GERARDO DE PAOLA - ZINO e MOLOK - Casa

Casa.
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        Era una casa che si distingueva nel rione per la sua grandezza e per la sua funzionalità: la vita di famiglia si svolgeva in una spaziosa cucina, con pavimento di resistenti e lustre pianelle, fornita di una grande «fornacella», rivestita di smaglianti piastrelle smaltate di maiolica che, oltre al camino, aveva fornelli vari per tegami, per caldaia media, in cui si cuocevano pasta asciutta, verdure, ecc. e per caldaia grande, necessaria per salsa ed altro.
        Una grande finestra, assicurata da inferriata di ferro battuto, in quanto era solo ad un metro di altezza dalla strada, essendo il piano di cucina alquanto interrato, assicurava una buona ventilazione, in contrasto con la porta. Questa aveva una vetrina esterna a due battenti, di cui uno di giorno quasi sempre aperto, ed una porta interna ad un solo battente, che restava chiusa solo di notte.
        Questa posizione strategica permetteva una buona essiccazione di prosciutti e salami. Ghirlande «ri 'nsert'e» di peperoni con i gambi infilzati ad un filo di refe, come pure di castagne, nonché ghirlande intrecciate di cipolle e di agli ornavano quasi tutto il soffitto.
        L'attrezzatura di cucina era data da una cassapanca, un cassone intarsiato dai molti usi, dal tavolo da pranzo con sedie di paglia, da panchetti di varia misura «li scannitiegh'i» di cui uno con spallierina, regalato dal nonno materno «tatiegh 'o» a Zino (guai a chi lo taccava! ...), da credenza a muro e dall'immancabile, artistica cristalliera.
        Questa era la vetrina del benessere, che aveva in alto, ben allineate alcune bottiglie di liquore per le grandi occasioni (che difficilmente arrivavano), qualche bottiglia di nocino e le bottiglie di rosolio preparato in casa: erano queste abitualmente ad essere sacrificate per salvare le altre. Tra queste bottiglie in alto trovavano riparo vasetti allettevoli di sanguinaccio e di marmellata, che la mamma intendeva mettere al ... al sicuro! Sicurezza che la tradiva, perché Zino, spesso in combutta con la sorella maggiore, inerpicandosi, raggiungeva il ... rifugio!
        Sugli altri piani facevano bella mostra di sé i servizi di piatti da dodici con le zuppiere, le posate d'argento, un finissimo servizio di tazze, i bicchieri di cristallo di Boemia: tutte queste cose si sarebbero dovute usare in circostanze straordinarie, ma che, in attesa di un evento più festoso, finivano per non essere mai usate.
        Piatti, posate, bicchieri, tazze e biancheria da tavola di uso giornaliero, con tutti gli utensili da cucina erano conservati nei tiretti della cristalliera chiusa con due sportelli, e in uno stipone a muro nel sottoscala. Pentolini, tegami e casseruole di rame, resi splendenti nella grande pulizia di Pasqua, in bell'ordine penzolavano dal muro, bianco di calce, al di sopra delle maioliche.
        Tutte le provviste erano conservate in una stanza semibuia, illuminata appena attraverso la botola (fornita di imposta ribaltabile «lu kataràtt'o») che metteva in comunicazione, tramite una scalinata, il piano inferiore con quello superiore, composto di due vani, il primo, dove dormivano i bambini, di passaggio per l'altro, dove dormivano i genitori.
        In questa stanza si conservava la provvista dell'acqua in grandi conche e con due barili appoggiati su staffe a muro, in modo da poterli girare facilmente per attingerne acqua.
        Era una dispensa abbastanza capiente, antistante alla cantina scavata nella roccia, da cui era separata con un mastodontico cassone «lu cascion'e» per la provvista del grano, sistemato trasversalmente, in modo da permettere il passaggio solo da un lato. Negli strati superiori del grano si immergevano forme di formaggio pecorino e soppressàte «subbursót'e», adeguatamente essiccate, per una buona conservazione a temperatura naturale e costante.
        Il caciocavallo e forme di formaggio da mangiare erano appesi al soffitto, insieme a prosciutto, lardo, salami vari, vesciche «r'e vessich'e» piene di strutto «la nzógna»; salsicce «li salzicch'i» e soppressàte da conservare più a lungo, erano sistemate, le prime in vasi riempiti di strutto e le seconde sottolio; i peperoni sottaceto erano conservati in grandi recipienti di terracotta a forma di giara «ri fusin'e p'e li piparuol'i a l'acît'o».
        Una porta laterale dava in una stanza attigua adibita per la provvista di legna e per la conservazione in cassonetti «casciuncigh'i» di legumi, granone e frutta secca. Sul pavimento si conservavano patate, mele, cipolle grandi e, al soffitto, grappoli intrecciati di uva, cerchietti essiccati di zucca «r'i ghiettol'e» o di ciocche «ri ciock'e» di pomodori, di cipolle piccole, di agli ecc.
        La cantina invece era fornita di tino grande «la tin'a» per il pestaggio dell'uva e per la successiva fermentazione del mosto con la vinaccia «la vinazz'a», di tinozzi di varie misure «li tinûzz'i», e di tinelli «li tinigh'i»; di bótti grande e media «ri vûtt'e», piccola e piccolissima «lu vasciegh'o e lu vuttuciegh'o» (dal lat. vascellum, dim. di vasculum, a sua volta dim. di vas); di barili grande e piccolo «la mantegna e lu varril'e», di imbuti e orciuoli vari «li 'mmût'i e l'arciùl'i » che servivano sia per imbottare « i mmûttó », con quelli più grandi, sia per spillare e imbottigliare il vino dalla cannella «la canneggh'a». Questa era un corto tubo di legno, con o senza rubinetto, innestato nel foro alla parte bassa della bótte. Quando non c'era il rubinetto, si ostruiva la cannella con un tappo, ugualmente di legno, coperto da un lato di stuello, stoppa fortemente attorcigliata, donde il termine dialettale «lu struêgh'o», che all'idea dell'ostruire univa l'idea dello stuellare.
        In un grande scaffale a muro erano ben affilati vasetti di marmellate varie e tantissime bottiglie di salsa e di pomodori, ben turate con tappi di sughero, legati con spago «r'e buttîgl'ie r'i salz'a e r'i pummarór'e, arruppulót'e cu l'ûppil'i attaccati cu lu spôgh'o».
        La salsa, dopo la bollitura dei pomodori, era passata a setaccio a strappi di mano, donde il nome dialettale di questo tipo di colino «col'o a stratt'e = setaccio a strappi». Diversa era la salsa che si faceva essiccare al sole e la si conservava, donde «cunserv'a» in grandi vasi di terracotta. Questa provvista richiedeva la collaborazione di tutti in famiglia, per cui era un momento aggregativo molto bello ed un'occasione meravigliosa di responsabilizzazione dei figli alla vita, nella gioia di un reciproco servizio e di condivisione dei bisogni familiari.
        La famiglia mastro Laterizio, anche dopo la chiusura della fornace, aveva conservato la tradizione di fare queste provviste sotto la pensilina antistante al capannone di lavorazione dei mattoni dove, in un angolo, tra il muro della fornace e quello del capannone era sistemata la grande caldaia col tripode «la callar'a cu lu trept'e» e, su tutto il piano, quanto occorreva per la lavorazione.
        Zino ricorda con immenso piacere questa esperienza di coinvolgimento nelle cose di famiglia che, anche se lo strappava precocemente alla spensieratezza adolescenziale, lo faceva sentire «importante», per la specializzazione acquisita in alcuni ruoli.
        Alla sera precedente, aiutava il padre a preparare la legna necessaria per il fuoco ed a trasportare l'acqua, per la lavatura di pomodori, bottiglie ed altro, cui erano addette le donne.
        Alla mattina successiva, prestissimo, sempre col padre, Zino era impegnato nell'operazione interscambiabile di alimentazione del fuoco e di bollitura dei pomodori, da rimuovere continuamente nella caldaia, con un grosso cucchiaio di legno a lunga asta «la cucchiar'a», da non confondere con la schiumarola «la skûmarègh'a», in modo da non far attaccare la salsa al fondo di essa. In questa fase, non mancavano l'abbrustolimento delle pannocchie sulla brace e la cottura di patate o castagne sotto cenere.
        Dopo questa prima fase di lavorazione, Zino provava anche la gioia di aiutare la mamma nel lavoro al «col'o a stratt'e» e soprattutto nella legatura dei tappi, in cui si era «laureato con lode». Quanto sarebbe entusiasmante la scuola, se alla laurea si potesse arrivare ... giocando, divertendosi e gustando la gioia di realizzarsi «con gli altri e per gli altri»!
        Questo pensiero richiama alla mente un'altra avventurosa esperienza di Zino, negli anni del corso liceale. I classici latini lo appassionavano talmente, che non si accorgeva delle ore che passavano, soprattutto alla sera dopo cena, tanto da arrivare alle volte alle ore piccole, nel tradurre opere intere di autori come Virgilio, Orazio, Lucrezio ecc.
        Quando la mamma, dopo alcune ore di sonno si svegliava e, dalla luce che filtrava attraverso le fessure della porta, si accorgeva di queste «scorpacciate» del figlio, lo rimbrottava con minacce, che chiaramente sapevano di finzione materna: «uaglió, la vuoie firnì o t'i vengo a pigliare cu la furcèggh'a = giovanotto, la vuoi finire o ti vengo a prendere con la forcella (dal lat. furcillam, dim. di furcula, a sua volta dim. di furca = forca), lunga asta di legno costituita da un ramo biforcuto, scortecciato, che serviva per stendere lenzuola e coperte nel rifare il letto, e quindi sempre a portata di mano, per... altri usi (della stessa radice sono i termini dialettali «lu furciggh'o e la forca = attrezzo per rimuovere paglia, foraggi e sim., costituito il primo da due denti e il secondo da tre o più denti, collegati ad un manico di legno).
        Una sera di settembre Zino aveva concordato col padre, durante la cena (meravigliosi momenti di comunione, di dialogo, di consigli di famiglia, di battute scherzose!...) di andare all'indomani, di buon'ora, a tagliare una partita di granone molto lontana.
        Dopo la cena il padre va subito a letto, mentre Zino, messosi a studiare, non accorgendosi delle ore che passavano su pagine delle Georgiche, ricorda bene, scivola nel letto solo verso l'una, piombando subito, logicamente, nel sonno... profondo. Ma, dopo nemmeno un'ora, si sente scuotere decisamente dal padre che, avendo notato l'orologio fermo all'una e trenta e credendo che fosse tardi, perché lui aveva riposato abbastanza, gli sussurra all'orecchio, per non svegliare gli altri: «presto, Zino, è tardi, dobbiamo partire!»
        Il poveraccio, pur non essendo convinto di quanto gli era stato bisbigliato, fedele all'impegno preso, con gli occhi appesantiti ancora dal sonno e tenuti, a mala pena, semi-aperti, raggiunge alla stalla il padre che, frattanto, aveva già imbastato l'asino, e intraprende l'avventura, con le gambe barcollanti.
        Come Dio volle, dopo oltre un'ora di cammino al chiaro di luna, giungono al campo e, armati di falce, iniziano l'operazione del taglio. Zino, quasi invidiando l'aurora che sembrava non volersi svegliare, per debellare definitivamente il sonno, sfida il padre in una gara di velocità a fare i mucchi più grandi, con lo scopo, in verità, di aiutarlo anche a superare un oscuro senso di vergogna per la «gaffe» presa.
        Le prime luci dell'alba trovano la partita di granone completamente tagliata e, quella mattina, i due, soddisfatti ormai dell'avventura, sembrano unire questa profonda nota del loro entusiasmo, al trionfo melodioso del risveglio della natura. Ambedue sono contenti di aver alleggerito il peso di una giornata campale, prima ancora che iniziasse, per cui il padre si concede un pausa di lavoro, passando ad una gustosa fumata di pipa: aveva questa una cannuccia di aspirazione molto lunga ed un fornello di creta, abbastanza capiente, accuratamente pressato di tabacco, per l'occasione, onde assaporare il piacere, quanto più a lungo possibile, a compenso dell'avventura notturna.
        Il figlio, invece, fa esplodere la sua gioia interiore in una galoppata ... di asino, per condurlo ad abbeverare e per fare provvista di acqua solforosa, caratteristica di un pozzo di quella zona.
        Il pozzo si conserva ancora e l'acqua contiene acido solfidrico e solfuri di sodio e calcio, con proprietà blandamente purganti, diaforetiche ed espettoranti.
        I salutari effetti di quest'acqua sono notati, esperienzialmente, anche dalle mucche che, a fine stagione del pascolo, nel mese di novembre, costrette a rimanere nella stalla, come confidava a Zino un vaccaro, stanno anche due o tre giorni senza bere, prima di adattarsi, per necessità fisiologiche, ad acqua diversa; al contrario, a inizio del pascolo nel mese di maggio, corrono immediatamente a dissetarsi all'acqua solforosa. Bestie provette, senza strumentazione alcuna, in ... analisi di acqua! Curiosi scherzi di natura, la cui osservazione potrebbe, non dico sostituire, ma almeno integrare tante noiose lezioni sui banchi di scuola!
        Quella mattina Zino, ad un pastore che faceva abbeverare il gregge allo stesso pozzo, fa notare che il cane da guardia a mala pena si reggeva in piedi. E quegli di sussiègo: «è questione ri vecchiaia, Zino, ma ti pozzo ric'e ca quier'o bestiôn'e è stato nu grand'e scienziato = è questione di vecchiaia, Zino, ma ti posso dire che quel bestione è stato un grande scienziato!»
        «E pecché = e perché?» chiede Zino incuriosito.
        «Oltre 15 anni fa, lo presi cucciolo da una famiglia lontana di qui, l'ho cresciuto come un figlio e mi è stato di grande aiuto: fedelissimo nel fare la guardia a tutta la proprietà, a tenere insieme le pecore durante il pascolo, perché nessuna scantonasse nella proprietà altrui, ma anche perché nessuna dei greggi viciniori scantonasse nella mia proprietà, unendosi al mio gregge. Quasi a delimitare i confini, ogni giorno li percorreva in lungo e in largo, senza mettere mai piede nelle proprietà altrui...». Genialità di un agrimensore e ammirevole «consonanza», come direbbe Claudel, tra pastore, cane e gregge!
        Al ritorno dal pozzo, Zino ha qualcosa di piacevole da raccontare al padre, mentre si accingono a passare alla seconda fase di lavoro: staccare le pannocchie dagli «stinchi», cui abitualmente erano addetti donne e bambini, che sarebbero giunti più tardi con la colazione da consumare.
        Tutta la campagna cominciava ad animarsi di persone, che davano... normale inizio alla giornata. Per il carraio «lu carrar'o» passò per primo un compare che, salutando allegramente i due «nottambuli», con sorpresa fece notare: «Santu Martino, (espressione di meraviglia) cumpa'ri, l'avîte fatta priest'o stamatin'a! ma ricitem'i la verità, la cóta l'avît'e stincat'a ier'í ser'a? = San Martino, compari, l'avete fatta presto, questa mattina! ma ditemi la verità, la quota (parte, partita) l'avete tagliata ieri sera?»
        La verità venne fuori tra clamorose risate e con una punta di «compassione» per il più giovane che, a completare la ridicolezza dell'avventura notturna, si affrettò ad aggiungere: «cumpare, ma tu nun saie ca ei'o avevo appuntato appen'a l'uocch'i, quann'o tat'a m'ha svegliat'o... = compare, ma tu non sai che io avevo chiuso appena gli occhi, quando tata mi ha svegliato!...» e giù, altre risate a crepapelle che, compensarono largamente il sacrificio fatto. L'edizione fu riveduta e arricchita di altri particolari all'arrivo della mamma, delle sorelle e di altri familiari. Avventure di altri tempi!
        Dopo l'abbondante colazione, innaffiata logicamente da buon vino, il lavoro procedette alacremente fino al tramonto del sole, impegnati tutti in un lavoro a catena: Zino e il padre a trasportare con asina e mulo le pannocchie in paese, che si ammonticchiavano in un angolo della piazzetta del rione; i bambini a staccare le pannocchie dagli arbusti «li stinch'i»; le donne a trasportare ed a raccogliere quelle nei sacchi, e a legare questi in fastelli, portati poi nei punti di raccolta; qualche ragazzo con le stoppie tenta di abbrustolire alcune spighe ancora al latte, per sé e per gli altri.
        È tutto un fervore di operazioni diverse, collegate armoniosamente le une alle altre, in sinfonia polifonica di entusiasmo, che spesso tracima in canti, quasi «ouverture» delle corali serali, che si formavano numerose nei vari rioni del paese o sulle aie, quando si liberavano le spighe dalle bràttee «scuffulô», per farle poi essiccare al sole nei giorni successivi.
        Così, finalmente, si può arrivare all'ultima fase della raccolta, uno dei lavori più duri, ma fatto sempre in allegria, da squadre di nerboruti uomini che, stando prima seduti a terra a gambe divaricate, e poi in ginocchio, gli uni di fronte agli altri, battevano con robuste mazze, sul mucchio delle spighe, che le donne provvedevano ad alimentare man mano, per fare staccare il granone dai tutoli, passati poi ai bambini per staccare manualmente qualche acino rimasto ancora legato.
        Quante occasioni perdute di crescita comune tra piccoli e grandi, in una melodiosa coeducazione, per tantissimi videodipendenti, passivamente parcheggiati davanti a «mamma televisione!»
        A quale scempio di linguaggio e di esperienze esistenziali abbiamo passivamente assistito, nel farci spogliare, all'insegna del progresso, della genuina cultura delle nostre origini, additata ipocritamente in questa corsa frenetica allo «effimero», come sub-cultura di cui, farneticamento, liberarsi. A mo' di esempio, cerchiamo di assaporare poesia e logicità del linguaggio nei termini usati per le varie fasi della surriferita lavorazione: stincâre = tagliare l'arbusto a pie' dello stinco; stutulóre = staccare la pannocchia (indicata con la parte: il tutolo) dallo stinco; scuffulôre = togliere le bràttee dalla spiga; sim mazzâre battere assieme con la mazza.
        Inoltre, dietro la spinta dell'inquinamento e della crisi economica, oggi si sta riscoprendo l'utilità del riciclaggio che, soltanto cinquant'anni addietro, era connaturale alla nostra cultura contadina. Basti pensare all'utilizzazione del granoturco in tutte le sue parti: foglie e piante, come foraggio; bràttee, per riempire pagliericci e per la fabbricazione della carta; tutoli, come combustibili, concime e, quando erano freschi, come mancime; granone, come nutrimento essenziale per uomini e bestie. Simpatica la battuta spiritosa di un contadino che, dopo aver governato il maiale, diceva ad un compare: «ho dato del granone all'amico mio; oggi sono io a dargli da mangiare, domani sarà lui a dar da mangiare a me! ». Infine il terreno coltivato a granone in un anno, era predisposto per un'ottima semina di grano nell'anno successivo, in un promettente avvicendamento.
        Dopo questa lunga parentesi, riprendiamo il discorso della casa, il cui piano superiore era adibito a dormitorio, con due stanze da letto: la prima per i bambini e l'altra per i genitori.
        Nella prima c'era anche, in un angolo, tutto l'occorrente per lavarsi: treppiedi in tondini di ferro, allargati alla base, sagomati e saldati al centro ad un cerchietto, su cui si appoggiava un piattino portasapone, e allargati di nuovo verso l'alto, per poi formare un cerchio più grande, sul quale si appoggiava il bacile, ed un semicerchio alquanto più alto e ripiegato leggermente all'esterno, sui cui si stendeva l'asciugamano, dopo l'uso. C'erano poi una grande brocca, per il rifornimento dell'acqua, ed un secchio, in cui si versava l'acqua di rifiuto, per poi buttarla sulla strada.
        I bambini dormivano in un letto matrimoniale: a capo le due sorelle ed all'opposto, per un gesto di «cavalierato», Zino, che 'poteva così sentire meglio i discorsi degli adulti in cucina, attraverso la botola della scalinata, soprattutto quando essi erano convinti che i bambini, mandati a letto, già dormissero.
        La botola si chiudeva quando i genitori andavano anch'essi a letto, mentre i tre dormivano o facevano finta di dormire. Zino ricorda con piacere uno dei tanti «spettacoli riservati» di quelle serate meravigliose (altro che televisione!), che si protraevano a lungo, fino a quando non si «cascava» dal sonno.
        Una sera i tre, stanchi ormai dello spettacolo, stanno per addormentarsi, quando giungono due cugine con un cesto di fichi, pesche e prugne tardive chiamate «verdoni», dal colore verde intenso, di cui tutti i bambini erano ghiotti.
        Zino, con una forte pedata alle sorelle suona l'allarme, richiamando l'attenzione sulla gradita sorpresa: stanno tutti e tre per sgusciare dal letto seminudi, soltanto con una camiciola intima, che sostituiva allora il pigiama, e piombare in cucina, per un «comune assaggio», magari condito con qualche scappellotto, per le condizioni in cui si sarebbero presentati i «provetti paracadutisti».
        Zino, aduso a ridursi a buono o cattivo genio delle sorelle, ha un colpo di «genialità» e suggerisce loro, invitandole a rimanere «in coperta»: «aspettamm'o ca mamma port'a la coscin'a rind'o, ca po'í ci penz'eio = aspettiamo che la mamma porti la cesta dentro (la dispensa), che poi ci penso io!». Le sorelle accettano la proposta, sicure di non rimetterci.
        Le cose vanno come il furbetto aveva intuito: dopo il conclamato assaggio degli adulti, mamma Fermezza (la chiamiamo così per la sua tenacia), porta la cesta in dispensa e chiude la porta, per non svegliare i «dormienti», con la conversazione che si protraeva.
        Il previsto piano di guerra scatta con l'attacco del progettista che, quatto quatto, a piedi scalzi, attraverso la rampa della scalinata, piomba sull'obiettivo strategico, per accogliere nel lembo della camiciola un primo rifornimento di assaggio, per la nidiata che attendeva, certamente dopo un fuggevole ... assaggino personale.
        La discussione in cucina continua animata per un bel po' di tempo, per cui gli attacchi di rifornimento sia di Zino che di Zina, la sorella maggiore, si moltiplicano fino al punto da lasciare agli adulti solo la creanza «la crijanz'a un segno di cortesia», per un secondo assaggio all'indomani. La mamma di buon mattino, annusata la spedizione notturna, passa al ... contrattacco.
        Separava il letto dei bambini, cambiato spesso in palcoscenico, dalla botola, una grande cassa, a forma di parallelepipedo, assicurata da un pesante coperchio con cerniere in ferro e serratura di sicurezza. Serviva per tenere al sicuro indumenti pesanti di valore, corredo matrimoniale della mamma, denaro, oro e preziosi, documenti importanti e quanto di più geloso ci potesse essere in famiglia.
        Il senso del mistero, che circondava questa preziosa arca, sollecitava irresistibilmente la curiosità infantile dei tre, che non si contentavano di qualche furbesca sbirciatine, strappata nel momento in cui la mamma l'apriva, ma il duo-Zino programmava ogni tanto qualche «sopralluogo» più soddisfacente, quando si riusciva a pescare la chiave nei posti più impensati.
        Il piano strategico, programmato in tutti i dettagli, non mirava a sottrarre qualcosa dalla cassa, coscienti della preziosità del serbato, ma soltanto alla viva soddisfazione di toccare l'intoccabile, sempre con tanta circospezione e massima accortezza di non lasciare mai un benché minimo segno dell'avvenuta ispezione della polizia segreta «duo-Zino».
        L'entusiasmante operazione poliziesca avveniva sempre in assenza, alle volte pilotata, della sorella minore, perché prima o poi il «servizio segreto duo-Zino», una tomba, sarebbe stato sbaragliato dal «servizio ruffianeria».
        Zino cominciava così a scoprire, giocando, la rassicurante importanza del «sistema preventivo», che caratterizzerà tutta la sua vita. La conoscenza successiva di alcuni tratti della figura di Don Bosco, suo costante modello di riferimento, lo confermerà nella bontà del sistema.
        L'arca serviva ai ragazzi, alle volte, come pedana di salto nel letto, per sprofondare tra «li cuffil'i» del pagliericcio.
        I muri erano ornati di un crocefisso di metallo (tra le pochissime cose, ancora conservato), di un quadro del Rosario e di quadretti contenenti foto di famiglia.
        La stanza dei genitori, oltre al letto formato da un tubolare artisticamente lavorato, con pomi, cerchietti e ornamenti vari nichelati, era fornita di un grande armadio a due battenti e tre corpi, per biancheria e vestiario, di un bel comò intarsiato, a quattro tiretti, di un pregiato tavolino ad un tiretto con piedi sagomati terminanti a zampe di leone, finissimamente istoriato, in accordo armonico con la sedia ed un grande specchio regolabile, fornito di un piccolo tiretto per l'occorrente.
        Qualcuno forse si meraviglierà della compiaciuta puntualizzazione di lavorazione artistica dei mobili di casa, ma bisogna sapere che tale mobilio, dato in dotazione al matrimonio della mamma, era stato amorevolmente lavorato dal patrigno, chiamato dai nipoti « tatiello » e dal fratello di mamma Fermezza, che erano degli artistoni.
        Il secondo, chiamato «mastro Ridanciano», perché al suo estro artistico univa un'arguta bizzarria, a tutti nota. Ancora giovane, era tornato una sera dal lavoro, con una grande voglia di mangiare qualcosa di appetitoso, quando, entrando in casa, sbirciò una grande pignatta, in cui erano tenute al caldo, vicino al fuoco, verdura e cotenne, e in un recipiente di argilla «lu chienk'o», in cui stava ancora cuocendo la pizza di granone. Fu per lui una grande delusione, ma non si perdette d'animo.
        In attesa che giungessero tutti, ottenne dalla mamma, che i nipoti chiamavano «mamma Iuccia = mamma Mariuccia», il permesso di preparare egli stesso, per secondo, salsicce e peperoni all'aceto «salzecchie e peparuol'i a Tacito», di cui era particolarmente ghiotto. Gli altri ritardavano a tornare ed egli avvertiva irresistibili gli stimoli della fame, non certo soddisfatti dai ripetuti assaggi, che avevano già ridimensionato abbastanza il secondo per tutti. Ebbe allora un lampo di genialità!
        La mamma era ancora impegnata nel lavoro al telaio, quando il giovanotto smorzò la luce a petrolio e, fingendo che fosse caduta nella padella, gridò: «ma'mma, m'è caruta la luc'e rend'a a la tiella = mamma, mi è caduto il lume nel tegame!». Stizzita la mamma rispose: «e mó, mangiatteggh'i toû = e adesso mangiali tu!». Detto, fatto! Alla fioca luce del fuoco, divorò in pochi minuti i pochi resti degli assaggi e scappò fuori, soddisfatto della buona riuscita dell'impresa, trasmessa agli amici «quasi in diretta...».
        In un'altra circostanza, trovandosi a giornata presso una famiglia, la padrona di casa gli aveva preparato a colazione peperoni all'aceto e salsicce, ed essendo lei impegnata a rassettare la casa, l'aveva lasciato a tavola a mangiare ad un unico piatto, con i bambini. Questi, furbescamente, si affrettavano ad infilzare solo i pezzi di salsicce, lasciando al «mastro» i peperoni. Questi rimuginava fra sé «che fissareia, stamatîn'a, ca me l'aggia fà fàre ra quatt'ro meccûs'i = che fesseria, questa mattina, che me la debbo fare fare da quattro mocciosi».
        Approfittando della lontananza della mamma, cominciò a pungere con la forchetta le mani dei bambini, i quali, logicamente, scoppiarono a piangere l'uno dietro l'altro. Quella chiese sorpresa: «pecché, z'io mâstro, ri criatur'e chiangon'o = perché zio mastro, i bambini piangono?» e questi: «li piparuol'i so'no troppo amar'i, padrô'na = i peperoni sono troppo forti, padrona!» e quella di rincalzo: «uagliou'ni, mangiatev'i sûlo pan'e e cas'o = bambini, mangiate solo pane e cacio»... Anche questa volta, battaglia vinta!, logicamente divenuta poi motivo di vanto presso amici e conoscenti.
        Ancora un episodio grottesco.
        Mastro Ridanciano, impegnato un giorno nella revisione del tetto di una casa di campagna, si era accorto, facendo colazione, che la padrona si accingeva a preparare per il pranzo verdura e pizza di granone «minestr'a e pizza a lu chiènk'o» che, come già sappiamo, non gli andava molto a fagiuolo, e nemmeno i compagni di lavoro gradivano tanto, per cui si programmò, sotto la guida del «generale», un sorprendente piano bellico.
        Da uno dei fanti «nu riscipl'o = un discepolo, apprendista» si fece portare sul tetto una cofana di pietre di fiume arrotondate «na cardarell'a ri tunnîzz'e = recipiente metallico a due manici», che appoggiò sul comignolo di casa, in attesa di... attacco!
        La padrona di casa, frattanto, aveva preparato la pignatta con cotenne e cotechini, l'aveva messa a bollire presso la bocca interna del camino, insieme alla padella di creta «lu chiènko», sistemata sul fuoco, per farla arroventare. Mentre impastava con acqua calda la farina di granone, per versarne l'impasto nella padella a cuocere, ad un segnale acustico (un bel fischio, seguito da un verso canterellato) del fante di... guardia, scattò l'allarme e attraverso il comignolo, venne giù, rovinosamente, una impetuosa pioggia di pietre che, rotolando alla base del camino, fracassarono padella di argilla, ormai arroventata e più fragile, e pignatta ridotta ad un mucchio di cocci, insieme al contenuto, mentre il brodo, versandosi sul fuoco, fece sollevare un nugolo di cenere in tutta la cucina. L'obiettivo militare era stato disastrosamente colpito da quel bombardamento, telepilotato, di pietre roteanti, che sembravano impazzite!
        La donna, in preda a disperazione, venne fuori come una forsennata e, convulsamente, gridò: «ch'e è succiess'o z'io mâ'stro = che è successo zio mastro?».
        «M'iaia scusà, padrô'na, avev' appuggiôt'o na cardarell'a r'i pret'e i'n cimm'a a lu cacciafum'o e quir'o vocc'apiert'o ri riscepl'o l'hav'e urtôt'a e tutt'e ri pret'e so'no carut'e rint'o = mi devi scusare, padrona, avevo appoggiato una cofana di pietre in cima al cacciafumo, e quel bocc'aperta di discepolo l'ha urtata e tutte le pietre son cadute dentro».
        «E mò cumm'e facîmm'o, ca chiènk'o e pignatta si so'no scasciat'e = e adesso come facciamo, poiché padella e pignatta sono scassate?».
        «Nun ci pensàre padró'na, tou mittet'i a fàre quattro trieggh'i, e eio mmann'do lu uaglio'ne a virè se trova mica picciûn'i tienri tienri (che il furbacchione aveva già adocchiato alla colombaia) e fài lu sugo; nun face niente ca mangiam'o nu pecca chiù tard'i, pazienz'a! = non ci pensare padrona, tu mettiti a fare quattro cavatelli ed io mando il ragazzo a vedere se trova dei piccioni teneri teneri e fai il sugo; non fa niente che mangiamo un po' più tardi, pazienza! ».
        «E va buóne = e va bene!»
        Così da un pranzo di poveracci si passò ad un pranzo festoso per tutti, condito «in esclusiva» dalle risate, contenute in quel momento, ma che avrebbero avuto ben presto vasta risonanza, in tutto il paese... e non solo allora!
        Bei tempi, in cui il lavoro, pur nella sua durezza, era percorso sempre da divertimento, fino a diventare esso stesso un divertimento, un gioco interminabile che, sollecitando la fantasia, riempiva mente e cuore, e, perché no, ... lo stomaco!
        La descrizione particolareggiata della famiglia mastro Laterizio, con il fuggevole riferimento alla vigna e, soprattutto con i dettagli della casa nativa, unitamente ai ricordi infantili di Zino, può aiutarci a riscoprire la meravigliosa ricchezza della cultura artigiano-contadina (non sfociante, certamente, nello stress, di cui oggi siamo vittime), come può guidarci in questo cammino di scandaglio della personalità del nostro protagonista, in tutte le sue espressioni e, particolarmente, in ciò che ha segnato profondamente la sua vita e la sua vocazione.

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