di vivande,
       In cui lussuria fa l'ultima prova. „

        E poi:

       “L'avara Babilonia ha colmo il sacco
       D'ira di Dio e di vizi empi e rei
       Tanto che scoppia, ed ha fatto suoi dèi
       Non Giove e Palla, ma Venere e Bacco. „

        E poi ancora la deplora così:

       “Fontana di dolore, albergo d'ira,
       Scola d'errori e tempio d'eresia,
       Già Roma, or Babilonia falsa e ria,
       Per cui tanto si piange e si sospira
       O fucina d'inganni, o pregion d' ira
       Ove il ben more e il mal si nutre e cria,
       Di vivi inferno ; un gran miracol fia,
       Se Cristo teco al fine non s'adira.„

        La novella spigliata e gioconda di mescer Giovanni Boccaccio, vituperandoli, derideva preti e cardinali, monaci e vescovi, lussuriosi, avari, ipocriti, ingannatori in modo che un tale si convertì pensando che se, nonostante così gravi vizi de' suoi ministri, la Chiesa si reggeva e viveva ancora, voleva ciò dire che essa viveva e si reggeva solo perchè doveva esistere veramente una potenza divina che l'aiutava e la proteggeva. Poeti e prosatori si seguirono poi sempre concordi nel deplorare i vizi della Chiesa, finchè si giunge, fra gli altri, a Giosuè Carducci che, contro Pio IX, lancia l'epodo fiero, imprecante così :

       "Te ch'oro e ferro e bronzo mendicando
       Te ne vai per la terra,
       Che gridi contro a la tua patria il bando
       De l'universa guerra ;

       Te che il lor sangue chiedi con parole
       Soavi ai fidi tuoi,
       Ed il sangue di chi re non ti vuole
       Ferocemente vuoi ;

       Te da la pietà che piange e prega,
       Te da l'amor che liete
       Le creature ne la vita lega,
       Io scomunico, o prete ;

       Te pontefice fosco del mistero,
       Vate di lutti e d'ire,
       Io sacerdote de l'augusto vero,
       Vate de l'avvenire.,,

        Furono questi scrittori nostri e stranieri; furono la filosofia e le scienze che, squarciando man man i veli del mistero, fecero intravedere di pari passo retrocedente la divinità; furono i ricordati martiri Albigesi, dell'Inquisizione, della notte di San Bartolomeo , gli Ugonotti; le dottrine di Arnaldo da Brescia, Wicleff, Huss, Savonarola, Zwinglio, Lutero, Calvino, Vanini, Sarpi, Bruno, Campanella, Galilei, e di tanti altri scienziati e filosofi più moderni; fosti tu che , con altri eroi , per la repubblica del 1849

       “. . . . . cadevi, o Mameli,
       Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli,
       Tra un inno e una battaglia cadevi ; e come un fior.
       Ti rideva da l'anima la fede, allor che il bello
       E biondo capo languido chinavi, e te, fratello,
       Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color,, .

        furono ancora altri martiri di varie rivoluzioni contro l'esoso Stato pontificio, ed ultimi per tempo, non per eroismo, quelli di Villa Gloria e di Mentana; furono tutti costoro, poeti e pensatori, martiri e guerrieri, di ogni casta sociale , tutti entusiasmati, ardenti, palpitanti per una stessa sublime idealità, che prepararono, moltissimi o pochissimi anni prima, i fati, le tendenze, i fremiti che condussero alla gloriosa giornata del 20 settembre 1870.

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* La Questione Romana formerà oggetto di altro mio studio, che pubblicherò a parte. Anche questo mio discorso, tenuto a Bisaccia nel settembre del 1912, quando ero scettico, serve, più che altro, a documentare quale evoluzione abbia successivamente subito il mio pensiero, riguardo al cattolicismo. È naturale che varie notizie di questo discorso siano state ricavate da libri.

        I precedenti di guerra. — Alcune rivoluzioni già erano avvenute , per abbattere il potere temporale de' papi; ma Aspromonte, Villa Gloria e specialmente Mentana erano state le forze più valide, che già avevano virtualmente sfondate le porte di Roma : perchè l'Eroe de' due Mondi e Giuseppe Mazzini avevano infiammati gli spiriti degli Italiani, ed avevano diffuso negli animi la brama ardente di veder liberata l'eterna città. Vada quindi il nostro ricordo alla giornata di Villa Gloria ed al primo tra gli eroi di Aspromonte e di Mentana, perchè Villa Gloria e Mentana furono battaglie assai più epiche che non la facile breccia di Porta Pia.

       “O Villagloria, da Crèmera, quando
       La luna i colli ammanta,
       A te vengono i Fabi, ed ammirando
       Parlan dei tuoi settanta. „

        Vi sono sconfitte che onorano chi le tocca; sconfitte che riescono proficue quanto le più luminose vittorie. È onore essere stati in poco più di 2000 contro 20000, aver combattuto laceri, scalzi, senza munizioni, con varia fortuna per sei ore di seguito. E non è poco aver preparato l'allegra giornata del 1870, aver aperto le porte di Roma. A Mentana si svolse un'epopea: il più grande capitano del secolo, nel momento solenne, apparve sventurato e grande come un eroe di Sofocle o d'Eschilo ; in ira a gli dei, in lotta col fato. Donde derivò la catastrofe ? I garibaldini partono vincitori da Monterotondo. A mezza strada da Mentana, silenzio, solitudine, presagio d'imboscate. Si- scorge poi il nemico, che ingrossa , che è ben situato ad offesa. Il grosso dei nostri non è ancor giunto; i nostri due soli cannoni non sono ancora collocati in posizione per bersagliare il nemico. È intanto un fuoco d'inferno. Son pochi ed in marcia contro forze preponderanti ! È il momento opportuno per andare alla baionetta: un grido, un urlo, un torrente che straripa. Urrà ! Le file nemiche si sbaragliano, i reggimenti papalini si sfondano, e si vede lontano il loro generale fuggire a spron battuto, fra uno stuolo di cavalieri. Urrà ! Ecco un'altra vittoria per le povere camicie rosse. — Ma che gente è lassù , su quelle colline, che si avanza ? Compagni forse ? No : vengono or- Minati e guardinghi ; si riconoscono ai pantaloni rossi per i soldati imperiali di Francia, e vengono in aiuto del Papa , ed accennano a dilagare alle spalle del piccolo esercito. Ed i garibaldini non hanno forze fresche da opporre ai nuovi venuti; non una compagnia di riserva è pervenuta fino alle prime case di Mentana ; nessuno ! E l'esercito imperiale di Francia, intanto, sì avanza; i loro fucili fanno strage, ed ai nostri mancano le munizioni; ma bisogna pure andar contro le nuove schiere irrompenti. Il terreno è conteso a palmo a palmo, seminato di morti; ed il nemico irrompe, non a baionetta spianata, ma con quadriglie procedenti in saldo ordine ed intese a far colpo su colpo. Dove non è Garibaldi ? dove non fiammeggia la sua clamide , dove non tuona la sua voce ? 1 francesi vogliono giunger primi su Monterotondo; mai nostri in piena dirotta ne afferrano essi l'erta. Ed ecco uno scalpito di zampe ferrate dalla piazza ; un rumore di passi affrettati alla svolta ; soldati freschi finalmente ; sono due sole compagnie nostre. Garibaldi è subito innanzi a loro, fiammeggiante cavaliere, nella luce sanguigna del tramonto. Ritto in arcione, battendo a colpi ripetuti il cavallo, guida alla carica quel rimasuglio di esercito; vuole la riscossa ; vuole arrestare ad ogni costo un nemico fatto insolente dalla fortuna. E percuote il cavallo, e grida con voce vibrata, le cui inflessioni fanno soavemente e terribilmente fremere i suoi : “Venite a morire con me ! Venite a morire con me i Avete paura di venire a morire con me ? „ . Ferma era l'intonazione ed accennante un disperato proposito. Veder Garibaldi che andava alla morte! Veder Roma perduta e perduto lui nelle file nemiche ! E tutti allora i reduci sfiniti, i cadenti spettatori della scena terribile, tutti a riprender le forze; e tutti, con un grido disperato : " Con voi, Generale, con voi ; viva l'Italia ! „ Così irrompono i nostri ; ed un fuoco vivo li accoglie ; ma invano. Garibaldi primo, tutti dietro a lui ed ai fianchi del suo cavallo , che pare intendere ogni cosa , e galoppa feroce. Urrà ! Si può aver perduto una battaglia, ma quella carica della disperazione basta alla gloria de' vinti. Indietreggiarono le squadre nemiche irrompenti ; e per quella sera, per tutta la notte, non si accostarono a Monterotondo, non ardirono penetrare in Mentana, ove pochi valorosi, scendenti a raccolta dalle circostanti colline, sarebbero forse morti alle prime difese, se non avessero potuto altrimenti resistere. Così, intanto, Roma era perduta, allora ; ma l' idea che la città eterna divenisse la capitale del nuovo regno d'Italia cominciava a diventare altresì una splendida realtà. Se i garibaldini non giunsero allora sul Campidoglio, avevano però dato già un potente crollo al potere temporale del papa ; avevano slanciato le anime di tutti gl'Italiani, vivide faville, in un sublime desiderio di speranze e di amore per attingere, trionfando, i sette colli. Così, in ogni gran fatto della moderna storia nostra, ovunque sete di libertà aleggi, sei tu ivi, primo, o Garibaldi! Tu accendevi allora gli animi alla riscossa : tu li hai accesi, col tuo immortale esempio adesso , quando i nostri soldati han "piantato le prime insegne vittoriose sulle arene libiche, ed i loro condottieri li hanno battezzati, vincitori, nel tuo nome, garibaldini del mare ! Salve, o Garibaldi ; è in te la bontà pari al coraggio. Tu, che ti levi la notte d' inverno dal letto , al rigor della tramontana, udendo belar tra le rupi della tua Caprera un'agnelletta gemente, dispersa ed abbandonata, e ti levi per ospitarla nella medesima tua stanza; tu che doni, come se fosse un mazzolin di fiori, il regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II, e, torni al lavoro della tua isola solo con un sacco di sementi; tu che ti fermi a mezzo della marcia vittoriosa per ascoltare il canto d'un usignuolo innamorato; tu che ferito ad Aspromonte, da soldati italiani, comandi invece ai tuoi di non far fuoco sui fratelli; che salvi la vita ad un prode irrompente solo contro i tuoi guerrieri, dicendo: Soldati, salvate la vita a quel bravo ; ah ! tu così buono, tu che hai fatto quasi rivivere la bontà di Cristo sulla terra ; ah ! sei tu quel medesimo che, in America ed in Francia, al Trentino ed al Volturno, a Mentana ed al Rio Grande ed a Palermo, ti slanci come leone tra le file nemiche. Salve ! Se Cristo fu buono, tu sei coraggioso e buono ; se Alessandro Magno, Cesare, Annibale e Napoleone furono, più che altro, saggi condottieri di eserciti, tu, oltre al saper saggiamente preparare la vittoria , hai la virtù del coraggio, a quasi tutti costoro ignota presso a poco come la virtù della bontà. Salve, cavaliere sublime dell'ideale, fiamma degli spiriti ! È questo il segreto dell'entusiasmo che tu hai sempre destato ; è questo il motivo unico perchè sei chiamato e sognato rivendicatore di ogni più eccelsa idea. Gloria a te, sempre il primo ad assalire, sempre l'ultimo a cedere; sempre il più forte nella sventura, sempre il più mite nella vittoria ; sempre grande egualmente nell'ira e nell'amore, nella oscurità e nella potenza, nel trionfo e nella morte. Gloria a te, tribuno infaticato di tutti i popoli, cavaliere generoso di tutte le patrie, amore e vanto del sangue tuo e della razza umana!

        I precedenti politici. — Dopo Mentana, il generale De Failly , che aveva guidato i francesi, scrisse ai suoi ministri che gli chassepots, i loro fucili, avevano fatto meraviglie, in quell'occasione. Il valore — perfino secondo lo stesso generale —fu dunque dei fucili, non dei soldati franchi: ma l'alba nuova di Roma, nondimeno, già spuntava. Or dopo aver considerato gli eventi che militarmente prepararono la conquista resa, così, facile di Roma, consideriamo anche le trattative che politicamente prepararono l'entrata di Porta Pia. Camillo di Cavour, con la sua fine perspicacia, aveva già saputo così bene disporre le trattative diplomatiche, che le potenze europee, dapprima ostili, riconobbero poi in breve la proclamazione del regno d' Italia. Nello stesso tempo il sommo statista mirava al possesso di Roma, ben comprendendo che l'unità d'Italia non avrebbe potuto giammai dirsi compiuta, finchè durasse il dominio temporale dei papi. Aveva proposto a Pio IX trattative amichevoli di vario genere, che avevano per fondamento il principio libera Chiesa in libero Stato; nel quale si comprendeva piena libertà di predicazione e d'insegnamento, libera elezione dei vescovi per parte della Chiesa; intangibilità del patrimonio ecclesiastico; illimitata libertà al Santo Padre nell'esercizio della sua autorità spirituale; assegnamento di un lauto patrimonio alla santa Sede, purchè facesse completa rinunzia al potere temporale. Tali trattative furono respinte. Ma Cavour, interpellato su ciò che il Governo pensasse della questione romana, pronunziava il 25 marzo 1861 uno splendido discorso, in cui, fra l'altre cose , affermava: " La stella polare d'Italia deve essere Roma. Bisogna che la città eterna, su cui si accumulano 25 secoli di glorie, diventi la capitale d'Italia. Bisogna che noi andiamo a Roma, ma senza che l'indipendenza del sovrano Pontefice sia diminuita; senza che l'autorità civile estenda il suo potere sul dominio dell'ordine spirituale. „ Riprese le trattative col ministero Minghetti, i Ministri succedutisi poi furono incerti e titubanti circa la Questione Romana, specialmente perchè la politica dei tempi così richiedeva. Il governo italiano era inoltre vincolato dalla convenzione conchiusa il 15 settembre 1864 con la Francia, con cui si obbligava di non assalire, anzi di impedire ogni assalto al territorio del Papa. Fu appunto in quel periodo di tempo, che non ristava, nè tentennava Garibaldi, il ferito di Aspromonte, che aveva ancora impresso nel cuore il grido Roma o morte; fu in quel tempo che un'altra insurrezione di cittadini romani veniva facilmente repressa, mentre uno stuolo di settantotto giovani guidati da Enrico e Giovanni Cairoti combattevano, uno contro, dieci, ed in gran parte perivano od erario fatti prigionieri a Villa Gloria; fu in quel tempo che il Generale si apprestò a muovere su Monterotondo, ove vinse i papalini, e poi su Mentana, ove fu sconfitto, per merito più dei fucili che dei soldati di Francia. Ma costoro dovettero essere ben presto richiamati al primo ingaggiarsi della guerra franco - prussiana, la quale doveva menare alla tremenda sconfitta dei francesi a Sédan; ed allora — spinto ad uscire dall'incertezza per mezzo dell'opinione pubblica, la quale lasciava intravedere un gran numero di cittadini disposti alla sommossa per l'inerzia e la titubanza del Governo nel risolvere la questione romana —, questo finalmente notificava il 7 settembre 1870 a tutti gli Stati europei la sua ferma intenzione di unire Roma all'Italia, dichiarando in pari tempo le guarentigie che il Regno avrebbe offerto al papa. Le potenze europee a tale dichiarazione, o si disinteressarono della vertenza, o si mostrarono convinte dell'idea che fosse giunto per l'Italia il momento di coronare le proprie aspirazioni nazionali. Tuttavia il re Vittorio, nei suoi sentimenti di cattolico, volle sperimentare un'ultima volta la via pacifica, il 9 settembre, mandando a Roma il conte Ponza di San Martino con una lettera autografa pel pontefice, nella quale, facendo appello alla grandezza dell'animo suo, ai suoi sentimenti d'italiano, tentava d'indurlo ad accettare quei patti che tante volte gli erano stati offerti. Com'era da prevedersi, il papa finì per dire che erano inutili tante insistenze, e che la santa Sede non poteva rinunzia- Te ad alcuno dei suoi diritti.

        Il XX settembre. — Allora il giorno 11 settembre si ordinò al generale Cadorna di occupare lo Stato della Chiesa, tagliando fuori di Roma tutte le forze papaline disseminate per le provincie, affinché più rapida fosse l' occupazione della capitale e minore l'effusione del sangue. Il Cadorna occupò alcune città quasi senza colpo ferire ed accolto con liete dimostrazioni; ed il 15 settembre si accampò a 12 km. da Roma. Contemporaneamente il Bixio occupava Civitavecchia; poi, congiunte le sue truppe con quelle del comandante in capo, bloccava la città. E siamo alla splendida giornata del 20 settembre. Dirigeva l'azione il generale Cadorna; e vari battaglioni di fanteria e di bersaglieri, guidati principalmente dal Mazè e dal Cosenz, e le artiglierie dirette da Luìgi Pelloux, quello stesso che fu presidente del Consiglio dei Ministri nel 1900, aprirono il fuoco alle 5 ¼ del mattino. I tiri di fucileria nemica erano più vivi dinanzi a Porta Pia, e molestavano specialmente l'artiglieria Mazè e quella di posizione. Ma un battaglione di bersaglieri, benché accolto da vivissimo fuoco, ne sloggiava ben presto il nemico, obbligandolo a ritirarsi per Porta Pia dentro la cinta della cìttà. D'altra parte, il generale Cosenz, avendo osservato che i papalini prendevano di mira altri artiglieri, ordinò a buoni tiratori di avanzarsi fin presso le mura e di aprire il fuoco contro il nemico. Il Cadorna così apriva il fuoco tra Porta Pia e Porta Salara; Angioletti investiva Porta San Giovanni, e Bixio, il garibaldino che aveva fatto capitolare Civitavecchia il 16 settembre, assaliva Porta San Pancrazio. Intanto, così, l'artiglieria nostra potè continuare con molto successo l'opera sua ed, in poche ore, tra Porta Salara e Porta Pia; aveva aperto una breccia della larghezza di 30 metri. I tiri nemici però, da Castro Pretorio e dal monte Pincio, continuavano sempre vivacissimi, molestando i nostri che, con varie sezioni di artiglieria, con vari battaglioni di fanteria e di bersaglieri avanzavano sempre verso i punti che volevano, occupare, facendo retrocedere i papalini. Ma già, verso le 9 ½ antimeridiane, il trinceramento che ostruiva la Porta, Pia era sconvolto, i suoi difensori se ne erano allontanati, scompigliati dal fuoco ben diretto delle nostre artiglierie; ed il Cadorna, non volendo dar tempo a costoro di riaversi, fece innalzare sulla torre di villa Patrizi la bandiera che, secondo il convenuto, doveva essere il segnale per sospendere il fuoco d'artiglieria, ed ordinò di spingere senz'altro le colonne all'attacco. Tutti erano persuasi dell' idea che in quel giorno la città eterna , l'antica regina del mondo conosciuto, la Roma de' Cesari e de' Pontefici, la Roma repubblicana del 1849 sarebbe divenuta italiana, la capitale del nuovo Regno ; tutti intuivano che, passato quel vecchio muro dalla breccia ormai squarciato, era compiuta l'unità della patria. Sboccando, da villa Patrizi, il 39° fanteria si gettò cori ammirevole slancio all' assalto di Porta Pia, nel mentre che il 35° bersaglieri, dalla villa stessa, lo proteggeva , raddoppiando il fuoco contro il nemico ; e, benchè questo desse ai suoi tiri la massima intensità, pure le difese della porta erano in breve tempo superate. Le divisioni Mazè e Cosenz , attraversate varie difficoltà, si slanciarono risolutamente sulla breccia, che subito fu anch'essa superata. Ma in quel momento il 34° bersaglieri perdeva il suo comandante, il maggiore cavalier Pagliari , colpito da una palla , mentre montava all' assalto in testa A, suo battaglione. Sboccate in città le nostre truppe da Porta Pia e dalla breccia, non rimaneva al nemico la possibilità di ulteriormente resistere, nulla avendo esso fatto per preparare la difesa nell'interno della città. Per tal motivo i difensori di Porta Pia, cui non era riuscito di allontanarsi, deponevano , e soltanto allora , le armi , mentre veniva innalzata bandiera bianca. Ciò vedendosi, si arrestò la marcia delle truppe. Dopo , il 41° fanteria condotto dal Mazè, il 34° bersaglieri ed il 19° fanteria condotti dal Cosenz , di corsa , si diressero verso l'interno della città , il primo al Quirinale, i secondi al Pincio ed a Piazza del Popolo. Frattanto parlamentari inviati dal comandante le truppe pontificie generale Kanzler , consegnavano al Caderna una lettera del Kanzler, in cui si chiedeva di trattare la resa. I patti della resa stabilirono che la città fosse occupata dalle truppe regie; e le papaline, uscite da Roma con l'onore delle armi, dovevano esser disciolte, e le straniere immantinenti rimpatriare. Dov' era , intanto , Garibaldi? Mentre gli italiani tripudiavano per la conquista, del resto facile, dell'eterna città, egli, obliando generosamente i fucili di Mentana, offriva alla Francia quanto restava di lui.
        Alle dieci, dunque, Roma era presa. Così finiva il potere temporale, di cui il Tommaseo , scrittore cattolico , affermava : “Non ha governo l' Italia sì concordemente detestato com'è il pontificio. Se un governo sì abietto, sì lebbroso d' ogni male, fosse da stimare intangibile, Iddio non sarebbe.„ Il Cavour diceva : “Io non so concepire maggiore sventura per un popolo colto, che di vedere riunito in una sola mano il potere civile ed il potere religioso. La storia di tutti i secoli come di tutte le contrade ci dimostra che, ovunque questa riunione ebbe luogo, la civiltà quasi sempre immediatamente cessò di progredire , anzi sempre indietreggiò; il più schifoso dispotismo si stabilì. Da per tutto questa fatale mescolanza ha prodotto gli stessi effetti. „ Oltrechè le forze papaline impiegate alla difesa erano minime, non possono tralasciarsi altre ragioni, per spiegare la facile caduta del vetusto e decrepito governo teocratico, sebbene fosse la potenza più antica d' Europa, resistente a tante rivoluzioni da dieci secoli. Esso cadde più che altro per la forza progressiva delle idee che reggevano già per ogni dove le Nazioni, mentre in Roma, sebbene famosa per antichi e memorabili eventi, si volle opporre ostinatamente la immutabilità dei principii politici, come se fossero immutabili al pari di quelli religiosi; senza mai preoccuparsi del fatto storicamente incontrastabile , che i principii della civiltà sono così irresistibilmente progressivi , da distruggere ogni cosa che si appoggi all'altro principio dell'immutabilità assoluta. Quel governo politico era da troppo lungo tempo in opposizione alla civiltà europea; era in conflitto con le libertà anche moderate degli altri popoli e con la scienza: ,era un vero anacronismo che aveva la pretensione di imporre una sosta al progresso irresistibile della, civiltà. Fu dunque una necessità storica quella caduta, la quale avvenne dopo una lunga serie di cause ed effetti che sono inesorabilmente e logicamente concatenati. Quel governo politico portava in sè stesso il germe di una inevitabile rovina, perchè era in contrasto con le idee dominanti, ed era costretto ad affidare le armi a braccia straniere e mercenarie, non rinvigorite , non sostenute dall'amore della patria e del luogo natio. I romani furono, dal 1870, tolti da una condizione di cose da lungo tempo divenuta incompatibile; riacquistarono la loro indipendenza e dignità umana , rientrando nei diritti e nei benefizii della civiltà , negati fino al 20 settembre 'di quell'anno. Del resto, il potere temporale noti garentiva l'indipendenza del sovrano pontefice. Infatti, il potere temporale assicura l'indipendenza quando somministra a chi lo possiede armi e danari per garantirla; ma quando il potere temporale d'un principe, invece di somministrargli armi e danari, lo costringe ad andare a mendicare dalle altre potenze appunto armi e danari, è allora evidente che il potere temporale è un argomento non d'indipendenza, ma di dipendenza assoluta. Inoltre, l’uomo che vive tranquillo a sua casa, è più indipendente d'un monarca che — come il papa al 1870 e prima — abbia sollevato contro di sè l'animo di quasi tutti i suoi concittadini, e che non può uscire, se non circondato da bersaglieri e sol, dati. Ed — anche al 1870 — il Pontefice che stava a capo della cattolica religione , poteva esercitare in modo molto più libero, molto più indipendente il suo augusto ufficio , custodito dall' amore e dal rispetto di 22 milioni d' italiani, amiche difeso da 25000 baionette.
        Per circostanze storiche, intellettuali , morali , e perfino geografiche, essendo Roma situata nel centro d'Italia, l’ intero popolo nostro volle per capitale l’ eterna città. E quella libertà che il papa aveva chiesto invano da secoli a tutte le grandi potenze cattoliche ; quella libertà che solo in parte aveva potuto strappare per mezzo di concordati, concedendo in compenso privilegi, tra cui l' uso delle armi spirituali alle potenze temporali che quel po' di libertà accordavano; il papa se la vide interamente offerta quando lo Stato italiano proclamò il principio della piena indipendenza pontificia nel campo spirituale, che è il vero e solo dominio dei successori di S. Pietro, affermando la libertà della Chiesa nella libertà dello Stato. Nondimeno, la curia pontificia protestò contro la nuova spogliazione, e Pio IX , già vecchio ed infermo , lanciò la scomunica su quanti avevano partecipato all' abbattimento della sua potestà temporale; e respinse la legge delle guarentigie informata al principio cavouriano su accennato di libera Chiesa in libero Stato, che gli concedeva gli 'onori e le prerogative sovrane, la massima libertà nell'esercizio religioso, la franchigia postale e telegrafica , l' assoluto possesso del Vaticano , del Laterano e della villa di Castel Gandolfo, ed un'annua rendita di 3,225,000 lire; si rinchiuse nel Vaticano, e si atteggiò a prigioniero.
        Ma, intanto, torniamo ancora per un po' alla giornata gloriosa del 20 settembre. In Roma, dunque, arrivano di corsa i nostri reggimenti, i bersaglieri, la cavalleria. Le case si coprono di bandiere, il popolo si getta fra i soldati , gridando e plaudendo. Da tutte le finestre sporgono bandiere, s'agitano fazzoletti bianchi, s'odono grida ed applausi. Il popolo accompagna col canto la musica delle fanfare: sui terrazzini si vedono gli stemmi di casa Savoia. La moltitudine si versa nelle piazze da tutte le parti; le donne si mettono le coccarde tricolori sul seno; l’entusiasmo è al colmo; tutti hanno la coccarda tricolore; tutti accorrono gridando: I nostri soldati! I nostri fratelli! È commovente; è l’affetto compresso da tanti anni che prorompe tutto in un punto, ora; è il grido della libertà di Roma che si sprigiona da centomila petti; è il primo giorno d'una nuova vita; è sublime. Ed altre grida da lontano: I nostri fratelli! Numerosissime frotte di cittadini continuano a passare, l'una dopo l'altra, pel Corso, con grandi bandiere; tutta codesta gente trae con sè soldati di fanteria e bersaglieri. Le canzoni popolari de' nostri reggimenti sono diventate già comuni : tutti cantano. Passano carrozze piene di cittadini che agitano in alto il cappello ; i soldati rispondono alzando il keppì; le braccia si tendono dall' una parte e dall'altra e le mani si stringono. Passano le signore vestite de' tre colori della bandiera nazionale ; o gittano giù dalle finestre fiori e confetti ai gruppi de' soldati che tendono le mani. I cittadini, non più paghi di tenere i soldati a braccetto , camminano tenendo loro un braccio intorno al collo. Passano donne con un pennacchio da bersagliere nelle trecce. Dappertutto soldati e popolani insieme, da p er tutto grida di viva Roma e viva il nostro esercito, da per tutto canti, amplessi, grida di gioia, bandiere! È impossibile immaginare nulla di più solenne e di più meraviglioso. Le grandi piazze , le fontane enormi, i giganteschi monumenti, le rovine, le memorie, il terreno, il nome di Roma, i bersaglieri, le bandiere tricolori , il popolo , le grida, le musiche, la secolare maestà, la nuova gioia, la memoria di tempi, di trionfi antichissimi e nuovi, tutto quest' insieme è qualche cosa che affascina, si direbbe un sogno, è una felicità che soverchia le forze del cuore. Roma ! si esclama. Ah ! non ce la volevano dare Roma? — esclama un ufficiale —; eh ! ora si capisce perchè. Sguardo e pensiero si levano in alto ; e dal profondo del cuore, col più ardente palpito che potrà mai destare l'amor di patria , si scioglie un inno a quella giustizia nel cui nome l'Italia gridò al mondo : Voglio la libertà, e giurò di conseguirla. Si scioglie un inno alla libertà, nel cui nome l'Italia aspettò per tanti anni, confidò, sperò, soffrì, sorse, cacciò lo straniero, si compose a nuova vita , bagnando del sangue dei suoi figli tutti i suoi monti e tutti i suoi fiumi; nel cui nome è entrata in Roma, ed ha inalberato sulla. torre del Campidoglio la sua bandiera gloriosa, benedetta ed amata. Dopo, il generale Cadorna, nominata una Giunta provvisoria di Governo, indisse pel 2 ottobre 1870 il plebiscito; in cui, con una splendida votazione, 133,681 sí e 1507 no, quei romani che si volevano far credere ligi e devoti al governo chiesastico , dichiararono volersi unire al regno costituzionale di Vittorio Emanuele e de' suoi reali discendenti. Il 2 luglio 1871 Vittorio Emanuele fece il suo solenne ingresso nella città eterna, trasportandovi la capitale da Firenze, in mezzo all'entusiasmo indescrivibile della popolazione, lieto di veder compiuta quell'opera cui aveva dedicato la vita, pronunziando le famose pa role espressione sincera del sentimento comune di tutti gl' Italiani “A Roma ci siamo e ci resteremo. „
        Perorazione. — Popolo di Bisaccia, io ti saluto. Francesco De Sanctis, qui venuto vari anni fa, ti chiamò gentile. Ma quella lode era incompleta. Come Gabriele D'Annunzio salutava, or non è molto, la sua gente d'Abruzzo, te, con le medesime qualifiche, io chiamo, popolo di Bisaccia, forte e gentile. È la gentilezza nell'animo bennato de' tuoi concittadini; è la gentilezza anche nelle menti de' tuoi protestanti che, pur ribellandosi a quella che fu la religione degli avi, abbracciano idee, rispetto a quella, forse più evolute, però senza escandescenze, senza furori, senza lotte intestine; è gentilezza in te, che tendi alla libertà, tendi al progresso, ma maturi i sogni dell'avvenire, per vie pacifiche, nelle coscienze, prima di farli divenire realtà. Ed è forza in te perchè, fin nel gran nome di Roma, eri detta antica mente Romulea, cioè la piccola Roma; è in te forza perchè tu, quasi ribellandoti alla natura, con la fermezza del tuo volere, hai cinto le tue braccia intorno alle cadenti frane, come in una catena di ferro; è la forza nella rubustezza delle tue vergini, nelle membra de' tuoi popolani, nel braccio e nel cuore de' tuoi soldati che, primi tra i figli d'Irpinia, affrontano la morte, senza paura, e s'immolano alla gloria nella nuova guerra d'Italia. Per tutto questo, o popolo di Bisaccia, io ti saluto. E se è pur vero che goccia del mio sangue si originava, in antico, da te, io son lieto di esser quasi tuo concittadino; e mi sento tanto più onorato di aver portato fra le tue mura un memore e cordiale pensiero, anche a nome tuo, oggi, ai martiri gloriosi del sapere ed a gli eroi di Villa Gloria e di Mentana, che prepararono Roma ad assiderai, regina d'Italia, sul Campidoglio di glorie splendido.

        A guerra libica finita. — Ritengo che la guerra sia un male di cui i popoli debbono a poco a poco disfarsi, per far risolvere le loro controversie dal diritto e dalla ragione, invece che dalla forza brutale; ma affermo pure che molte belle cose ci ha ricordato la guerra da' nostri soldati testè gloriosamente combattuta. Se il valore latino non fu mai spento negl'italici petti perchè, anche nei tempi della nostra maggiore decadenza politica, dette di tratto in tratto, qua e là, vividi bagliori; se è pur vero che quel vigore si affermò splendidamente sopratutto in epoca recente, per l'unità della nazione, gli eroi della Libia non hanno aggiunta nella guerra odierna una nuova aureola ai fasti della tradizione storica della Patria. Infatti i garibaldini del mare hanno ricordato, per esempio, che i garibaldini della terra già erano esistiti; i soldati combattenti in pochi contro molti, oltre che Garibaldi, hanno ricordata, fra l'altro, la più meravigliosa leggenda romana di tempi remoti : Orazio Coclite; ed anche le leggende non nascono senza un fondamento di verità. Dunque non nuovi lampi di valore latino, ma rievocazione viva di quel valore nell'ultima guerra : il capitano Verri ed il generale Fara lo dimostrano e lo confermano. — Ma se i soldati di terra non aggiunsero nuova aureola alle tradizioni storiche della Patria, tre nuove aureole però si aggiunsero per opera di altre persone: l'aureola della generosità in guerra, l'aureola di inusitato valore sul mare, l'aureola dell'amor di patria, che diventa splendida, operosa carità. La prima aureola viene dall'aver accondisceso alla pace, proprio quando il nemico stava per essere fiaccato e reso impotente anche per opera di altri popoli, i Balcanici, congiurati contro di lui. La storia ammaestra che le nazioni spesso si sono collegate per distruggere un comune nemico. L'Italia, quando vede che altre genti pigliano da sè, spontaneamente, le armi contro il suo avversario, invece di unirsi con esse, abbandona la guerra. Non è un nuovo esempio di magnanimità? Veramente i nostri antichi romani, in ciò difformi dai Greci, avevano anch'essi quasi praticato questa virtù, adottando il nobile motto parcere subiectis et debellare superbos. Ma da molti secoli, ovunque sì generosi esempi erano scomparsi, e nessuno meglio e più opportunamente del nobile sangue latino poteva farli rivivere. — Quando poi penso a Millo, sfidante, sotto le limpide stelle, nei silenzi della notte, i siluri nemici, le fortificazioni de' Dardanelli, io non so ricordare nella storia nostra e straniera altro esempio. Combattimenti vigorosi sul mare ve ne furono, e non pochi, in passato; ma a corpo a corpo, quando forse l'ardore della mischia non faceva valutare l'asprezza del pericolo. Ma che un marinaio (meglio chiamarlo così per la semplice e grande audacia) si muova intrepido, e trovi altri mille marinai concordi come un sol uomo, ed unanimi nell'affrontare un pericolo sì grande, come la morte non eventuale ma probabile, e ciò ad animo pacato, sereno, indifferente, è fasto, è gloria nuova del nostro popolo. — L'altra aureola nuova alla fronte d'Italia, per te si recinge, o Elena d'Aosta , ed è aureola prima sconosciuta alla storia di altre nazioni. Leggende ve ne erano state, fantasie poetiche, esempi storici isolati anche: Angelica, nell’“Orlando Furioso „ ama Medoro, perciò lo soccorre ferito ; Anita è moglie di Garibaldi (e sempre questi insieme con ogni più alta poesia), perciò lo segue, circondandolo di ogni cura nelle battaglie, ov'ella muore esaurita. Ma Elena d'Aosta fa di più: crea, forma un drappello addirittura delle amanti della patria, in soccorso ai vindici tutelatoci dell' onor patrio. Son cento nobili donzelle guidate, edotte da lei : son cento fiori italici, le cui seriche vesti sono impari alla gentilezza del loro animo. Non le spinge amore d'uomini, le spinge amore di idealità, ed in questa idealità sono non altro che grandiose. Le soavi teste reclini sui feriti sentono il cuore de' soldati e de' marinai vibrare di inusata commozione; e basta spesso un gentil sorriso a rallentare, ad allontanare le ore dell'ultima agonia. Al sole, il mare sembra zampillare, turbinare di stelle, quando vanno sulle navi beneficando i feriti. Le tremule acque inviano sorrisi e carezze, il cielo si rende più bello a quell'effluvio di poesia, ed i canti di guerra, risonanti a prua ed a poppa dai petti gagliardi, sembrano inneggiare non solo alla battaglia, ma anche a quel profumo meraviglioso di italica virtù. Sono gl'inni alla grazia, alla bellezza, alla forza, che veleggiano sul mare. Noi ammirammo Elena d'Aosta quando, nei civici ospedali, spinta da carità, visitò con cura corpi in sfacelo per morbo o per vecchiaia; ma l'idolatrammo e sentimmo vibrar col nostro l'animo della nazione intera, quando protesse quei corpi votati alla patria e disfacentisi nella gloria, o anelanti di risorgere a nuova vita. E per questo sia a te vanto, Elena d'Aosta, che Francia ed Italia congiungi in armonica grazia : che un'antica leggenda ed una recente storia fai rifiorire e rivivere di nuova bellezza, pel nome d' Italia in Libia ! — Ma la parola è forse inane ad esprimere la suprema bellezza degli atti; e noi dobbiamo, come il musicista e come il poeta, — che spesso tentano invano di cogliere le espressioni adatte per le radiose immagini che arridono nella fantasia — confessare che la parola non riesce ad esprimere intero il turbinio de' nostri pensieri agitantisi intorno a questa poesia non immaginata, ma vissuta; e che, come tante altre, si sente assai meglio di come si esprime; e povero ed infelice chi in modo così alto non la sente e non la vive! Son queste le aureole nuove di cui la nostra storia si ricinge , quasi ignote finora a molti altri popoli, e che fanno trionfare la nostra ultima guerra nei fasti smaglianti della più eletta epica poesia.

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        A voi italiani residenti in America rivolgo il mio cordiale saluto, cominciando ora a far inserire i miei scritti anche su giornali d'oltre oceano. E questo saluto bene a proposito si ricollega alle cose già dette: perchè se ai marinai ed ai soldati fu concesso riaffermare l’ onore della Patria con le armi, spetta a voi pure una nobile missione, un nobile dovere da compiere sempre meglio di come lo compiste in passato: affermare cioè l'onore d'Italia in pace, con la rettitudine e col lavoro. Questa vostra gloriosa Madre, che sempre vi ha teneramente amato, anche quando non potè appagare i vostri giusti desiderii e le vostre sante aspirazioni; anche quando non potè frenare e contenere nel suo gran cuore i battiti de' vostri cuori tendenti sempre a nuove conquiste, a più eletti ideali, non vi dimentica giammai. Noi italiani residenti nella gran patria vostra, abbiamo gli animi fissi su voi, ansiosi di voi residenti in America. Ogni vostra vittoria è vittoria nostra, ogni vostra conquista è nostra conquista, ogni vostro onore, procuratovi lavorando e bene agendo, è anche onor nostro. Non dimenticate i doveri verso il popolo che gentilmente vi ospita, non macchiate mai il decoro della gran Madre. Son questi gli echi commossi del mio cuore, gli echi commossi del cuore d'Italia ripetentisi, attraverso l'Oceano, nella libera e civilissima terra che vi accoglie. E quando voi , ritornando al patrio suolo , porterete alta la fronte per la sicura coscienza del dovere compiuto, questi echi di gioia e di affetto , di ansia premurosa e cara , vi raggiungeranno sul mare infinito , carezzandovi, già prima che baciate la sacra terra vostra !

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Da Dibattimenti, Roma, 6 luglio 1913, e da Il Corriere del New jersey, Newark, N. J., 16 agosto 1913.

        Per l'educazione degli elettori. — La gran maggioranza degli elettori non ha una convinzione predeterminata, seria e costante, ma è invece facilmente trascinata di qua e di là dal soffio di contrari venti. Essa si determina al voto pochi giorni prima dell'elezione, facendosi persuadere da qualche discorso di piazza più o meno capzioso, o facendosi dominare da capi-elettori traffichini, o magari vendendosi. Fra i tre ora accennati mezzi di convinzione (!) alcuni dicono che è preferibile quello di chi vota per danaro, perchè così si fa almeno, in anticipo, qualche piccolo salasso a quelli che saranno, potranno essere poi, i redditi loschi dell'immoralità di non pochi deputati. Io non discuto quest'opinione; e lascio al sagace lettore il valutarla; per me affermo, con saldo convincimento, che dà un voto immorale sia chi si fa travolgere da discorsi capziosi, chi sì fa dominare da capi-elettori, sia infine chi si vende. Ogni elettore dovrebbe invece avere un convincimento proprio, maturo, serio, non occasionale; così soltanto l'eletto sarebbe la risultante, l'esponente del desiderio, dell'opinione, dell'entusiasmo della maggior parte dei votanti. Quando questo non si verifica — il che disgraziatamente accade spessissimo, per non dir sempre, — l'eletto non rappresenta il parere ed il sentimento degli elettori, ma è il frutto di più o meno turpi intrighi. — Che i diversi partiti politici — socialisti, radicali, moderati, repubblicani, monarchici, ecc. — esercitino ognuno per conto proprio, e con diversità d'intenti, una propaganda viva e tenace in favore delle loro idee, non è male, è anzi bene; perchè dall'urto, dal cozzo di opinioni contrarie può nascere, può zampillare come favilla da maglio che percuote, la verità: dato pure che anche questa esista, in modo che non dovessimo domandarci, come fu chiesto da Pilato al grande Maestro, quid est veritas? Il male vi è, ma è nel fatto che molti votano per i socialisti senz'essere intimamente socialisti, votano per i repubblicani in modo conforme, così per i monarchici, e via dicendo. La scienza, il maturo esame dà il convincimento sodo; il resto è fuoco fatuo, è nube che soffio di vento contrario disperde; e tali — non possono essere diverse — sono le opinioni delle masse del popolo indotto, che quindi vota più per leggerezza, che per coscienza. Certo l'istruzione progredisce; e domani gli elettori saranno più coscienti di quelli di oggi, i quali a loro volta sono più evoluti di quelli di ieri. Perciò l'opera di civiltà, di educazione, di propaganda non deve arrestarsi, nè in Italia, nè altrove, affinchè ogni nuova legislatura segni come una pietra miliare nella via della civiltà e del progresso. L'umanità ha bisogno di istruirsi e di educarsi: solo in questo è il suo bene; e quanto v'è di male, oggi come ieri, nella società è stato ed è sempre il risultato d'ignoranza o d'ineducazione civile. Se ogni cittadino rappresentasse almeno un minimo di buona coltura, gli eletti sarebbero migliori; e se vi sono molti cattivi deputati, la colpa non è solo di questi, ma anche più di chi, sapendoli tali, li elegge. Si intende bene, molti cercano di pescare nel torbido, profittando della buona fede e dell'ignoranza del popolo, che è un inconscio sgabello per far dare ad essi la scalata al potere; col quale essi cercano di accrescere la stima altrui per sè stessi, l'autorità loro verso gli altri, e non di rado anche notevolmente il proprio patrimonio. Il miglioramento di sè medesimi, l'utile proprio è una tendenza umana, congenita in ogni individuo e, essendo generale tale tendenza, riesce difficile il vedere una grave colpa in questo che è un istinto, quasi un destino dell'umanità. Ma la colpa più grave è di chi si dà facile preda ai più rapaci; di quelli che si fanno travolgere e turlupinare dai più facinorosi, mentre potrebbero fare una scelta migliore. Nessun uomo è perfettamente buono : ma coloro che preferiscono i meno buoni ai più buoni sono gli assolutamente rei, quando non curano il danno della società, per fare il bene di pochi immeritevoli.

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Da il popolo italiano, Roma, 12 Ottobre 1913.

        Per l' inaugurazione della bandiera della Società del Risorgimento. — La nostra bandiera è la nostra fede : essa ha per stemma il gladiatore , la forza cioè che, portando in una mano la spada sulla bilancia, combatte per la giustizia ; mentre nell' altra mano il guerriero porta la fiaccola, la luce ideale che rischiara le menti. Ecco dunque il lato più caratteristico e più notevole della nostra insegna: il cui significato, se si vuol compendiare in poche parole, può ridursi a questa formula mazziniana: pensiero ed azione: la fiaccola infatti rappresenta il pensiero, la spada rappresenta invece l'azione. Bella è dunque l' insegna che ci guida, ed è anche altera e forte. Ma la nostra mira principale deve essere l' educazione del pensiero , perchè il pensiero buono genera la buona azione: gli atti sono figli del pensiero, perchè l'uomo prima pensa, poi opera. Come dunque educare il pensiero del nostro popolo? L'impresa non è facile, e la via da percorrere è lunga. Ma in questa via quanti nobili e grandi predecessori abbiamo avuti! Gloria a te, o Cristo, che spezzi le catene ferree della barbarie antica, e lanci il grido sprezzatone de' biechi tiranni , affermando gli umili saranno i miei eletti. Gloria a voi, o mar tiri della rivoluzione francese, o sanculotti di Francia, o monelli laceri e scalzi, che, agitando al vento una povera bandiera, percorreste le vie di Parigi prima, e poi del mondo; rompeste in parte le catene della schiavitù legale, mentre Cristo era riuscito soltanto a rompere quelle della schiavitù materiale; e , mentre fremeva ai venti la vostra bandiera, proclamaste ed imponeste al mondo attonito: fratellanza, eguaglianza, libertà! Gloria a voi che per l'idea periste, gloria a voi che per l'idea combatteste ! Perirono gli uomini, ma non peri l'idea. Cristo è crocifisso, Socrate beve la cicuta, Savonarola e Bruno ardono sul rogo, Galilei è imprigionato, i soldati della rivoluzione francese e dell'indipendenza italiana lasciano la vita fra il grandinar delle mitraglie; ma l'idea resta e trionfa. Uno perì, e mille ne sorsero: le ceneri di una vittima furori polline che generò migliaia di vite nuove. Così da Cristo, dagli Enciclopedisti, dalla rivoluzione francese, dal rinnovamento filosofico e da quello economico marxistico è nata la bella utopia che promette ai popoli un migliore avvenire , sotto la cui bandiera non vi sono piú poche persone isolate, ma milioni di individui di diverse nazioni.
        Accennato al simbolo caratteristico della nostra bandiera, il gladiatore con la fiaccola, la spada e la bilancia, voglio ora dir qualche parola sul modo come la nostra società si è formata. Veramente questa formazione è nota al pubblico, ma a me preme accennarla, perchè i maligni potrebbero cercare di travisare la verità de' fatti. E la verità è che il circolo fu proposto da vari soci che desideravano il bene del popolo: e quei soci erano persone che non avevano ambizioni elettorali. A quei soci promotori spontaneamente si unirono altri rappresentanti del popolo, contadini ed operai. Dico che spontaneamente vennero a noi, perchè io non avevo, come altri fondatori di società, mire elettorali ; e perciò non mandai, come altri hanno mandato, giorno e notte, de' cani sguinzagliati alla caccia del cittadino elettore. E non li mandai perchè son fermamente convinto, come dovrebbero esserlo tutti, che le elezioni debbono farsi con la libera scelta dell'eletto; son convinto che elezione vuol dire appunto libera scelta, non costrizione, non incatenamento, asservimento di pesciolini piú o meno ingenui, che vengono ammaestrati a fare il proprio danno, quasi il proprio morale suicidio. Nelle lotte amministrative, quindi, il nostro programma può restringersi a poche parole: si appoggeranno gli onesti, più che i capaci, giacchè noi ci riterremo più onorati di stringere una mano callosa, ma pura ed operosa di contadino o di operaia; anzichè quella inguantata di un così detto gentiluomo, che ha comprato però il guanto con danaro mal guadagnato. La nostra società è, dunque, società popolare ; pensa principalmente al popolo, mirando al cui bene non restringe il proprio ideale a sole lotte locali , ma pensa al miglioramento della plebe, in qualunque lecito modo esso possa ottenersi. E , sotto questo aspetto, io mi sento non solo un soldato del nostro circolo popolare , ma anche compagno di quanti fanno del bene popolare il loro precipuo dovere, dovunque essi si trovino, sia in Vallata che altrove, ed a qualsiasi sodalizio essi appartengano. E forse non solo compagno; ma dovrei dir meglio propulsore del bene popolare , in quanto che il popolo nostro, specialmente da sè solo, non conosce le vette cui deve tendere, non comprende gl'ideali che deve raggiungere.
        E se questa è la nostra bandiera, se questo è il nostro ideale eminentemente popolare, alcuni potrebbero farmi , come del resto hanno già fatto , delle osservazioni sulla scelta de' padrini appartenenti a classi aristocratiche. L'osservazione è giusta, ma notate. Cantava il Manzoni—del quale, se la vita di un uomo potesse compendiarsi in poche parole, direi che, oltre all'aver un bell' ingegno, ebbe un cuore buono —, cantava il Manzoni che, ne' giorni di feste solenni, si preparano pranzi migliori, le case si puliscono e si addobbano, e le madri sogliono di abiti migliori i lor pargoli vestir. Così noi, nell' inaugurazione della nostra bandiera, abbiamo scelti, quasi per decorazione della medesima, un padrino ed una madrina appartenenti a distinte famiglie. Questi i nostri padrini, oggi. Ma non ci dissimuliamo però che i nostri padrini veri , quelli che avranno la nostra stessa fede, il nostro medesimo entusiasmo, più che trovarli nelle classi aristocratiche, esistono già ne' figli del popolo. Di questi padrini ideali già abbiamo avuto splendidi esempi nel passato , e li chiamiamo anch'essi ad assistere, ad illuminare di più sfolgorante luce la nostra bandiera. Nostro padrino vero ed ideale sei principalmente tu , o nato nella grotta di Nazareth, o Cristo, che vinci la barbarie e domi i tiranni; nostro padrino vero ed ideale del passato sei anche tu, o Garibaldi, lampo di guerra sublime, o biondo marinaro, duce di soldati poveri ma valorosi. E madrina nostra vera ed ideale sei tu, o bella Maria di Jesse, nata e vissuta povera, ma buona; madrina nostra del passato sei anche tu, o Giovanna pastorella d'Arco, che spezzasti le catene dei nemici oppressori; e tu pure, o Anita Garibaldi, virago delle pampas, compagna vittoriosa del duce vittorioso, E madrine e padrini nostri, militanti, siete voi, o figli del popolo, nati e nascituri, che, piccoli oggi, combatterete domani con maggior forza pel nostro ideale, per l'ideale che noi agitiamo come sfolgorante orifiamma per il bene vostro. Alteri saeculo iuvabit, scriveva il poeta latino; e così anche noi semineremo per i venturi, per l'avvenire. A noi, soldati attuali del bene popolare, non sarà forse concesso di poter conseguire la desiderata piena vittoria, che i nostri figli assai probabilmente vedranno. Essi, pargoli o non nati oggi, avranno domani i muscoli d'acciaio e le menti più evolute per imporre alla società civile un migliore stato di cose. I lavoratori del martello e della zappa saranno anche i militi dell'idea; ed al canto delle botteghe e delle officine farà eco il canto erompente da' petti procaci delle vergini delle campagne che, armonicamente concordato, farà risuonare per l'aria, al fremito de' liberi venti, l'inno degli operai, già gloriosamente echeggiato testè anche alla Camera per opera de' pionieri del bene popolare; e che non tarderà molto ad echeggiare fors'anco per le più umili borgate e nelle amministrazioni comunali e provinciali. Allora il cielo non più sarà velato di piombo e di mestizia, così come oggi; ma forse allora anche tutta la natura farà festa, e l'allodola bella, spaziando pei liberi e sereni cieli, farà discendere e riversare fin sui verdi prati i suoi canti di giubilo, sposandoli all'inno di trionfo della vittoria sociale, che risuonerà libero dall'aria per l'azzurro infinito. E concorda con queste idee il simbolo de' tre colori, il glorioso vessillo d'Italia. Salve, o Italia bella nell'intatto candore delle Alpi urlanti alla valanga, nel sonante ritmo dei tuoi fiumi, nel fremito ansante de' tuoi glauchi mari, nel sorriso perpetuo de' tuoi verdi prati, nell'azzurro del tuo cielo, nella leggiadria delle tue primavere. Salve, oh, salve ! tu che a Bologna sei culla di sapere, a Firenze ed a Napoli sei culla di bellezza, a Venezia culla di marinara gentilezza, a Torino, a Genova, a Brescia, a Roma sei culla di fortezza. E salve pure nell' insegna de' tuoi tre colori ! Io veggo in essa il verde , dai tuoi mari e dai tuoi prati trasportato sul vessillo a significare la speranza al bianco, il candore delle nevi intatte e della pace, raggiunta col garibaldino simbolo della redenzione sociale. Viva l'umanità libera ed operosa, viva l'Italia!

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Dal periodico L'Araldo, Napoli, 25 aprile 1914.

        Vibrazioni patriottiche: per il ritorno di eroica salma.* — Or che l'anniversario si rinnova del giorno che il cammino ci schiuse di Trento, di Trieste, di Fiume ; or che l'anno ritorna della rinata nostra gloria, tu primo, tu solo qui giungi, milite della mia terra, per diffondere dalle tue ceneri l'olezzo delle passate eroiche primavere, e per spandere con esse il polline fecondo per le età venture.

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*Dal Corriere dell'Irpinia, Avellino, 17 luglio 1924.

        Milite della mia terra, ma tu non hai un nome solo: tu tutti compendiai nomi ai quali è sacrato questo granitico e bronzeo monumento, e di tutti i cittadini, di tutti i parenti conterranei, tu qui compendii e raccogli il dolore, l'onore, la gloria. Unico simbolo tu, unica sintesi, di tante nostre gioventù spezzate unico avanzo : non rappresenti il figlio di due genitori solo, ma il figlio di quanti padri, di quante madri nostre perdettero sul campo la loro rigogliosa promessa. — Se voi poteste, o genitori, coll'animo prono, come per una votiva offerta, accostarvi a quel tumolo sacro; se premere le braccia ed il cuore voi poteste attorno e su la cassa che racchiude quelle ossa morte, eppur viventi ; a ognun di voi rapito in quell'estasi santa, astratto dal freddo mondo che ne circonda, sembrerebbe forse scorgere pur con gli occhi la vision soave di Lui partente al caro richiamo della Patria; le ossa ricomporsi vedreste e, tendendo l'orecchio fra la connessura del feretro, sentireste dolcemente susurrare: Padre! Mamma !
        Popolo, soldati : ma non gli occhi velarvi di lagrime, io voglio oggi, col ricordo e con sentimento, mesto. Quando mi fu lecito , come meglio potetti, ciò feci : e fu il mio miglior premio far spuntare, con la parola o con lo scritto, una consolante e raggiante lagrima. Ma la divisa dell'armi ed un nuovo rivolgimento del pensiero ben altro compito m'impongono in questo momento: giacchè i caduti gloriosi furono simbolo di forza, che si armò per la difesa e per la grandezza della Nazione. A voi genitori permane l'orgoglio di averli generati. Ma a noi superstiti, che avemmo l'onore, del quale ci esaltiamo, di essere con loro sul campo; a te, popolo d'Italia, che con ansia vigile ne seguisti i cimenti e le vittorie, incombe il dovere di nutrire, innanzi a quest'urne, ben più che sentimenti di commossa tenerezza, patriottica fede e voti di fermezza gagliarda. Ben sentiamo l'amica voce ammonitrice di queste monumentali bronzee Vittorie , che tendono le ali verso l'infinito e, con animo devoto e fiero, la raccogliamo: e se falsi amici di consanguineità latina, o dichiarati nemici attentino alle fortune d'Italia, se il compimento di un dovere verso Questa ancora ci chiami, noi soldati, oggi come ieri, siam pronti. Non piangete dunque, ora, o madri; ne avrete tempo laggiù, al cimitero, quando la fremente bara si staccherà da voi, per rinchiudersi nella tomba santa ed eterna. Ma qui, presso questo fervido monumento, il luogo non è adatto. Qui, vivi e non morti sono quanti nomi porta la pietra incisi: vivono ed ammaestrano! Ammaestrano le anime gelide, che hanno bisogno del loro calore e del loro esempio, per riscaldarsi e per averne luce. Ed anch'io, meschina, umile farfalletta, vi volo intorno, per un raggio ritrarre di quei soli. Mi aggiro ad essi intorno, e li invidio per la loro fulgida morte, messa come un rimprovero o, almeno, come un monito di fronte a questa mia inutile vita, che avrebbe uno scopo, solo se sapesse del loro merito dare una benchè pallida idea.
        O caduti per la patria grandezza, io non più ardisco di chiamarvi, come già altra volta, compagni e fratelli d'armi : compagni no, fratelli tanto meno; maestri sì, invece. O veri combattenti reduci, che della Nazione siete il fior fiore, ad essi, fulgidi moBelli di amor patrio, chiniamo, col capo, riverente e commossa, l'anima. La nostra vita avrà vero valore, se, in un impeto di santa dedizione, sapremo votarla, ancora e sempre, coraggiosamente non solo, ma doverosamente pure, con entusiasmo, alla grandezza della Nazione , al bene della Patria. Questo e gli altri monumenti ai caduti eretti ne dànno il lievito e la spinta tenace. Nè più , all' ombra o al sole, o nella notte lunare e solitaria adunati, la mia fantasia vede genitori e spose e figli de' caduti del bell'italo regno mirare, in attesa e pregando , placidi dischi veleggianti pel cielo. Son questi i giorni e le notti del XXIV Maggio, o cittadini. E la fantasia vede ora raccogliersi per le Alpi già contese, le grandi ombre di coloro, che vide in realtà vivi, e poi morti. E la nota voce de l' armi vi si congiunge; e spade luccicano, moschetti ed elmi. Viene l' eroica falange, e per l' Italia si spande. Non più l'elegia mesta, dunque, ma il peana, l'inno e l'epinicio ardente. O torpidi nella coscienza, o d'animo vili, o vigliacchi violenti, o abietti nella mente, scotetevi ! Scenda, con l'eroica primavera, il polline sacro ; e, nella pace feconda , finalmente ci rinnovi! Vibrino i cuori ed, in votiva ansia ed anelito, afferrino e domino l'ala del destino.
        Il fervore degli eroi dai monumenti incalza.
        A questi steli di gloria protesi verso l'azzurro di Dio, rivolgiamo il pensiero, sempre; e tu popolo, voi soldati, noi combattenti inchiniamoci, prostriamoci, adoriamo; Viva l'Italia!

        Per la benedizione della bandiera del Comune, delle Scuole elementari e per l'inaugurazione del Viale della Rimembranza in Vallata. — Signori, i moti rivoluzionari del 1820-'21, iniziati dai tenenti Morelli e Silvati, proseguiti poi nella nostra Provincia con a capo l'illustre tenente colonnello Lorenzo De Concili , prelusero, con la costituzione quindi concessa dal Borbone , allo Statuto fondamentale del Regno, promulgato da Carlo Alberto il 4 marzo 1848, che, pure, oggi si commemora. E dello Statuto, questa Provincia, che al De Concili dette i natali, è perciò l'antesignana, la culla e la madre, che lo presagì , l' auspicò e lo designò al resto d'Italia, per i fasti incancellabili della Storia e della Libertà.
        Con questa commemorazione, coincide oggi l' inaugurazione del nostro Viale della Rimembranza, la benedizione delle bandiere del Comune e delle Scuole elementari.
        La scelta del giorno non poteva essere più opportuna. La bandiera, che già sorse e si battezzò nel sangue versato per l'Italia una, rievocata nell'insegna del Comune, i cui cittadini, verso il 1496, sfregiarono, con colpo di sasso, il volto al nobile Soardino, con un gesto che precorse Balilla, ben si fonde oggi nei labari delle nuove generazioni che , benedetti in questo sacro luogo di mesta e pia ricordanza, con nuovi Balilla, segneranno il cammino ascensionale delle patrie fortune.
        Tornerò a voi spesso, con la persona e col pensiero, o cari morti.
        Tenere piante, che le lagrime de' genitori, delle mogli e de' figli irrigheranno, verremo qui a bere l'aura sacra, vivificante e purificatrice, che emana da voi. Ora che siete appena attaccate al terreno, e quando, in avvenire , diverrete più rigogliose e robuste , l’ aquilone vi porterà tra foglia e foglia, perchè i martiri l’odano, i canti della tempesta e della battaglia ; la pioggia vi addurrà le nostre lacrime; ed i freschi e soavi zeffiri i nostri sospiri e le nostre carezze.
        E voi, miti e forti, crescerete su questa collina, circondata da valli e da monti, tappezzati di verde, punteggiati di alberi e di ginestre, al lume sfolgorante del sole, sotto il cielo ricamato di stelle. Voi, germogli del nostro culto e di patriottiche speranze, siete qui poste a ricordo di quanti furono, dispersi, senza che se ne ebbe più sicura notizia, nelle caverne o nelle doline, per il deserto africano, sepolti fra le gelide valanghe di alti monti, o morti combattendo, con le ferite sanguinanti, di fronte al nemico.
        E ricorrerà domani l'anniversario del vostro gran-- de Precursore. Quegli che, in Sicilia, a Mentana, a Digione, ravvivò la fede patriottica e battagliera d'Italia.
        Con questi auspicii, su questo suolo, bene si battezzano oggi le bandiere del Comune e delle scuole, affinchè i nostri figli , come nei giuochi olimpici greci, si tramandino in corsa, di generazione in generazione, il vessillo di progresso per le età venture.

        (Traccia per discorso). Sogno d'armi
       Alta la notte vien su le trincee,
       accompagnata al ritmo de' cannoni,
       tra il crepitar che va per le vallee
       di mitraglie, di bombe e... d'altri suoni.

       Il nemico, che guata torvo e bieco,
       non posa, non ristà dall'odio truce,
       pur ora della pugna cessa l'eco,
       che ai suoi antri, sconfitto, lo riadduce.

       Ma il fante è pago del dover compiuto.
       Intanto scende dal sereno cielo,
       a tratto a tratto, in ordin lento e muto,
       d'astri filanti lungo, enorme stelo.

       Dorme da forte. A lui la ninna nanna
       il rombo canta delle artiglierie,
       a lui la Patria canta il dolce osanna,
       a lui vola il sospir di donne pie.

       Gesù lo veglia. L'ilare Bambino
       — mentr'ei sogna — la Madre Sua carezza.
       Ma il sogno cambia : “Sei tu, mio piccino,
       che della mia Maria cogli l'ebrezza ?!...„

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Dalla rivista quindicinale Sardegna, Cagliari , 25 Gennaio-10 Febbraio 1927 e da il Giornale del Popolo, Lecce, 22 Maggio 1927 — V.

        La benemerita.* L'arma della fedeltà immobile e dell'abnegazione silenziosa ha compito, nel 1927, i suoi 113 anni di vita. Quando le lotte di parte stanno per degenerare in conflitti, quando l'ordine e la sicurezza pubblica sono minacciati, quando i malfattori insidiano le nostre persone ed i nostri averi, essa interviene calma, serena, sprezzante del pericolo, e ci apporta la pace, la sicurezza, la tranquillità. Quando le furie degli elementi sovvertono la terra, quando gl'incendi devastano città e villaggi, quando morbi contagiosi infuriano sulle popolazioni, ovunque c'è pericolo, sciagura, pianto, l'austera figura del carabiniere viene ad alleviare le pene di quelli che soffrono, a porre in salvo quelli che pericolano, a rassicurare coloro che temono. — Negli Stati Sabaudi, il 13 luglio 1814, fu l'Arma fondata da Vittorio Emanuele I, re del Piemonte, per avere un corpo fedele a tutta prova, a difesa delle patrie istituzioni e della sicurezza de' cittadini, costituendo così “un corpo di militari scelti, i quali, oltre ad avere l'onore di contribuire alla difesa dello Stato e di servire in maniera distinta la persona del Re in tempo di guerra, avessero campo di dar prova di valore e saviezza nel prevenire i disordini e contenere in dovere i turbolenti ed i facinorosi in tempo di pace.„ Come evidente riconoscimento della bontà dell'istituzione, furono impiantate nuove stazioni dell'Arma, di mano in mano che gli altri piccoli Stati in cui era divisa l'Italia prima del 1859 si unirono al Piemonte. La Benemerita prese in qualche modo parte a tutte le guerre d'indipendenza; ma va sopra tutto ricordato che a Pastrengo salvò la vita al re Carlo Alberto, caduto in un' imboscata di tirolesi austriaci, e con lui cacciò i nemici, decidendo le sorti della battaglia. A Pastrengo infatti, il 30 aprile 1848, verso le 4 pomeridiane, quando ferveva la battaglia ed incerte ne erano le sorti, Carlo Alberto, il re tanto bestemmiato e pianto , ritto in arcione sul suo cavallo, forse cercando morte gloriosa in armi, quasi presago di quella dolorosa dell'amaro esilio, avanzò infrenato sulle prime linee combattenti, ignaro di un'imboscata favorita da accidenti locali, e tesa ben più all'augusta sua persona, che al suo seguito. E, mentre il re, tratta la spada, si stava scagliando intrepido contro il nemico, alto, fermo, pronto, s'udì allora un comando. Squillò una tromba, e terse balenarono al sole trecento sciabole. Il maggiore conte di Sanfront ordinò la carica al suo battaglione di Carabinieri Reali , i cui tre squadroni, in fiammeggiante uniforme da parata, si slanciarono al galoppo, in massa turbinosa, comandati subordinatamente e rispettivamente da Morelli, Incisa e Brunetta. L'impeto cresciuto per la presenza del re, il grave pericolo cui si doveva scampare e la vista del villaggio agognato, trascinando anche il centro e la destra dell'intera linea combattente, dettero alla carica il risultato stupendo di far nostra. la verdeggiante Pastrengo. Gli squadroni comandati dal maggiore Negri di Sanfront, impiegati come truppe di cavalleria a disposizione immediata di S. M. il Re, resero così non solo la fanteria, ma anche la cavalleria avversaria impotente a resistere. Per tal fatto d'armi, ricostruito ormai nella più sicura e precisa verità storica, e posto in piena luce da uno stato che sembrava di leggenda, Re Vittorio Emanuele III, il 20 giugno 1909, consegnò personalmente la medaglia d'argento al valor militare alla bandiera dell' Arma, com' egli affermava , “sicuro che i carabinieri italiani saranno nell'avvenire, come sono oggi, degni delle loro tradizioni e della loro fama, conseguita con tante luminose prove di valore e di fedeltà alla mia Casa, alla Patria , alle Leggi!.....„ Poi , anche, nel 1848, a Santa Lucia il 6 maggio, a Staffolo, a Sommacampagna ed a Custoza dal 24 al 27 luglio, per la loro efficace azione e " per la condotta ammirevole ,, meritarono le due medaglie di bronzo al valor militare che adornano la bandiera dell' Arma ; la quale segnò altresì una bella pagina nella storia il 24 giugno 1866 a Monte Torre (Custoza) , dando prova di gran valore. Per “i segnalati servizi resi dall'Arma nella campagna di guerra 1911 - 12„ in occasione della guerra libica, la sua bandiera venne decorata, personalmente da S. M. il Re Vittorio Emanuele III, di medaglia d'argento al Valor Militare, il 19 gennaio 1913. Sul Calvario del Podgora, nelle memorande giornate del luglio 1915 , i carabinieri rimasero , come affermò un ordine del giorno del Duca d'Aosta, “saldi ed impavidi sotto la furibonda tempesta di ferro e di fuoco nemico, decimati ma non fiaccati„; sull'alto Sabotino volontariamente compirono azioni degne di epopea ; ed anche il Comando Supremo li lodò nel Bollettino di Guerra del 5 giugno 1918, perchè “saldi al loro posto di dovere , diedero prova di grande valore„. Tra morti e feriti l’Arma diede 24 ufficiali e 4500 carabinieri, de' quali 498 morti; 15 ufficiali e 787 carabinieri subirono l'inenarrabile strazio della prigionia e della dispersione, a cui circostanze ineluttabili non dettero la possibilità di sfuggire. Perciò, la bandiera dell' Arma de' Carabinieri Reali, con Regio Decreto del 5 giugno 1920, fu onorata di medaglia d'oro perchè, nella Campagna di Guerra 1915 - 1918, “rinnovellò le sue più fiere tradizioni, con innumerevoli prove di tenace attaccamento al dovere e di fulgido eroismo, dando validissimo contributo alla radiosa vittoria delle armi d'Italia.„ Personalmente pure da S. M. Vittorio Emanuele III, la medaglia fu consegnata poi il 4 novembre 1920, fausto anniversario di Vittorio Veneto, sull'Altare della Patria, in Roma, dove aleggiano i nazionali dei tutelaci , al cospetto degli spiriti immortali de' 600 mila eroi caduti, ma chiamati a raccolta da' campi di battaglia, e viventi fra i drappi delle bandiere saccate dal loro fulgido eroismo. Nella ricorrenza del quinto anniversario dal conferimento di questa medaglia d'oro, Vittorio Emanuele III, il 5 giugno 1925, volle premiare ancora la diletta “benemerita„ concedendo all'Arma l'autorizzazione a fregiare le sue trombe di drappelle con l'Aquila di Casa Savoia. — Alle eroiche azioni militari collettive innanzi indicate fanno bella corona molte isolate, come dimostrano eloquentemente i bollettini delle ricompense, delle onorificenze, delle medaglie di ogni specie, concesse ai suoi militi fin dall'inizio della fondazione dell'Arma. Ed ai meriti militari seppe questa unire i non meno ambiti meriti civili, più consoni allo scopo della sua fondazione, guadagnandosi la stima delle popolazioni, in modo da ricevere per antonomasia gli appellativi di “arma fedele„ e di “benemerita„ , specialmente per l'utile opera esplicata nelle pubbliche calamità, prodigando spesso il suo sangue anche nella benefica e decisiva azione contro il brigantaggio che, dopo l'annessione del Regno delle Due Sicilie avvenuta nel 1860, infestò l'Italia meridionale e gran parte delle Marche, con bande che raggiunsero persino il migliaio, formate dal disciolto esercito borbonico, da molti avventurieri spagnoli, francesi e dello Stato pontificio. Quest'accozzaglia di gente terribile e devastatrice l'Arma estirpò con la sua abnegazione e col suo sangue, segnando una pagina ricca di gloriose azioni, dalle quali non vanno disgiunte quelle compiute in occasione di ammutinamenti, di rivolte, nelle inondazioni, negli incendi, nei terremoti e nei colera. Perciò, in occasione del terremoto del 28 dicembre 1908, l'Arma ottenne, con R. D. 5 giugno 1910, la medaglia d'oro di benemerenza per operosità, coraggio, filantropia ed abnegazione dimostrata nel prestare soccorso alle popolazioni di Messina e di Reggio Calabria. L'Arma rese, quindi, in ogni campo della sua azione i servizi che da essa si attendevano, e fu braccio della giustizia e della legge, controllo al regolare svolgersi di ogni attività sociale, tanto che venne spesso persino a conflitto con elementi impuri della “guardia regia„ , messi a servizio di ministri che pensavano non di rado a fornirsi di capitali per depositarli — negoziando anche in olio — all'estero; a premiare gl'impiegati ed i salariati che lavoravano a rimandare le pratiche ed i servizi alle calende greche, od a scioperare, compensandoli per tanti meriti con aumenti di stipendi; pensavano infine ad umiliare l'Italia di fronte al l'estero, ed a concedere le più ampie amnistie a disertori di ogni genere. L'Arma ebbe pertanto una finalità sola, espressa nel binomio Patria e Re, ed un motto spartanamente sobrio, Disciplina e Dovere. Fedele all'una ed all'altro, ebbe martiri ed eroi. Conobbero i suoi militari le veglie della meditazione, le ansie delle indagini, le insidie delle foreste, l'urto delle folle. E, come abbiamo accennato, non temettero il pericolo de' campi di battaglia. Abituati a sfidare la morte occhieggiante su di loro dalle tenebre del delitto, furono alteri e felici quando poterono balzare nella luce delle guerre e, senza timore, corsero i campi e le trincee del nazionale riscatto. E mentre gli echi di Pastrengo risuonano ancora della carica loro e i colli del Podgora rifulgono del loro santo martirio, disciplina e dovere furono i duci supremi che guidarono i carabinieri nelle feroci lotte contro i briganti, sui terreni sconvolti dai terremoti, sulle campagne inondate da' fiumi in piena, nelle città devastate dalle epidemie. E dovunque l'ira degli uomini o degli elementi infierì sui cittadini, ivi furono veduti sempre primi, o tra i primi, i carabinieri reali. Ligi al dovere, crociati di questo nume austero, essi continueranno ad aggirarsi fra i popoli a terrore dei rei, a difesa degli onesti, a tutela dell'incolumità dei cittadini e della pace sociale.

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*Vari pensieri ho ricavato da opuscoli illustrativi di feste dell'Arma.

        Il fulgido vessillo della Benemerita. — Autorità, Signori, rossa del più puro sangue degli eroi e de' mar- tiri, della fiamma più fremente dei vulcani; bianca del più niveo candore delle Alpi e come il più nobile sentimento di patria fede; verde come la più arridente promessa de' campi e de' prati, e come il fiorire delle più belle speranze, tu rinnovelli il ricordo delle tue fulgide glorie, o italiana bandiera, che vieni consegnata come simbolo di amor patrio alla locale Stazione de' Reali Carabinieri, anche perchè — in questo piccolo paese, come in tutta l'Italia intera—con particolare riguardo sia onorata la fedele arma monarchica usa ad obbedir tacendo ed a tacendo, morire. E con l'imperitura memoria di quanti eroi s'immolarono amandoti, soffrirono torture e carceri servendoti, tu, italico vessillo, portato in trionfo, di vittoria in vittoria, dall'epoca gloriosa del Risorgimento nazionale, risvegli oggi specialmente il ricordo degli insigni meriti dell'esercito, che ti servì anche combattendo.—Ma, pur essendo la prima fra le armi del R. Esercito, l'Arma de' Carabinieri non ebbe l'uso della bandiera nazionale, se non quando, il 14 marzo 1894, con l'intervento di S. M. la Regina Margherita di Savoia, le fu consegnata dal re Umberto I; che salutò in quel vessillo “i soldati che, emuli de' loro commilitoni delle battaglie dell' indipendenza italiana, hanno dato e daranno incessati prove di coraggio e di abnegazione nella lotta per la pace e per la sicurezza della società.„
        La notte del 24 maggio 1915, la gloriosa bandiera de' carabinieri reali partì per il fronte con un reggimento de' suoi militi, di cui il Calvario del Podgora, le pietraie Carsiche, le giogaie del Trentino, le malsane regioni dell'Albania conobbero poi il valore, tingendosi del vivido sangue de' fedeli carabinieri, mentre il sacro vessillo sventolava glorioso fra i suoi figli combattenti, e si distendeva, amoroso e riconoscente, sui morti che, nell' olocausto della vita, con paziente ardire, morendo fieramente per rendere più grande la Patria dilettissima, compivano il solenne voto giurato quando da giovanetti erano divenuti soldati. Ho indicato in altro mio discorso le varie medaglie che la bandiera ottenne; inotre, il 21 aprile 1920, il Comitato d'Azione tra mutilati, invalidi e feriti di guerra volle, con gentile rito di cameratismo, offrire al sacro vessillo, per cui aveva versato il suo sangue vermiglio, una medaglia coniata con oro offerto dalle madri de' caduti in guerra. Fino al 1920, la ricorrenza del 30 aprile, anniversario di Pastrengo, fu il giorno della festa dell'Arma; ma, avendo il 5 giugno del detto anno l'Arma ottenuta la medaglia d'oro per il valore mostrato nella Grande Guerra, da allora in poi il 5 giugno fu il giorno della festa de'carabinieri, che avevano versato generosamente il loro sangue e scritto a caratteri d'oro pagine dì gloria e di virtù militari, facendo sorvolare la vittoria con le ali d'oro sull'Italia, benchè la pace vera e completa non avesse ancora fino ad allora spiccato il suo volo. Nondimeno il tramonto, la fine della guerra erano già stati per noi luminosi, pur se noti ancora indorati dal sole.—Arma temuta e rispettata, amata ed ammirata da tutti i buoni, che ha saputo, anche fra tante passioni, fra tanti interessi compiere sempre rigidamente il proprio dovere, i carabinieri reali sono—come esclamava con ammirazione un ambasciatore inglese — la spina dorsale d' Italia. Infatti, l' Arma che adottò il motto di Emanuele Filiberto di Savoia “pro Patria contra omnes, pro me contra Neminem „ , a favore della patria sarò contro tutti, ma per conto mio non sarò contro alcuno, è pure — come scrive Gabriele D' Annunzio — l' arma della fedeltà immobile e dell'abnegazione silenziosa, che nel folto della battaglia e di qua della battaglia, nella trincea e nella strada, sulla città distrutta e nel camminamento sconvolto, nel rischio repentino e nel pericolo durevole, dà ogni giorno prove di valore, tanto più gloriosa, quanto più avara le è la gloria E Benito Mussolini giustamente osserva che “l'azione, pronta, giusta, calma dell'arma dei Carabinieri s'impone come sempre non soltanto al rispetto ed all'ammirazione degli italiani, ma—oggi—all'ammirazione di tutto il mondo„. Essa, non solo liberò l'Italia dall'idra del brigantaggio—che, oscura propaggine di un passato, di pianto, aveva tinto di morte e maculato di delitto la nuova aurora alfine sorridente a molte e nobilissime nostre regioni—, non solo a Pastrengo aveva dato il suo largo contributo di sangue, ma pure a Palestro, sulle sabbie infuocate dell'Eritrea e della Libia, nelle trincee del Podgora, sul tormentato Carso, sulla vetta del Grappa, sulla sponda del Piave e nella triste Albania. Nel cimitero di Re di Puglia, il monumento ai carabinieri caduti sul calvario micidiale e terribile del Podgora porta incise sull'epigrafe, fra le altre, queste parole: “Quando il torrente delle passioni irrompe travolgente e la Legge non basta, sono i carabinieri che vigilano e rinsaldano gli argini del Diritto; quando le furie degli elementi si scatenano in aspre calamità, sulle convulse macerie de' terremoti, tra le fiamme degli íncendi, essi appaiono come angeli salvatori; da un capo all'altro d'Italia, un ricordo, una croce, un segno, sono le memorie del loro eroismo, del loro sacrificio. Nel fervore della battaglia, i carabinieri sono l'ancora salda su cui si imperniano l' ordine e la disciplina, sulla quale, fidenti, poggiano e si snodano gli organi che guidano alla vittoria„. Il 28 gennaio 1920, la gloriosa bandiera della benemerita fece ritorno in Roma, dove fu solennemente ricevuta, dopo che aveva visto, avanti a Gorizia, sul Podgora e sul Sabotino, rifulgere lo stesso valore che la irradiò di fulgidissima aureola sui campi di Pastrengo, dove ad un manipolo di carabinieri si dovette la vita di re Carlo Alberto e la salvezza d'Italia; dopo aver, anche fuori delle prime linee e delle pietrose trincee, mantenuta alta la fama del valore dei suoi militi, che si erano distinti compiendo servizi faticosi, quasi come quelli della guerra combattuta, vigilando la polizia degli accampamenti, incoraggiando i pavidi e riconducendoli al fuoco, sventando le insidie del nemico esterno ed interno; dopo che l'unità italiana si era cementata nell'ultima guerra, che aveva mescolato e fuso il sangue delle varie regioni italiche sulle Alpi contese, sulle pietraie del Carso, sui fiumi della patria, costituendo il nuovo suggello di una unione ormai indissolubile : che era stata ottenuta ad opera di eroismi fulgidi e di eroismi ignoti, di prodezze sul mare e nell' aria, di cruente avanzate su Gorizia e sul Carso, fermando l' irruzione nemica sugli altipiani, moderando nei giorni della trepidazione l'ansia e il fremito della riscossa, rimanendo invitti sul Piave e sul Grappa, inseguendo il nemico avvilito nella gloria di Vittorio Veneto. Quella bandiera, così come buona parte di quelle di altre armi—prima fra tutte la regina delle battaglie e delle vittorie, la fulgidissima fanteria—avea intorno una legione di morti ed una legione di vivi; ad essa guardavano e guardano con mesto orgoglio i genitori orbati di figli, guardano i figli fieri di averla condotta alla vittoria: essa è insomma la stessa immagine augusta della patria, fatta di morti e di viventi, di passato, di presente e di avvenire. Essa restò diritta e ferma nelle battaglie mercè il valore dell' Esercito e dell'Armata, ancora una volta affratellati negli ardimenti e nelle fortune, per assicurare alla Patria fiduciosa il progresso ed il trionfo che l'eroismo dei figli suoi le ha dischiuso. Alla luce della Monarchia, che è stata ed è il più sacro baluardo della libertà e del progresso civile della nostra Nazione, pare che i grandi spiriti di coloro che dettero in olocausto la vita per la grandezza e per la gloria della Patria susurrino ai nostri cuori e ci ripetano intanto parole di fede, di speranza, di incitamento e di letizia. Nella divina luce di Roma, arde pure la passione, sembra quasi illuminarsi la fede della Patria, rinata, nella gloria recente, dal martirio della elettissima falange dei suoi prodi, che offrirono per essa il miglior sangue della nostra stirpe. La morte, fantasma benedicente alla gloria, è testimone del loro infinito amore e della loro ardente passione.
        Anche quando i carabinieri passarono dal Podgora alle operose retrovie, condivisero coi fratelli delle altri armi le ardite imprese, scolpendo, pure come protagonisti, una grandiosa epopea nel recente immane conflitto mondiale. Pertanto, persino i loro caduti non completamente son morti, ma dalla morte rivivono nella gloria ; e fremono, sussultano gli avanzi de' fratelli immortali. O splendidi militi del silenzio e della fedeltà, avvolti in un impeto d'anime dal drappo fulgente del nostro glorioso vessillo, stretti in un amplesso infrangibile, come il bronzo col quale abbiamo voluto onorare nei monumenti i nostri eroi delle varie armi, ricordate la Patria con non minor amore di quello con cui serbate nel cuore la devota adorazione della madre ; ricordatela ancora più in questo momento in cui gli spiriti eletti de' vostri commilitoni, ideal- mente, coronati di lauro e di rose, aleggiano fra noi, e specialmente sul capo venusto della Vittoria alata, che ai posteri li tramanda.

        Lotte e vittorie. — I soldati risposero prontamente all'appello della patria in armi, quando risuonò desiderata, da un capo all'altro della penisola, la squilla di guerra del maggio 1915. Il loro martirologio è la loro gloria. La patria, che tanto ha sofferto, oggi tanto gode, "sapendo realizzata la sua più ardente speranza ed avverato il suo sogno più seducente. Le anime benedette dei suoi caduti, oggi e sempre, come stelle luminose, brillano e brilleranno sempre là, lungo quel tratto che parte da' campi del Trentino e arriva oltre Trieste; e veglieranno anch' esse assiduamente perché non sia vano l'immane tributo di sangue e di tormenti occorsi pel raggiungimento del superbo trionfo.
        Trionfo che rese sfolgorante la bandiera d'Italia, conseguito col contributo di tutte le armi sorelle, quando la vittoria si aggirava dagli inaccessibili culmini delle Alpi — sulle balze nevose del Trentino — alle verdeggianti pianure della Venezia Giulia ; di fronte al sole, occhio di Dio. Ed il sole irraggiava i campi aprici, le città meste, i templi sublimi, su cui il cannone aveva sparso rovine. Ir- raggiava le azzurreggianti acque dell' Isonzo mormurante sommesso, formanti scintillanti topazi tra i flutti c'ne s'infrangevano. Ed irraggiava sopratutto le fronti de' morenti che, col pugno ancora teso sull'arme, additavano all'Italia una nuova meta; dal cuore sanguinante facevano rosseggiare una nuova vivida promessa; col cervello sgorgante dalle tempia avevano pensato e voluto un' Italia forte. La Patria si ama così. Se bella essa deve essere per noi all'interno, questo non deve altro suggerire che una vana invidia allo straniero, verso cui deve esser solo forte, assolutamente forte, rigidamente forte. E, per tanto ottenere, ogni italiano non indegno di tal nome deve concorrere con I' opera propria, di mano o d' ingegno, iniettando nel seno della Gran Madre il proprio contributo di ferro o di fosforo. In questo hanno un compito lor proprio particolare gli scienziati, come i combattenti, i filosofi, i letterati, gli artisti. Ognuno deve riscaldare con la propria fiamma.
        L'Italia aveva così raggiunto l'ala della vittoria. Non più questa era contrastata tra i fumi micidiali dei gas, Ira le vampe dei lanciafiamme, fra il terribile brontolio dei cannoni, tra il sibilo delle pallottole, fra lo scroscio delle bombe. Perchè le nostre artiglierie pure avevano, con un popolo di mandolinisti, sui reticolati infranti, ben cantata la diana di guerra. E l'avevano cantata le falcianti mitragliatrici chiacchierine, i fucili, i moschetti, sotto la luce bionda del sole, al limpido lume della luna e delle stelle, tra -lo schianto della bufera e della tempesta. L' aveva cantata, con i nostri seicentomila morti, tutto il popolo d'Italia, salmodiante nei templi; pregante: pace, mio Dio, pace, bella Vergine Maria, vittoriosa pace; sudante sui campi, ansante nelle officine, quando il maglio preparava gli ordegni.
        E, coi segni della vittoria incoronato, l'esercito trionfante tornò. Erano ormai libere le terre natie, che l'avanzata nemica aveva devastate.
        Per le immense distese de' piani friulani, incontravamo qua e là uomini, donne, giovinette, che ci accompagnavano nel cammino ed ancora meste, perchè ancora sotto l'impressione del torbido scompiglio che l'orda teutonica aveva seminato. Quasi ancora un po' timidi, ci narravano con confidenza, con affabilità, come a fratelli, de' soprusi ricevuti, delle derrate e delle masserizie che avevano nascoste ne' comignoli, nei camini, sulle soffitte, per sottrarle alla ingorda depredazione della panciuta soldataglia tedesca, ebbra di grasso, di vino, di sego. Il sole di novembre risplendeva, come stesse per risorgere a nuova vita dopo l'offuscamento sofferto, sui campi onde era stato raccolto il granturco, tra le pampinee viti, tra i filari d'alberi fruttiferi. E qualcuna, rifiutando ogni compenso, ci offriva delle mucche pascolanti il latte, tiepido e candido come il suo seno candido. Ma dove erano le tante altre belle venete, che avevamo conosciute e amate prima di partire: friulane dalle forme giunoniche, delicatamente bionde, soavemente brune, dalla favella dolce, scioppettante, mormorante come l'acqua per le cascate ; e le vergini trentine dove erano, dal viso così puro ed incarnato di madonnine, che nessun artista seppe ritrarre mai ? Per là, si sentiva davvero uno squallore profondo. La briacaorda teutonica era passata seminando sconforto e lutto : le case erano spopolate e le ferrovie distrutte. Gli abitanti della zona purtroppo invasa dopo l'improvvisa ed imprevedibile sventura di Caporetto, uomini, donne, ragazzi, erano fuggiti tra il nostro esercito disordinato, ma non sconfitto, perchè quando veri combattimenti ci furono, essi furono strenui, anche e soprattutto da parte degl'italiani. Erano fuggiti quando si facevano rovinare i ponti delle strade e sui fiumi; ed avevano trovato, com' era loro sacrosanto diritto, nelle città libere d'Italia, de' fratelli.—Nella giornata infausta di Caporetto, essendo stati feriti un tenente ed un sottotenente più anziano di me, comandavo una compagnia di mitragliatrici, distaccata sul Monte Nero. Avevamo ben respinto, col 223° Reggimento Fanteria, nella mattinata, un attacco nemico. Ma, intanto, per la debolezza, per l'incuria, o pel tradimento di alcuni reparti da noi lontani, improvviso, impreveduto ci giunse, verso sera, un ordine di ritirata. Alla vigilia quasi di Caporetto avevo avuto due battibecchi col tenente che comandava la mia Compagnia Mitraglieri. Egli sosteneva che l'ufficiale doveva far uso dell'arme per condurre i soldati restii al combattimento. Io affermavo invece esser meglio che l'ufficiale avesse tale ascendente cordiale e morale sulla truppa, da non dover fare uso delle armi. Egli affermava, inoltre, che avrei dovuto aspettare sin quando gli austriaci si fossero arrampicati per il rialzo dove erano appostate le nostre mitragliatrici, per far fuoco. lo sostenevo che, senza aspettare che qualche cannonata mi avesse resi inservibili soldati e mitragliatrici, o che qualche circostanza imprevista mi avesse impedito il tiro, subito che avessi avvistato a tiro buono—al massimo, di cinquecento o seicento metri—i tedeschi, avrei tirato, magari stando io stesso al pezzo, sebbene noti fosse nelle mie attribuzioni. Un quarto d'ora. dopo che avevamo lasciato il ricovero, dove eravamo piazzati noi e le mitragliatrici alla mia dipendenza, un mio soldato rimasto indietro per raccogliere delle munizioni ci disse infatti che una granata aveva preso in pieno il ricovero pochi momenti dopo che egli ne era uscito fuori, e l'aveva sfondato. Veramente fu meglio non morire inutilmente così, senza combattere. Scendemmo giù da Monte Nero sul far della sera, lasciando incendiato quanto potemmo, per non farlo capitare, eventualmente, in mano dei nemici. L'incendio era stato già appiccato da' depositi di Brigata. I carriaggi ed i soldati che incontravamo ingombravano la strada maestra. Arrivati ai ponti sull' Isonzo inguadabile della Carnia, trovammo che questi erano stati fatti saltar via da' nostri, per impedire l'avanzata, ed il nemico già da altra parte li aveva sorpassati. E molti di noi, pur nell'ardente brama di venire a lotta sanguinosa, mortale, col nemico, per impedirgli di andare ad opprimere le nostre città, i nostri fratelli, le donne nostre, dovemmo mordere il freno e contenere la nostra rabbia, non potendo passare il fiume. Ero sottotenente di complemento. Due giorni innanzi avevo detto ai miei soldati: se è nostro dovere estendere e recuperare gli antichi confini della patria, è un nostro bisogno, un nostro piú imperioso e sacrosanto dovere mantener quei confini che i nostri fratelli, feriti o morti, hanno testè, col loro sangue, riconquistati. Io ero a tutto deciso, ed i miei soldati avrebbero continuato a battersi bene. Non avevo bisogno di fare con essi uso dell'arma, per condurli al combattimento. Sempre una molla quasi potente come lo scatto di una rivoltella li aveva trascinati a seguirmi: il noto affetto che io avevo per loro, e che essi avevano per me. Parecchi di noi avevamo già avuto il battesimo del fuoco e delle ferite, e non temevamo il fuoco, nè la mischia, ne le baionette. Eravamo incalliti anche alla guerra. Pur in quei frangenti, proposi ad un maggiore che non conoscevo di attaccare il nemico, che era in vista. Egli non rispose: ed io allora pensai che forse la mia proposta era inutile, e che, forse, l'avevo detta troppo grossa, cioè troppo arrischiata.
        Avrei voluto lanciare io stesso il grido di riattaccare il nemico, ma non sarebbe stato un atto d'insubordinazione all' ordine di ritirata ricevuto ? A che sarebbe poi giovato, se i nemici si erano e stesi chi sa fin quanto al di là ? E chi l’ avrebbe mai raccolto, se la massa de' nostri appariva un po' stanca di alcuni favoritismi e delle lungaggini:. della guerra ? Certamente, sarebbe stato un inutile eroismo. Perciò, quando ci accorgemmo che pur troppo non si poteva più combattere, per non farli diventar preda de' tedeschi, con F animo in lutto . ordinai che i moschetti e le mitragliatrici fossero buttati, come la mia pistola, nell' Isonzo, la cui corrente era così vorticosa, che trasportava colà anche alcuni muli carichi, cui si era cercato di far guadare il fiume. Si risparmiarono, quindi, altri nostri muli, perchè creature viventi di Dio. Solo a giorno avanzato dell'indomani dall'inizio dell' offensiva arrivammo in prossimità di Caporetto che, con nostra rabbia e sbalordimento, trovammo, e non per colpa nostra, accerchiata, circondata, presa.—Ma, quando non si trovarono ponti buttati giù, quando pure il maledetto nevischio non ostacolò i tiri, insomma quando si potè fare un utile ed opportuno impiego del coraggio e delle armi, i soldati italiani dettero nella quasi totalità, anche nella dolorosa circostanza di Caporetto, prova di grande valore. I bollettini italiani e nemici lodarono poi, come era loro dovere, la resistenza di alcuni nostri reparti. Libri di storia hanno già lodato la strenua condotta de' militi di Montenero. Non i tedeschi, ma l'Isonzo ci fece prigionieri. Non mi uccisi, perchè il mio suiidi o — così — non sarebbe per nulla giovato alla causa della Patria, per la quale, anzi, era meglio conservarmi per cercare di giovarle in altre occasioni.
        Ma, dopo, l'esercito italiano era passato invitto ,dalle sanguinosissime lotte del Grappa e del Piave alla luce sfolgorante di Vittorio Veneto; ed il sole ora, pur un pò malinconico pei dolorosi ricordi, cominciava a risplendere di nuova luce, calma, serena, intensa, profonda.—Giovinetti d'Italia che, alla forza de' soldati maturi, apportaste nella guerra un nuovo ossigeno, salvete in eterno ! Salve tu, energico e prode lor duce, Armando Diaz, che alla strategia pur avveduta e sagace, ma troppo metodica di Cadorna, facesti seguire il fremito degli armati in sussulto, impazienti di morire, o di arrivare alla vittoria col lampo fulgido delle baionette. Sia in eterno lodato il vostro nome, militi tutti, mordenti, tra le ferite o tra la morte, il fango presso i fiumi, i sassi delle trincee pietrose; e voi prodi, invulnerati ed invulnerabili, rimasti a difesa -delle linee come leoni pronti al ruggito. Salvete nel trionfo della Gran Madre, a cui tutto deste; o alla quale tutto eravate anelanti a dare.
        Salvete voi che, consci e partecipi di questo fremito di eroi, lo voleste portare a battaglia; tu, re nostro Vittorio Emanuele III, tu, Benito Mussolini; e che voleste poi, dopo la vittoria, che questo gran tributo di sangue e di energie pure ed intemerate, offerte sullo scintillante altare della Patria, non fosse stato offerto invano; ma fosse—per il sacrosanto nostro diritto, per quanto eravamo stati in ardore ed in passione, per quanto alla Patria ancora noi veri italiani sapremo dare—lievito eternamente fecondo di nuove fauste imprese.
        E scintilli ora il rinato sole sulle libere città italiche, da Trieste a Palermo, da Tripoli a Cagliari, a Torino: Torino ribattezzata nella vita infranta di Pietro Micca, Torino culla della nostra nazionale fede.
        Trionfa Italia su Trento, Trieste e Zara; trionfa Italia nei nuovi confini; trionfa Italia, sui fiumi, su l'Alpi, sui mari.
        Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta ; il romano valore le cinge la testa.
        Viva il re, viva il re, viva il Re!
        Mormora il Piave : non passi, o straniero.
        S'ode a destra uno squillo di tromba ; a sinistra risponde uno squillo.
        Si scopron le tombe, si levano i morti : i martiri nostri son tutti risorti : e per essi, per i suoi figli vivi, l'Italia si assile nei cieli di Dio, che la protegge. Italia, Italia, Italia !
        Su, con l'armi, con l'armi nel pugno, uni di sangue, di lingua, d'altare; della Patria sacriamo i confini; questo è il pegno ch'Italia ci dà.
        A l'armi, a l'armi, a l'armi: va fuori lo straniero.
        Tutti i partiti, tutti i buoni italiani sì fusero per la guerra mondiale : la gran causa del riscatto niun di noi volle tradir.
        Giovinezza, giovinezza, primavera di gaiezza nella forza è la salvezza ; nell' ingegno è la beltà.
        Su, con l'armi, con l'armi nel pugno; della Patria sacriamo i confini; sacri siano i lidi latini; eroica schiera alla Patria giurò.
        Trionfa a Trento, a Trieste ed a Zara, l' Italia trionfa pei lidi latini ; sacri sian d'Italia i confini tal coniando Italia ci dà.
        La Patria nostra la spada mostra; con essa trionfa da' monti al mar. Forte la speme in cor ci freme; essa alla meta ci guiderà. Forte è la speme, che in, cor ci freme, essa a la meta ci guiderà.
        Tutte le nostre idee si fondono in un nome unico Italia.
        Presentate le armi : l'Italia è e sarà. Viva l'Italia!

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Dal Corriere dell'Irpinia, Avellino, 19 maggio 1928 (VI).

        Per Armando Diaz e per lo scampato pericolo del Re. — Quando nel maggio 1915 fu dichiarata la nostra nuova guerra all'Austria, gli animi degli Italiani tutti si protesero verso una persona sola che, quale capo del nostro esercito, sembrava in, sè raccogliere le speranze e le fortune d'Italia. Ed i nostri animi erano dubbiosi, perplessi, ansiosi perchè ben arduo era appunto il compito di Luigi Cadorna, il quale, più che guidare un esercito, doveva innanzi tutto organizzarlo. Dimentica del precetto che afferma “nella pace prepara la guerra chi. da saggio previene lo stolto„ , l'Italia, per opera di una malaccorta campagna pacifista capitanata da lustri dai socialisti, si trovò, al principio della guerra_ mondiale, sfornita di quella preparazione militare, di uomini e di materiale, necessaria per ingaggiare una guerra di tanta importanza. Avvenne perciò che, mentre gl'imperi centrali si trovarono fin da principio ben pronti per la guerra, perchè i socialisti d'Austria e di Germania non avevano colà ostacolato i governi nelle spese militari, l' Italia invece doveva ancora molto preparare per la guerra. Chi organizzò uomini ed armi per l'offesa e per la difesa fu il generalissimo Luigi Cadorna. Valicata così la frontiera, ottenemmo le prime vittorie, ricuperammo dal nemico i più limitrofi nostri villaggi di confine. Ma la troppo metodica strategia di Cadorna ebbe poi i suoi svantaggi, ed arrecò qualche danno ad un più sollecito e più felice esito della nostra guerra. Temo che l'assai scarsa competenza tecnica e qualche inesatta notizia ricevuta in proposito possano indurmi in errore ; ma, ad ogni modo, per quanto so, credo che uno de' criteri più essenziali della strategia di Cadorna fu quello che la nostra linea di fronte non dovesse avere profondi incuneamenti od insenature in terreno nemico, per impedire che fossero tagliati fuori reparti delle nostre truppe.
        Per un tal sistema di offensiva, quando conquistammo Gorizia, io sentii gli ufficiali austriaci prigionieri meravigliarsi perchè noi italiani, invece di andare rapidamente innanzi, pensammo a rafforzarci, senza impellente, bisogno, sul terreno conquistato. In verità, allora credetti che gli austriaci dicessero così per farci andare inavvedutamente innanzi, e poi prenderci in trappola ; ma un rilievo simile intesi poi fare pure in occasione della conquista della Bainsizza. E mi convinsi ancora più che ì nemici parlassero allora sinceramente, quando si seppe che essi, adottando una tattica tutta opposta a quella di Cadorna, attraverso una piccola fenditura presso Tolmino, erano poi profondamente e mal-angustamente dilagati nel Veneto, negl'infausti giorni di Caporetto ed, anzichè rimanere tagliati fuori, avevano poi costretto due nostre armate a ritirarsi, per arginare l'imprevista irruzione.
        Il merito di aver impedito al nemico di inondare, allora, ancora più l'Italia fu di Armando Diaz, che a soldati più robusti, ma stanchi per la durata della guerra, sostituì il nuovo entusiasmo delle classi più giovani, ferventi in un anelito di riscossa, che aveva fatto sobbalzare la nostra penisola dalle Alpi all'Etna. I militi nuovi sentirono della Patria il nuovo comando: attaccati con le armi, con le mani, coi denti sul Grappa, fradici di acqua nelle improvvisate trincee del Piave, bisognava vincere o morire. Appunto, con giovanile ardore, li capitanava l'Eroe che -- benchè ferito gravemente a Zanzur —si era sorretto saldo sui cubiti, fin quando non si era assicurato che i suoi eran certi della vittoria. Ed i morti del Grappa e del Piave, i mutilati ed i feriti del Carso, dell'Isonzo e del Trentino son qui oggi, presenti intorno alla simbolica bara, e chiamano a gran voce l' Eroe presente. Strappano le funeree bende, ed è d'intorno tutto un fluttuare de' rossi veli onde si cinsero quando offrivano alla Patria il lor sangue vermiglio ; avvolgono l' Eroe ancora nei bianchi lini della pace, che essi conquistarono con gli strenui sforzi della guerra, ed aumentano di verdi speranze i destini d'Italia. E come a Napoleone, dopo tante fulgide e tristi vicende di guerra, aveva sorriso sino a gli ultimi giorni di vita, “bella immortal, benefica„ la fede “ai trionfi avvezza „ e “il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, sulla deserta coltrice accanto a lui „ aveva posato; così al Vincitore glorioso del Piave e di Vittorio Veneto, sorrisero, amiche e benevole, le divine visioni di Gesú e di Maria, per cui egli, impugnando nelle mani e nel cuore la Croce ed il Rosario, come un dì la spada, riunisce in un palpito solo la Fede e la Patria; mentre noi cristiani italici, suoi seguaci -- e, se possibile, emuli — nella religione e nell' amore all' Italia, fermiamo i pugni alle tempia, pensosi di Dio e della Patria; e guardiamo l'Eroe, non con gli occhi velati di lacrime, ma a ciglie asciutte, pronti a giurare come Scevola, in devoto omaggio al suo spirito ed alle grandi idee: Un Glorioso è caduto, ma trecento italiani son pronti ad operare come egli operò.
        La Monarchia italiana, con una storia millenaria, fonde sotto la tutela delle sue leggi e delle sue istituzioni tutti i partiti, ed ha di essi, anche per ciò, una vita più perenne. La storia della monarchia, forma quasi la storia della nostra Patria. Quindi la monarchia racchiude in sè un' idea vitale, quasi quanto l'idea stessa della Patria. Un' offesa al Re costituisce perciò quasi un'offesa alla Nazione tutta, al simbolo stesso della Patria. Il partito sta alla monarchia, come la monarchia sta alla Patria.
        Al di sopra della Monarchia vi è la Religione, che comprende non una, ma molte patrie; anzi quasi tutte le nazioni e tutte le patrie. Il Papa rappresenta la religione cristiana, che è la più logica e la più diffusa religione; è il capo di una patria più grande e più vasta: la Fede. L'idea del Papa richiama al pensiero l'idea di Roma, antica testimone delle italiche glorie, che anzi — Italia improntò di sua gloria, e che dette il suo spirito al mondo. Roma è la sede del Papato; e deve innanzi tutto, per tanto, elevarci a pensare a Dio. La religione raggruppa tutte le patrie in una patria più grande, la Fede. La Patria sta alla Religione, quasi come il potere terreno sta a Dio. Viva Dio, viva l' Italia !

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Da L' Unità Cattolica, Firenze, 5 Maggio 1928.

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