Vallata - brevi cenni storici - L'Apostolo delle Calabrie Ven. P. Vito Michele Di Netta - Capitolo II - In Calabria.

CAPITOLO VI.

In Calabria.

 SOMMARIO. — Idea delle Calabrie dal punto di vista religioso — Fremiti del cuore di S.Alfonso per esse — Difficoltà incon­trate — Il Di Netta prescelto per quelle Missioni — Perchè? — Prima in Catanzaro, poi in Tropea — Campo immenso per lo zelo di lui — Prodigi di apostolato — A volo di uccello

    Non è possibile avere l’idea completa di quello che sono le Calabrie, rimirate dal punto di vista religioso; come a formarsela non basta percorrere di volo i littorali; e visitare qualche città capoluogo: occorre penetrare nell’interno di esse, abitarvi, viverci, ascendere le sue montagne, internarsi in certe sue gole selvagge… per osservarne l’abbandono, e talora la desolazione, e giudicare in conseguenza, delle difficoltà che s’incontrano nell’evangelizzarle. Nei borghi e nei villaggi suoi si incontra bensì una popolazione piena di fede, ma, per l’assenza talora assoluta di soccorsi religiosi, è altresì immersa nella più crassa ignoranza. Il Calabrese poi, pur avendo buon cuore, è insieme sottoposto a delle impressioni di una fantasia ardente, e talvolta - sfrenata, quindi le passioni che esorbitano, le collere gli odii implacabili, le inesorabili vendette con i delitti compiuti a sangue freddo, e lo stesso brigantaggio, che ha dato già materia a tanti e svariati romanzieri.
    Quanto è grande dunque colà il bisogno di veri Apostoli, votati alla fatica e al sacrifizio! Quale largo campo per uno zelo instancabile e santo!
    All’illustre Apostolo del secolo XVII, S. Alfonso, la parola «Calabria» metteva i fremiti nel cuore. Si sentiva egli aver avuto dal cielo la missione di evangelizzare popoli abbandonati e privi di soccorsi spirituali, e fin dalla fondazione del suo Istituto aveva accarezzato il disegno di recarsi colà, e aprirvi un largo campo di missioni e di peregrinazioni apostoliche. Questa sua aspirazione formava spesso l’argomento di discorsi coi compagni, come l’argomento di continue preghiere a Gesù. Ma le difficoltà numerose e gravi che accompagnarono il sorgere del suo Istituto, e la pochezza relativa dei Missionari di che disponeva, ritardarono il compimento e l’attuazione del suo disegno.
    Alle richieste, che talora gliene venivano da quelle remote regioni, egli spesso rispondeva più con le lagrime che con la penna: «Vedo da per tutto ingiallire le spighe, ma gli operai mancano per raccogliere la messe ».
    Si aggiungevano ancora le difficoltà regalistiche di quei tempi, con le difficoltà del viaggiare. Sant’Alfonso avrebbe più volentieri prese delle fondazioni in Calabria, anzichè esporre i suoi Missionari, col loro andare e ritornare, alle fatiche e pericoli di un lungo viaggio, attraverso aspre gole e vie alpestri di monti e di boschi. Ma il Governo gl’impediva tali fondazioni. Solo tre anni dopo la morte del Santo, nel 1790 si ottenne la grazia di aprire in Calabria tre Case, quella di Catanzaro, Tropea e Stilo. Durante la sua vita, egli si dovè contentare di spedire colà ora 1’una ora l’altra compagnia, compiervi un giro di Missioni, e poi tornare.
    Senonchè questa pasione del Santo per l’evangelizzazione delle Calabrie, invase pure l’anima dei santi suoi figli,e questi, assegnati colà, provarono gli stessi fremiti del Padre, e chiusero gli occhi a tutti i trapazzi ed ai grandi lavori, inseparabili con quella dimora.
    Il nostro Ven. Di Netta fu uno dei prescelti per colà, avendo avuto sempre di mira i Superiori nello assegnare i soggetti per quelle regioni, di prendere coloro che apparivano più maturi per senno e per virtù.
    E in ciò fare essi seguirono il pensiero e la pratica di S. Alfonso. Depone il nostro P. D. Pasquale Caprioli nel Processo delle virtù di Lui «che il Santo nel comporre le compagnie per colà, sceglieva tutti uomini commendevoli per età e per spirito religioso. Soleva altresì escludere i giovani, per non esporre la loro virtù in paesi ove la primitiva semplicità dei costumi e la soverchia famigliarità degli abitanti, potevano esser loro un pericolo. Prescriveva pure ai membri della carovana di lasciarsi crescere la barba, per darsi un aspetto più severo, e proibiva espressamente di lasciarsi baciar la mano, ancorchè questo fosse l’uso di quel paese».
    Il P. Di Netta nell’essere designato per le Calabrie, subito dopo l’ordinazione sacerdotale, era bensì giovane, ma le sue virtù facevano abbastanza affidamento, e venne inviato alla Casa di Catanzaro.
    Era l’ottobre del 1811, e governava l’intiero Istituto il Rev.mo P. D. Pietro Blasucci.  
    Con poche parole egli ne rese partecipe lo zio: «Domani appunto (10 Ottobre 1811) partiremo per le Calabrie, piacendo al Signore. Io ne vado contento, ci scopro in questo la volontà di Dio! La città di Catanzaro formerà la mia residenza»…  
    La fama delle sue virtù lo avea percorso, e perciò in quella comunità fu di festa il suo arrivo. Fu tosto occupato nelle opere del ministero apostolico, e nei minori uffici della Casa, e impiegandosi egli a tutto con quell’amore, ordine, e spirito religioso, che abbiamo visto nei propositi dianzi accennati, non è a dire quanto ne restasse ammirato e ben amato. 
    Però Iddio avea   stabilito campo e centro di sua operosità Tropea e dispose che dopo pochissimo tempo di dimora in Catanzaro, venisse traslocato in quell’altra Comunità, e assegnato ivi di residenza.  
    La Comunità di Tropea costava allora di otto Padri e tre fratelli laici, ma il Ven. Di Netta, ne divenne tosto come il centro, e la favilla più vivida. Egli vi trasportò il suo santo metodo di vita, le sue pratiche di virtù, il suo fervore di volontà, le sue sante risoluzioni, dalle quali non smise mai,come avremo occasione di notare in prosieguo: in tal maniera non era possibile non farsi amare, e non ispirare in tutti il concetto di un uomo che esce dal comune, e batte le ardue vie della perfezione, e della santità.
    Un tal concetto non fu soltanto quello dei suoi compagni di Comunità, ma di tutti quelli che a poco a poco andavano avvicinandolo e conoscendolo; e non solo di Tropea, ma dei numerosi popoli ove si recava pel ministero.
    La sua vita ivi si manifestò tostamente di  un’operosità senza pari, ed a misura che constatava gl’immensi bisogni  di quelle plaghe estese e abbandonate, prendeva nuove vampe il suo fervore, ed il suo zelo si moltiplicava in  modo del tutto prodigioso. Correva di paese in paese, non risparmiava nulla, usava tutti i mezzi e risorse apostoliche, dimenticava tanto spesso la sua persona ed i suoi bisogni più urgenti, pur di procurare la maggior gloria di Dio, e il bene delle anime.  
    Aveva preso l’uso di porre a capo dei suoiscritti e delle sue lettere, di porre in mezzo dei suoi discorsi, di cominciare e finire ogni suo atto, con la frase prediletta di S. Ignazio: Ad maiorem Dei gloriam. A dì 5 novembre 1816 scrisse nel suo giornalino: «Rinnovo il proposito di non allontanare la mia mente dalla presenza di Dio, e di fare ogni cosa con la giaculatoria di S. Ignazio: 
    Ad maiorem Dei gloriam ». Ebbene con queste parole in bocca, egli sentiva aumentare gl’impulsi del suo interno, e lavorava, lavorava senza posa, senza tregua, fino a diventare conseguentemente e farsi appellare da tutti «Apostolo delle Calabrie ». 
    L’apostolato perciò, ecco la base su cui poggiò tutto l’edifizio di sua santità, e che ne formò la caratteristica speciale. 
    Si può affermare - ed occorre notarlo bene fin da ora - che il Di Netta ebbe la missione di evangelizzare le Calabrie: una missione immensa, cui egli corrispose da santo, e per la quale ebbe aiuti speciali dal cielo, senza i quali non potrebbero avere spiegazione i frutti che ne ottenne, ed il bene grande che ne cavò. Penetrò in quasi  tutti quei paesi piccoli e grandi, ed in quasi tutte le parrocchie di che essi costano, ed i vantaggi che ne ebbero le anime non si misurano. Le moltitudini erano innumerabili, che correvano, anche da lontanissimi paesi, a udirlo, e rimanevano convertite in un modo del tutto meraviglioso. 
    I compagni suoi di fatica ci affermano di lui cose appena credibili. Si racconta che si pendevacome estatici dal suo labbro ad ascoltare una parola che liquefaceva ogni cuore, e che tramutava anche i più facinorosi. Di tanti di questi anzi fino ai giorno d’oggi si ricorda il nome, come le nefaste prodezze, di che si eran resi tristamente celebri. Al suo appàrire in mezzo ai popoli cessavano gli scandali, per quanto radicati, ed anche donne le più perdute, e talvolta affatto indifferenti marcie nel vizio, rimanevano come per incanto tratte a Dio, fino ad assorgere spesse fìate a perfezione straordinaria. Gli odii, i litigi, le cause di sanguinose vendette finivano, ed ai piedi del zelantissimo Servo di Dio, si portavano le armi omicide, i romanzi, i libri perversi, le figure disoneste, gli strumenti di musica, od altro oggetto che prima era servito di incentivo al vizio ed al mal costume. Cose tutte che egli faceva ardere in grosso falò, o spezzare dal martello del fabbro-ferraio al cospetto del popolo, che esultante, innanzi a quel cumolo di cenere e di frantumi, applaudiva all’apostolato di lui, ed alla grazia che per esso trionfava. 
    Basta scorrere di volo le pagine del suo Processo, per convincersi di tutto questo. Si osserva là un’ammirazione concorde, ed un concerto universale di lodi per l’immenso bene operatosi dai Di Netta: s’incontrano in ogni pagina frasi enfatiche per l’eminenza dello zelo di lui. Tutti ne parlano alla medesima maniera, e riconoscono in lui «l’uomo votato al vantaggio spirituale di quelle anime, fino  ad esaurirsi per esse».
    Dai sette agli otto mesi dell’anno egli occupavasi nel ministero delle Missioni, e riserbava gli altri mesi, non molto adatti per tale forma di predicazione, ad altri lavori meno clamorosi, ma per lui sempre fecondi degli stessi effetti meravigliosi. E ciò non per l’uno o l’altro anno soltanto, ma in modo assiduo per lo spazio di anni 37. 
    Per le Missioni ei dimenticava tutto, ed ogni altro pensiero passava in secondo posto. I parenti stessi, lo zio suo Arciprete, si lagnavano con esso per non riceverne notizie, ed egli se ne scusava bensì, ma non mutava il tenore di sue sante occupazioni. Nel Settembre del 1816 allo zio in Vallata scriveva: «…nel Novembre prossimo usciremo in missione. In questo anno per sette mesi abbiamo faticato. Le richieste sono innumerabili, non essendoci in queste Calabrie che pochi operai nella vigna del Signore, e quei quattro mesi che stiamo dentro, siamo sempre applicati per panegirici, per discorsi, e per novene. Da ciò vedete se ho tempo di scrivere; la sola necessità mi costringe qualche volta. Tutto ad maiorem Dei gloriam». 
    Ma su di ciò occorre soprassedere. Abbiamo mirato come a volo d’uccello la missione apostolica del Venerabile in Calabria, quasi a darne un saggio solamente. Ma perchè è cosa rilevante assai, consistendo in ciò la parte più luminosa della vita di lui, occorre farne argomento di vari capitoli, per avere così il concetto giusto di sua grandezza. 

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