Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Documenti dal 1598 al 1646.

Capitolo II
__________________________________________

2.2 Documenti dal 1598 al 1646.

        Sempre nell’Archivio di Stato di Foggia, nel fondo della Dg. IV b. 21 f.198 il documento più antico che riguardava Vallata fu una vertenza di alcuni suoi cittadini che furono citati in giudizio a Foggia il 20 Ottobre 1598.  Infatti, in quella data, il Mag.co Dottor Fisico Don Giovandomenico Casolla di Zungoli dopo essersi preventivamente accertato, con un’istanza presentata a Napoli presso la Camera della Sommaria su quale fosse la Corte competente ad esprimere giudizi su vertenze relative alle attività agricole e zootecniche ed avendo saputo che solo il Doganiere ed Ill.mo Signor Marchese di Paduli, Giovanni Antonio Carboni, nominato nella sede di Foggia avrebbe potuto esprimersi in merito, a lui presentò istanza alla Regia Dogana per essere risarcito da Don Fabio Florianello, da Prospero di Gregorio e da altri cittadini di Vallata. Nell’istanza presentata, come aveva già precedentemente fatto anche alla Sommaria a Napoli, il ricorrente rimarcò che il Capitanio(= il Feudatario) della Locale Corte di Trevico a cui quelli s’erano rivolti in prima istanza per ottenere giustizia, era persona sospetta e collusa con la controparte. Il Mag.co Dottor Casolla aggiunse che a testimonianza di quanto da lui asserito, c’era anche il fatto che un loro amico, tal Martino Rosa, sposato a Vallata, ma proveniente dalla città di Rapolla, presentò un’istanza a Foggia affinché il giudizio fosse riportato a Trevico perché: “su questo territorio sono avvenuti i fatti contestati e solo la local corte può dare un giudizio equanime”. A Foggia, il ricorrente mostrò al Giudice ed al Doganiere l’atto originale con il quale dimostrò che c’era stato un impegno preso da parte di Don Fabio Florianello e Prospero di Gregorio sin dal 1596, quando, davanti al Notaio Ambrosio Jammarino di Napoli, concordarono di mantenere una morra di pecore di 200 soggetti ma, così non avvenne, per cui dopo circa due anni, pretese il risarcimento di tutte le spese effettuate ed anticipate, mostrando ed allegando tutta una serie di conti riportati su di un “libro prima nota” relative a spese di salario per i garzoni, a spese di tosatura, a spese per le fiscelle delle ricotte e dei formaggi, alle 30 caraffe d’olio da 0,7 litri cadauna, all’anticipo di 30 ducati per il salario di un anno a Martino Rosa che accompagnava il gregge, alle spese per la falciatura dell’erbaggio, alle spese per l’affitto di un ricovero per le pecore, al pagamento della Fida al Credenziere a Foggia, alle spese per l’acquisto di 20 galline e per l’orzo consumato, alle spese per il tabacco ed infine a quelle per il sale eccedente la quota che già veniva fornito dalla regia Dogana ai locati. L’udienza del processo fu fissata per il 1° Dicembre e, in quella occasione, il Mag.co Dottor fisico Don Giovandomenico Casolla chiese il sequestro delle duecento pecore e di suo pugno scrisse che erano di “tipo Carfagna dal colore scuro, gestite da quei personaggi della città di Vallata”. Ma, al 3 Gennaio 1599 quei documenti che erano serviti a suo tempo per iniziare l’istruttoria a Trevico presso la local corte, ancora non erano stati inviati a Foggia dove la causa era stata avocata, anzi, più passava il tempo e più il Doganiere Marchese Carboni di Paduli, cominciò a credere che le accuse rivolte dal dottor Casolla al Feudatario di Trevico non fossero prive di fondamento. Allora, tramite il suo attuario, tal Ottavio Pellegrino, gli scrisse una lettera con la quale, con tono d’imperio, chiese l’invio immediato dei documenti oltre alla segretezza degli atti, intimandogli di produrre il tutto in lettere sigillate, così come si conveniva a giudizi di natura civilistica, sotto pena di onze 25. Nel frattempo, durante tutta l’estate del 1599, l’ordinario giurato della terra di San Sossio, tal Giovanni de Baldassarre, ben conosciuto per essere veneziano e figlio di veneziani, ma stabilitosi adesso in quella terra, aveva ben reclamizzato il Bando(=Banno) Pubblico, tramite l’affissione dello stesso avvenuto a Trevico, a Vallata ed a San Sossio, dove  aveva pure a voce chiara e ben intelligibile urlato che” chi è intenzionato a comprare le 200 pecore, per decreto di Corte, deve partecipare il 20 Settembre all’incanto ad ultima estinzione di candela,  portandosi in Pubblica Piazza a Trevico”. Fu così che in 3 soluzioni furono assegnate tutte le pecore e relativi agnelli(=aini)  così come di seguito riportato: 1° lotto comperato da Troiano Faratro di Zungoli al prezzo di 7carlini e mezzo a pecora e 4 carlini ad aino; 2°lotto comperato da Pompeo Grande di Zungoli per carlini 8 a pecora e carlini 5 ad aino; 3°lotto di pecore a carlini 8 l’una e carlini 8 gli aini perché erano i più grandi, comperati in società dal Mag.co Don Antonio Freda, assieme a Cesare Cera, a Giovanni D’Abbondanza, a Nicola Marino Masciolla ed allo stesso Troiano Faratro. Vendute le pecore con la tecnica dell’ultima estinzione delle tre candele, il dottor Casolla fu risarcito del danno ottenuto in quei due anni da quei cittadini di Vallata.
        Nella Dg. IV, b. 36, f. 667, nel 1600 vi fu una causa tra Cesare Laurino e Ascanio De Luca  entrambi della città di Ascoli contro l’Università(=Comune) di Vallata, perché avevano prestato 3000 ducati a censo, sin dal 1594, per ottenere un interesse annuo di 195 ducati. Questo era quanto riportato sull’atto notarile redatto dal Notaio Ascanio Nigri di Ascoli e presentato a Foggia presso la Regia Corte, allorquando regnava a Napoli Filippo I D’Aragona, in cui si esplicitava che: ”i rappresentanti di quest’università s’impegnano a che quel censo fosse debitamente restituito ed onorato”. L’atto oltre ad essere firmato dal Notaio Nigri fu sottoscritto dai tre rappresentanti dell’Università di Vallata che erano in carica nel 1594, cioè dal Sindaco che era Andrea Vella, proveniente dalla città di Serino, dall’eletto Domenico de Coluccia  di Vallata e dall’eletto Don Giovanni de Alessio di Vallata, alla presenza anche del regio giudice a contratto Mag.co Don Cesare Grisignano, oltre ad altri testimoni quali Ottavio Vella di Serino, Geronimo Matera di Ascoli, Alfonso Majore di Vallata, Scipione Fiorillo di Ascoli ed il Mag.co Don Joseph Frignino di Acquaviva. Ma, dopo che ogni anno quel debito fu onorato con l’esborso dei 195 ducati, avvenne che nel 1600 ciò non fu più possibile, poiché molti  cittadini di Vallata che s’erano impegnati personalmente oltre che tramite i loro rappresentanti sin dal 1594, ora anche cambiati, non poterono nemmeno più contare su un reddito sia pur minimo derivante dalla coltivazione di piccoli appezzamenti di terreni e di boschi di natura burgensatici su cui poter svolgere il compito di “legnare” (= far legna), perché non gli fu più concesso per quell’anno 1600, poiché il Feudo di Vallata risultava venduto ed il passato Signore utile di Vallata, per conto del suo procuratore Don Alessandro Cortese di Gifuni, aveva lasciato dei debiti che quell’Università non poteva più sostenere e pertanto insorsero notevoli difficoltà per onorare il debito, frutto di quell’annuo censo. La nuova Amministrazione che era appena entrata in carica a Vallata il 3 Giugno 1600 formata dal Sindaco Francesco Varra, dall’eletto Francesco Pennecchia e dall’altro eletto Don Federico Oliveto, tentò durante il giudizio tenutosi a Foggia, di trovare un accordo sul pagamento che i due creditori di Ascoli pretendevano come risoluzione dell’intero debito di 3000 ducati, a cui andavano aggiunti gli interessi di 97 ducati già maturati a quella data e facenti parte dell’annuo censo di 195 ducati. I rappresentanti dell’Università di Vallata, capeggiati dal Sindaco Francesco Varra proposero un primo pagamento nel giro di un mese e l’altra metà con qualche mese di ritardo. Ma, Cesare Laurino e Ascanio De Luca, entrambi di Ascoli, pur accettando la metà del pagamento dopo un mese, non accettarono ulteriori ritardi ed il Doganiere ed il Giudice Prospero Freda della Regia Dogana di Foggia che amministravano la giustizia del Re di Napoli Filippo II D’Aragona, provvidero ad inviare lettere d’esecuzione a tutti coloro che possedevano dei beni sequestrabili e che erano coinvolti in quella faccenda. Così, essendo arrivato a Vallata il Commissario della Regia Dogana di Foggia, Don Andrea Constabile, portò l’atto d’esecuzione a firma del Notaio Francesco Forgione, accompagnato da 5 alguzzini e fecero moltissimi sequestri a quei cittadini che s’erano impegnati a suo tempo nel 1594, non risparmiando gli eredi o gli aventi diritto, compresi i tre amministratori locali che furono chiamati “in solido” a rispondere dei cittadini morosi o nullatenenti. Infatti,  i sequestri ebbero inizio proprio dalla casa del Sindaco Francesco Varra dove furono sequestrati 4 materassi fatti con le penne, un ciuccio ed una giumenta poi toccò all’altro eletto Cesare Pennecchia al quale furono sequestrati 5 bovi aratori ed altri 6, del tipo aratore, possenti e con le corna lunghe, furono sequestrati all’altro eletto Don Federico Oliveto. Poi, fu il turno di Don Ovidio Mirabelli al quale furono sequestrati 2 materassi di lana  e due coperte, un paio di lenzuola ed uno spolverino, poi toccò a Pompeo Annolfo al quale fu sequestrato un barilotto di vino da 40 litri ed un vestito, poi a Cesare Zeulo fu sequestrato un materasso fatto con le “foglie di granone ed un materasso di penne”, a Domenico de Coluccia due barilotti di vino da 40 litri ed uno vuoto oltre ad una gonnella della moglie fatta tutta di ricami. Tra gli altri cittadini a cui furono sequestrate altre cose(=robbe) come treppiedi, caccavi, tine, tinozze, cinghie di corio, fruste, frustini, fiscelle, pezzi di formaggi, gioghi per i buoi, cuccette, uncini intarsiati, selle, pelli d’agnello, di pecore e di capre, secchi per il latte e vari altri materassi di foglie di granone, c’erano i seguenti cittadini vallatesi: Cesare Cautillo, Domenico Malgieri, Benigno del Bufalo, Coluccio Colognella, Mario Scipione, Candido Annolfo, Michelangelo Cerullo, Angelo Chiavuzzo, Bernardo Di Renzo, Francesco Oliveto, Renzo Garzella, Minico del Surdo, Pascariello Prospero, Gerardo Ciccarello, Nobile de Giovanni, Giuliano Chiavuzzo, Cesare Caruso, Andrea Pidocchio, Domenico Zorza, Colafrancesco Magliuzzo, Carlo Forgione, Antonio di Gregorio, Iacovo Pennecchia, Polito Angelella, Pietro Augella, Angelo Patetta, Giulio Montano, Giovanni de Mastina, Pietro Scandiello, Pietro Zeulo. Infine, ai seguenti altri cittadini: Guglielmo e Salviano Sauro, ad Angelo della Villa, a Cesare Surdo, ad Antonio Matera, a Biase Bortone, a Federico de Federico ed a Valenzio del Bufalo, furono sequestrati 11 buoi,  4 giumente ed un cavallo, tutti marcati con marche differenti l’una dall’altra. Tutti quei cittadini a cui furono sequestrate suppellettili ed animali furono presentati come le persone più valevoli di fiducia conosciuti come ottimi lavoratori e su cui si poteva contare per quello che riguardava quel debito contratto e, quel compito così ingrato, fu svolto proprio dall’Arcipresbiter della Chiesa di San Bartolomeo, Gian Giacomo De Donata che, assieme al Primicerio del capitolo, Don Valenzio Patetta ed al suo coadiutore Don Giovambattista Racano, li raccomandarono al Feudatario di Vallata.
        Nella Dg. IV b. 46 f. 1077, nel 1602, Don Fabio Florianello di Vallata, essendo anche l’amministratore ed esattore di fiducia del Duca di Bovino che aveva diversi possedimenti a Vallata, principalmente verso la strada che portava a Trevico, portò in giudizio per 20 Ducati che facevano parte di una somma più grande e già liquidata, Angelo Palandra e Marco Croce entrambi di Vallata. Il Giudice della Regia Dogana, Prospero Freda, li interrogò ed i due vallatesi assicurarono che avevano già fatto il loro dovere, nel senso che avevano già pagato quel saldo di 20 Ducati, in quanto essendo stati intercettati dal Feudatario(=Capitanio) di Vallata, prese lui in carico i soldi dicendogli che sarebbero stati al sicuro in deposito. Ma, al momento, non avevano nessun comprovante per dimostrarlo in quella sede ed anzi, aggiunsero, “a questo punto siamo molto preoccupati, visto che dobbiamo qui rispondere alla Regia Dogana di un’accusa tanto infamante” e, anche se non lo espressero chiaramente, fecero intendere che non avessero molta fiducia nel comportamento del Capitanio. Il Doganiere dispose che fossero loro due imputati direttamente ad accertarsi se riuscissero a liberare quella somma dal Capitanio della loro terra e : “fatelo in breve tempo, al massimo nel giro di tre o quattro giorni ma, se tutto ciò che avete raccontato sui soldi in deposito non è la verità, sotto paura, dovete sborsare non 20, ma 1000 Ducati”. I due tornarono a Vallata, ma non solo non trovarono il Capitanio perché questi era cambiato, ma gli fu detto che si era in attesa di sapere chi fosse il nuovo e quando arrivasse. I due tentarono di non presentarsi a Foggia, ma su dispositivo inviato dal Giudice e dal Doganiere della Regia Dogana inviato alla Corte di Vallata, i due sfortunati personaggi, dopo un mese di latitanza furono trovati e tratti in arresto nelle carceri doganali di Palazzo Dogana.
        Nella Dg. IV b. 57 f. 2886 l’11 Dicembre 1603, Angelo Vecchia, residente nella città di Vallata perché ivi ussorato, ma proveniente dalla terra di Bagnoli, avendo un piccolo gregge di pecore dichiarato alla Regia Dogana perché frutto del suo lavoro condotto per vari anni per conto della Venerabile Cappella del S.Sacramento della sua città che così lo ripagò, si recò a Foggia per rispondere alla giustizia a cui erano sottoposti i locati, cioè direttamente a quella del Re e non a quella del Feudatario locale. Ma, Angelo Vecchia non si recò per ottenerla, ma perché fu citato in giudizio da un altro suddito della Corona, cioè da Francesco Varra, che era pure Sindaco e Rappresentante dell’Università di Vallata, il quale conosceva bene la procedura per avere giustizia da un iscritto nei Registri Squarciafogli, perché allevatore e figlio di allevatori di pecore da varie generazioni e così gli  mosse un’azione civile perché gli aveva prestato 6 ducati in data 23 Gennaio 1601. Sull’atto di denuncia per insolvenza presentato a Foggia, comparve prima il sigillo di Vallata perché il giudizio fu precedentemente istruito nella local corte, apparendo anche la firma di colui che l’aveva materialmente scritto, Scipione de Nasellis. Così apparve che, in quella sede, Angelo Vecchia fu interrogato dal Giudice e dal Capitanio di Vallata che, avendo saputo che aveva un mulo, ed avendolo trovato, disposero il suo sequestro(=capiatur) e lo misero “nello stabulario”. Poi, procedettero pure a fare una valutazione dell’animale, decidendo che non valeva più del numero delle dita di una mano, per cui Angelo Vecchia risultava sempre debitore di un ducato. Tra loro sorse anche una discussione circa l’integrità di quel mulo, in cui si pose in discussione la validità ai servizi di campagna. Quella storia, però, fece adirare molto il debitore che, recatosi a Foggia, chiese che fosse giudicato solo da quel Tribunale dei Locati dove lui risultava iscritto e dispose che si desse subito ordine al Capitanio di Vallata di non occuparsi di quella faccenda ed aggiunse: “mi sia restituito non il mulo, come vanno dicendo, ma il bel cavallo dal mantello color morello”. Poi, Angelo Vecchia mostrò anche l’atto fatto il 23 Gennaio 1601, nel quale, innanzi a due testimoni, Giovambattista Racano e Giovanni di Gregorio entrambi di Vallata ed al Notaio Vincenzo Perullo proveniente dalla città di Nusco, s’impegnava a restituire quella somma di sei ducati a Febbraio 1603, senza interessi e more di qualsiasi genere; quindi il ritardo, così come avrebbe preteso Francesco Varra, non era di due anni, ma di qualche mese. Il Tribunale di Foggia nella sentenza che emise, ricordò che Angelo Vecchia era un locato e che il cavallo gli serviva per andare in campagna per assistere ai suoi animali e che non poteva essergli sequestrato da nessuno, né tanto meno dalla Corte di Vallata che avrebbe dovuto restituirglielo. Però, dall’esame delle carte, era giusto ed evidente che Francesco Varra dovesse ricevere quella somma, quindi, fu intimato ad Angelo Vecchia di procurarsi quei 6 ducati senza interessi, come diceva il loro compromesso, ma tutto doveva concludersi entro 7 giorni innanzi a quel Foro competente di Foggia, e così avvenne.
        Nella Dg. IV b. 71 f. 2442, nel 1608 Bartolomeo della Villa di Vallata, produsse un atto contro il Barone di Vallata nel quale, innanzi al Giudice della Regia Dogana di Foggia, raccontò di essere un ordinario locato nella locazione di Feudo d’Ascoli e gli scrivani, essendosi adoperati a rinvenire il suo nome nei registri di quella Locazione, fu invitato ad esporre il problema all’Ill.mo Signor Doganiere e fu così che raccontò come nei giorni precedenti alla sua comparsa in quel tribunale e precisamente il 30 Agosto di quello stesso anno, incontrò per strada il “Camerlengo Porporino”  che era andato a far visita al Signore di Vallata e questi gli diede l’ordine di portare la sua mula al servizio dal Barone, per quello che lui riteneva un vero e proprio atto d’abuso. Infatti, non solo gli fu intimato quell’ordine al quale non potette assolvere perché la mula serviva alla sua masseria, ma la Corte di Vallata lo condannò a pagare 25 once ed in più fu anche incarcerato, ed aggiunse che “tutto ciò per l’odio che avevano verso di me perché sono un sottoposto alla Regia Fida a Foggia”. Pertanto, essendo un ordinario fidato della Regia Dogana, con la relativa istanza presentata in data 11 Novembre 1608, chiese come prima cosa di essere messo in libertà e poi che non dovesse pagare niente a nessuno chiedendo nel contempo che quella  Regia Corte  comunicasse al Barone di Vallata che aveva concepito tanto odio verso la sua persona che non poteva essere sottoposto alla legge dei vassalli della terra di Vallata perché locato  in quella sede e : ” la legge sui locati non permette in alcun modo di confiscare il mulo o il cavallo che serve per il proprio lavoro”. E così avvenne perché seguì una nota di Bartolomeo de Feo, incaricato della Regia Dogana a Vallata che mandò una nota al Barone dove c’era scritto:” non si intrometta in quella questione perché l’atto dipende dalla Regia Dogana di Foggia”, ed in basso firmano oltre a lui anche due testimoni di Vallata, Don Matteo Manna e Don Bartolomeo Annolfo medico. Poi, comparve un atto del Notaio Simone Demeulis di Vallata che riportava che alla data del presente atto, Bartolomeo della Villa era ancora carcerato ed un altro redatto dal Comune di Vallata con relativo sigillo, nel quale si affermava che quella mula il della Villa  la usava per i lavori di campo della masseria e che non ne aveva altre per le sue attività e quindi, non poteva darla al Barone. L’atto del  Comune di Vallata fu redatto dal cancelliere Don Fabrizio Matera e sottoscritto dal Sindaco Angelo Pennecchia, Coluccio de Federico eletto e Salviano Sauro eletto e così, alla fine dell’anno, Bartolomeo della Villa fu rimesso in libertà, sotto pena pecuniaria di once due.
        Ad avvalorare la mia idea che trattavasi proprio del Cardinale Pietro Aldobrandini  che apparteneva alla famiglia degli Orsini e che fece il Camerlengo tra il  1559 ed il 1621, è stata la scoperta dell’atto successivo, in cui comparve, registrato dopo quello precedente, nel 1608, nella Dg. serie IV, b. 71 f. 2443, che l’attore principale era proprio il Cardinale Aldobrandini che si definiva di Vallata e poiché era un  nobile locato della locazione di Vallecannella, presso la Regia Dogana di Foggia, intentò un’azione giudiziaria rivolta nei confronti di un tal Giovanni Lanzalonga di Foggia. L’agente del Cardinale Aldobrandini Orsini era l’Arcipresbiter Don Felice Siliceo della cattedrale di Troia che lo rappresentò presso la Regia Corte di Foggia. In quella sede, fu mostrato il contratto d’affitto registrato in data 31 Ottobre 1607 che il Cardinale aveva fatto con Giovanni Lanzalonga di Foggia. Questi, si era impegnato “penes acta” a versare 300 Ducati al Cardinale per l’affitto annuale della Grancia (=masseria) dell’Incoronata che faceva parte delle sue proprietà, così come a suo tempo avvallato e confermato anche da Pandolfo de Pandolfo de Vallata. Ma, durante il periodo processuale Giovanni Lanzalonga morì e l’atto esecutivo di sequestro fu notificato a suo figlio Oliviero Lanzalonga, da parte dello scrivano della Regia Dogana signor Giovanni Angelo Depanniello in data 30 Agosto 1608. Seguì, quindi, un elenco delle cose sequestrate dalla Regia Dogana nella Grancia dell’Incoronata presso la quale non si recò nessuno, né tanto meno Oliviero Lanzalonga, figlio del quondam Giovanni Lanzalonga. La roba sequestrata consisté in 15 versure di mais, 30 buoi aratori, 18 bardature in ferro, una meta di paglia, 25 tomoli di grano, un quagliaro dalla dispensa ed un quagliaro grande da masseria. Tutto fu sequestrato e venduto ad ultima estinzione di candela al miglior offerente per poter soddisfare i creditori del Lanzalonga che si erano rivolti al Cardinale per avere soddisfazione. L’atto notarile relativo alla vendita fu fatto dal Notaio Giovanni Simon Troianus che, all’epoca, era anche parroco della Cattedrale di Troia.
        Leggendo il libro su Vallata di don Gerardo De Paola a pag 53, si riporta che “quando la cappella di S. Giorgio fu interamente rovinata dal terremoto nell’anno 1604, nessuno si prese cura di riedificarla, anzi alla stessa apparteneva un benefizio consistente in un capitale di ducati 300, che l’Arcivescovo di Benevento Vincenzo Maria Orsini, anni dopo trasferì colà”. Allora, sapendo che l’Arcivescovo in questione  appartenne al secolo successivo e che avrebbe potuto solo riconfermare quel beneficio, si potrebbe ipotizzare che il Cardinale Aldobrandini Orsini, camerlengo della Santa Sede proprio in quel periodo, potrebbe aver istituito lui quel beneficio di trecento ducati sulla Chiesa di San Giorgio quale frutto della rendita della Grancia dell’Incoronata affittata in un primo momento a Giovanni Lanzalonga di Foggia. Così come riportato dai già citati autori Di Cicco e Musto nel vol. II degli inventari dell’ “Archivio del Tavoliere di Puglia” a pag. 19 riportarono che la terra di Portata(= cioè quelle coltivate a colture come grano e granturco) della “Masseria Giardino” apparteneva alla Locazione di Vallecannella, nel senso che i locati che erano iscritti in quella locazione, come la maggior parte di quelli di Vallata, avevano in assegnazione una terra da lavorare che si trovava all’Incoronata ed allora, non v’è dubbio alcuno che la “Grancia dell’Incoronata” di cui s’è parlato in quest’ultimo documento, sia proprio da identificare con quella che poi diventerà la Masseria dell’Incoronata dove, da sempre e storicamente ci sono stati allevatori e fittavoli della terra di Vallata che tennero sempre vivo il culto per quella madonna nera, di chiara origine bizantina e forse, anche in questo antico legame va trovato lo spunto per la tanta devozione della gente di Vallata e di tutta l’Alta Irpinia per questo Santuario dell’Incoronata, ancora oggi meta di pellegrinaggio di tanta gente.
        Nella Dg. IV b. 71 f. 2444 nel 1608, comparve un documento mancante di alcuni pezzi ed in condizioni d’inchiostro assai sbiadito, in cui s’apprese che Giacomo Cagnone di Vallata venne citato in giudizio presso la Regia Dogana di Foggia dai fratelli Francesco ed Andrea Casotti sempre della stessa città per un mancato pagamento. Si trattava, cioè, di una cambiale protestata. Giacomo Cagnone assieme ad un suo amico della città di Salerno, tal Sabato Marotta avevano ricevuto dai fratelli Casotti 360 Ducati e grana 90 nel mese di Aprile, con l’intesa che dopo 6 mesi li avrebbero restituiti con i dovuti interessi. Ma ciò non avvenne e, mostrando il documento “penes acta” del Notaio Ieronimus Guarracinus di Neapolis, i due fratelli Casotti chiesero che si facesse l’atto di notifica oltre che a Salerno, anche a Lucera dove avevano saputo che Giacomo Cagnone pagava una fida per dei pascoli che avevano richiesto alla “Mena pecudum” che aveva sede in quella città. Poi, i due fratelli chiesero che se le due notifiche non avessero prodotto alcun effetto circa eventuali beni da sequestrare, avrebbero potuto rispondere gli avallanti della cambiale, Bartolomeo Mannino, Bartolo Caso ed Ambrosio Coderta, e ciò avvenne.
        Nella Dg. IV b. 71 f. 2445, nel 1608, ci fu una causa di Alfonso Lombardo di Vallata contro Angelo Cuoco. A Foggia. il ricorrente espose le ragioni che lo indussero a rivolgersi a quel Tribunale, essendo lui un commerciante al servizio dei locati e quindi, ad essi assimilato. In quella sede mostrò il contratto d’affitto “penes acta” fatto ad Angelo Cuoco che durante tutto il dibattimento non era mai comparso perché non si sapeva dove reperirlo, redatto dal Notaio Giulio Nando Mola della città di Troia nel 1607. Nell’esposizione dei fatti Alfonso Lombardo asserì come, sin dall’anno precedente, cioè da Aprile 1607, affittò una sua bottega (=poteca) a Foggia ad un tal Angelo Cuoco, suo compaesano, per grana 63 annui. Ma, dopo che questi iniziò a pagarlo, così come pattuito e che si servì della bottega per iniziare l’attività che aveva anche una licenza che lui aveva pagato in quella Regia Dogana, fuggì non si sa per quale motivo, pur essendo ancora debitore di grana 45 e: “ purtroppo, serrò anche la poteca”. Pertanto, Alfonso Lombardo, supplicò il Doganiere che desse ordine di aprire il negozio e che fosse annoverato tutto ciò che si fosse rinvenuto all’interno e, se possibile, vendendo quelle cose, si sarebbe potuto soddisfare, sia pure in parte, il suo debito per il mancato affitto. Poi, aggiunse : “solo così potrò restituire a mio padre anche la somma che mi ha prestato con tanto sacrificio, poiché il debito ammontante a 8 grani cavalli al mese, serviva pure per potermi mantenere a Foggia”. Quell’istanza fu accolta positivamente dal giudice che così la trasmise al Doganiere, Don Berardo Ramirez de Montalto, Miles Hispanicus, nonché Presidente della Sommaria a Napoli che impartì l’ordine di entrare nel negozio, di fare l’inventario e di vendere tutto quello che si poteva vendere. Eseguito l’ordine, apparve un lunghissimo inventario, dove apparvero nomi indecifrabili ed altri che riporto: “ un bancone da poteca, un quadro della Madonna del Carmelo, una tenda vecchia, un tino, un tinozzo, un barilotto vecchio, dei cerchi per lo stringi turo dei tinozzi, uno sportello di carrozza, una bilancia di ferro, una falce nuova, una falce vecchia, una matassa di spago, un cassone vecchio, un barile grande, una cassa vecchia, una cassa piccola, una fascina da fuoco, 49 fiaschi di vetro”.
        Nella Dg. IV b. 77 f. 2885, ho trovato una causa molto ben articolata che riguardava la Marchesa N.D. Antonia del Tufo contro l’Ecc.mo Barone Don Francesco del Tufo. Quest’ultimo, alla data della causa, cioè il 1610 era considerato l’utile possessore di Vallata. Nella fattispecie, l’attrice della causa si presentò innanzi al Presidente della Regia Dogana di Foggia Don Berardo Ramirez de Montalto che era anche il Presidente della Camera Sommaria di Napoli ed espose le sue ragioni che si riportano brevemente: “Francesco del Tufo, marchese di Lavello ed utile possessore di Vallata, aveva stipulato un’obbligazione presso la Corte di Minervino per 500 Ducati e poi successivamente, avvenne la trascrizione nell’altra Corte di Lavello. Quest’ultima corte le aveva sequestrato un quantitativo di animali, sia vacche che capre, per un valore di 500 Ducati, per inadempimento della fida dovuta, ma quella Corte di Lavello non avrebbe potuto farlo o quanto meno, avrebbe dovuto recapitarle o farle un preventivo atto di citazione”. A questo grave vizio procedurale, s’aggiungeva che gli animali non erano tutti i suoi, ma anche di altre persone che glieli avevano affidati, come la principessa di Torella, quella di Mirabella, e quelli appartenenti a Scipione Carafa che li avevano lasciati nei pascoli di giurisdizione di Don Francesco del Tufo. Lei, come Marchesa di Matino, ben conoscendo quali fossero i suoi diritti come i suoi doveri, chiese che del caso se ne prendesse cura il Tribunale competente, cioè la Regia Dogana di Foggia, quindi, non avrebbero potuto esservi competenze sovrapposte né da parte della Corte di Minervino né da parte di quella di Lavello. Seguì, poi, il contratto d’affitto fatto a Minervino nel 1610 e tutto l’inventario degli animali, comprese le 1250 “pecore gentili”, con sigillo del Notaio Vincenzo Imbenerato della città di Grumo. Pertanto lei, Nobildonna Antonia del Tufo voleva che la Regia Dogana si fosse espressa su quello che riteneva essere un atto illegittimo di sequestro e che il Presidente Ramirez de Montalto prendesse  più informazioni su quel caso. Quindi, Donna Antonia del Tufo concluse facendo mettere agli atti che: “a parte il comportamento poco attivo da parte di Francesco del Tufo che chiamo in causa per manifesta negligenza, chiedo altresì che venga imprigionato l’alguzzino che ha tanto spavaldamente fatto il sequestro degli animali, vacche e capre senza preoccuparsi a chi lo stava facendo”. Pertanto, pretendeva o i 500 Ducati da Francesco del Tufo, come testimoniavano le carte che aveva portato in giudizio o la restituzione degli animali sequestrati e, se quest’ultima soluzione che le stava più a cuore non avesse trovato udienza, pretendeva che alla Corte di Lavello che aveva compiuto quell’atto, fosse comminata una multa di 1000 Ducati. Poi, il 16 Gennaio del 1611, comparve una lettera con la quale Francesco del Tufo si dichiarava disponibile a pagare la sua obbligazione per 500 Ducati, e quindi confermava quanto esposto da Antonia del Tufo. Furono chiamati a deporre tutta una serie di persone che facevano i massari, i butteri e i fiduciari che in qualche modo avevano avuto a che fare con quel patrimonio zootecnico ed alla fine di un dibattimento tanto complesso, gli animali furono dissequestrati nella città di Lavello e l’ufficiale doganale non fu imprigionato ma ebbe una pena pecuniaria di 5 Ducati perché troppo superficiale. In ultima pagina dal Presidente Ramirez de Montalto fu scritto personalmente che: “L’Ecc.mo Don Francesco del Tufo ha trovato l’accordo con Antonia del Tufo” , il tutto formalizzato dal sigillo del Notaio Imbenerato Vincenzo “civitatis Grumi”.
        Nella Dg. IV b. 96 f. 3720, nel 1612, Cesare Sauro di Vallata, locato della Regia Dogana di Foggia, ebbe una controversia con Don Michele Giordano di San Sossio Baronia dove si era recato per assolvere a varie faccende, ed avendo saputo che in quella città c’era un locato che aveva avuto delle difficoltà economiche per il pagamento della regia fida, lo contattò per sapere se volesse vendergli le pecore. Fu così che, anche in quella città, il 29 Gennaio comperò 147 pecore di razza gentile, dopo che ne comperò altre alla Fiera di Andretta, a quella di Gesualdo oltre che nella città di Guardia dei Lombardi ma, adesso, cosa che non gli era mai capitato prima, si vedeva costretto a ricorrere alla giustizia di quello speciale Tribunale di Foggia, perché Don Michele Giordano che in un primo momento pareva essersi accordato per 8 carlini l’una, ricevendo anche un congruo anticipo, successivamente, ne pretese 15 a pecora, adducendo che quelle erano le più belle e che quello era il vero valore di mercato. E, poiché quel comportamento Cesare Sauro lo trovava estremamente scorretto non gli diede quella differenza che avrebbe preteso e come tutta risposta, Don Michele Giordano lo molestava nei pascoli che il regio compassatore gli aveva assegnato per tenere la mandria in attesa che si definisse la questione; pertanto, suo malgrado, si vide costretto ad interpellare la Regia Dogana ed a muovergli giudizio in data 17 Luglio 1612. Ma, Don Michele Giordano che fu mandato a comparire a Foggia si difese dicendo: “ in realtà volevo che tutto andasse a monte perché quelle pecore non le potevo vendere perché fanno parte del Capitolo della Chiesa di San Sossio e per dimostrarlo ho portato l’ atto firmato da Melchionna Semigliara, agente del Serenissimo Duca del Sannio e chiedo che sia la local corte ad interessarsi di questo caso”. Ma, il Giudice a Foggia scrisse che comunque le competenza erano sempre della Regia Dogana e che non avrebbe potuto essere di nessun’altra corte locale, anzi stabilì che Don Cesare Sauro era stato danneggiato perché aveva pagato una fida a pecora che era superiore al numero di capi dichiarati, essendo, quella mandria composta di 143 animali, poiché quattro erano deceduti e, dal momento che, per tutta la durata del processo, le pecore erano state tenute in un terreno a pascolo diverso da quello che comunemente utilizzava nella locazione di Vallecannella, stabilì che fosse risarcito anche per la differenza del dovuto. Don Cesare Sauro, incoraggiato da quel primo successo, fece scrivere sugli atti che: “quegli animali comperati risultano pure malati di rogna e non sono certo i più belli come don Michele vuol far apparire richiedendo anche un maggior prezzo e chiedo una perizia tecnica per valutare il danno”. Il Doganiere, però, non solo non la concesse perché era passato diverso tempo e non si poteva stabilire con esattezza quando furono contagiate, se prima o dopo la vendita delle stesse, ma: “ quest’anno, c’è stata una grande moria di animali, per cui più il Re ha rimesso la fida a gran parte dei locati”. Seguì poi un elenco degli animali che Don Cesare Sauro era riuscito in breve tempo a comperare da altri proprietari: 105 pecore da Don Pompeo d’Antolino di Guardia, 15 pecore da Matteo de Leo, 45 capre da Clemente Anzivino, 24 capre da Don Michele Giordano, 77 pecore da Giovanni Fortuna, 15 pecore da Matteo Cervinaro. Alla fine del processo, Don Cesare Sauro vinse il giudizio ed il convenuto Don Michele Giordano fu condannato a pagare anche le spese processuali ed in particolare il Notaio De Meulis di Vallata che aveva redatto tutti gli atti.  
        Nella Dg. IV b. 107 f.4226, nei primi mesi del 1613 Don Cesare Sauro ebbe un altro giudizio contro Pompeo d’Antolino di Guardia dei Lombardi. Questa volta Don Cesare comperò, ad ultima estinzione di candela, altre 140 pecore perché d’Antolino e suo fratello avevano contratto dei debiti con la Regia Dogana di Foggia per via di alcuni erbaggi che non erano stati pagati, nonostante fossero andati alla Fiera di Gesualdo per vedere di vendere altri animali di loro proprietà ed onorare così il loro debito. Ma, non essendoci riusciti, le 140 pecore furono messe all’asta e Don Cesare Sauro se le aggiudicò. Ma, dopo averle comperate perché gli parevano buone, queste pecore s’aggravarono al punto tale che molte morirono di rogna. Pertanto, ricorse alla Regia Dogana perché riteneva che quell’incanto non dovesse ritenersi valido perché c’era stato del dolo e pretendeva il denaro versato per le 140 pecore dai fratelli d’Antolino. Il Presidente della Regia Dogana Don Juan Suarez, che l’aveva convocato a Foggia per ascoltare le sue ragioni, gli chiese espressamente come facesse a comprare tutti quegli animali, e soprattutto con quali soldi lo facesse. Don Cesare Sauro, colpito nell’onore, in più riprese gli mostrò i vari atti di procura a suo favore perché lui era un competente e poteva comprare quel bestiame perché era quello un desiderio del Marchese di Trevico, così come lo era del Duca di Vietri, nonché anche da parte dell’agente del Conte di San Severino, Don Carlo Stella e poi anche da parte di un altro suo amico locato di Castelfranco in Miscano Don Vincenzo Riccio. Avendo dimostrato che agiva per conto di tante altre persone di notevole levatura, visto anche che in quell’annata c’era stata una moria tanto diffusa di animali sia per malattie che per le condizioni avverse del tempo, gli fu concessa una riduzione della regia fida che era da considerare un “gran benefizio”. Don Cesare Sauro, cogliendo la palla al volo, mostrò anche un altro atto “penes acta” redatto dal Notaio De Meulis di Vallata, con il quale dimostrò che il d’Antolino di Guardia dei Lombardi, l’anno precedente, gli aveva chiesto delle pecore, ma questi non era persona che rispettava i patti, poiché a fronte di un primo pagamento regolarmente effettuato, poi non gli diede il saldo. Pertanto chiedeva ora, sia la restituzione di questi denari già depositati dal regio compassatore  per la truffa delle pecore malate, sia la parte restante di quelle altre mai saldate l’anno precedente. Il Giudice, accertato anche questo debito di d’Antolino, dispose che fossero vendute altre pecore che  appartenevano al debitore per soddisfare sia il debito e sia le spese che Don Cesare aveva dovuto sostenere presso la Regia Dogana; quindi, anche questa causa, come la precedente, si rivolse positivamente a suo favore.  
        Nella Dg. IV b. 221 f. 8207, nel 1646, vi furono degli atti civili del Sacerdote Don Andrea Matera contro Salviano Zamarra, entrambi di Vallata. La causa iniziò il 24 Maggio di quell’anno, giorno in cui il Rev.do Padre Don Andrea comparve nella Corte di Vallata ed espose che si trovava in quella sede perché era necessario prendere provvedimenti urgenti contro Salviano Zamarra che era da considerare contumace perché non presente nel Palazzo Ducale ed adducendo un documento firmato dal Notaio Ferdinando Lombardo di Vallata, con il quale si stabilì, sin dall’anno precedente, di affidare le terre e gli animali del Capitolo della Chiesa di Vallata alle cure di Don Salviano. Così il Rev. Padre si esprimeva: “ Già fu preferito ad Angelo Iannuzzi di Trevico perché c’e la consuetudine di favorire quelli della terra di Vallata e non i forestieri, ma, nonostante questo, Zamarra, ad oggi che è 20 di Agosto, non da i restanti 15 Ducati al Capitolo come avrebbe dovuto ” e per tale scopo Don Andrea Matera, addusse dei testimoni che potevano asserire che le sementi erano state acquistate regolarmente ed anche il grano. Per quanto riguardava la produzione dei cereali quell’anno erano stati prodotti anche in abbondanza su quelle terre messe a coltura da Don Salviano e che anche i testimoni lo sapevano, così come anche del debito che non era stato saldato. I testimoni furono Cesare Pepe, Antonio Cecilia, Giovanni Greco, Angelo Cornacchia, Giacomo Barra e Giacomo Manserra. Pertanto, il  19 Novembre 1646 a Vallata, alla presenza della Duchessa di Grumo e della sua corte, il Rev.do Padre Don Andrea Matera propose di fare accertamenti circa le proprietà di Zamarra perché  gli risultava che questi avesse dei pascoli verso Cerignola, quindi era un locato e pagava sicuramente una regia fida alla Dogana di Foggia. Il sacerdote era molto informato, poiché all’improvviso comparve nella sede del Palazzo Ducale un tal Angelo Garzella che riferì che Zamarra “ ha un bel seminativo proprio sopra la vigna del Medico Don Scipione Mirabelli, nel luogo detto Padula”, ed allora Don Andrea  propose di venderlo ad estinzione di candela, così avrebbe potuto essere risarcito il Capitolo della Chiesa. Così avvenne ed i Ducati ricavati furono 30, ma, nonostante il sacerdote richiedesse da tempo i 15 Ducati di debito, non gli furono dati, perché nel frattempo Don Salviano Zamarra aveva fatto ricorso presso la Regia Dogana di Foggia adducendo che furono compiuti a suo danno gravissimi soprusi e vizi procedurali dalla Corte di Vallata. Pertanto nell’istanza che fece a Foggia chiese ed ottenne che il processo fosse avocato in quella sede della Regia Dogana essendo lui un locato in Locazione di Cornito. Il Foro Doganale di Foggia mandò l’alguzzino a Vallata per notificare l’atto alla Corte locale rappresentata dalla Duchessa di Grumo, Fulvia del Tufo, in cui c’era scritto che le competenze erano di Foggia e non le sue, pertanto, cautelativamente anche il frutto della vendita fatta ad ultima estinzione di candela, veniva al momento congelata ed il ricavato, doveva essere portato a Foggia. Il processo cominciò tutto di nuovo e la Regia Dogana pretese che a Vallata dovessero essere prodotti tutti gli atti in forma originale e non in copia, così come era avvenuto fino ad allora, ed in tal modo passarono alcuni anni, e nel frattempo Don Salviano portò anche lui dei testimoni a suo favore. Tra questi c’erano Andreotti e Chiavuzzo di Vallata  e Berardi di Castel Baronia che ribaltarono le tesi accusatorie fatte a suo tempo contro di lui, sostenendo che proprio loro fecero ben 5 arature a quei terreni che erano ridotti molto male, così anche il costo delle giornate lavorative erano state più care del previsto. Nel dibattimento Don Salviano Zamarra disse che quel ritardo nel pagamento che secondo Don Andrea Matera fu così grave, in realtà era del tutto inesistente e, dinanzi al giudice, così si espresse, “ l’usanza vuole che il pagamento deve esser fatto non alla raccolta del grano in estate, ma all’atto della Scogna(=pulizia) dello stesso a Settembre o in Ottobre ma, cosa ancor più grave, si procedette alla vendita del mio seminativo senza neanche farmi un atto di notifica, e poi i testimoni che il Rev.do Padre portò a testimoniare a suo esclusivo vantaggio furono tutti quelli che avevo oculatamente escluso perché non meritavano la mia fiducia “. Si arrivò, così, al 20 Dicembre 1652 e Don Salviano Zamarra che aveva già ottenuto un’importante inibitoria dell’atto di vendita del suo terreno, bloccando definitivamente i 30 Ducati, chiese un definitivo giudizio da parte della Gran Vicaria di Napoli a cui tutti gli atti furono inviati. La Gran Vicaria di Napoli, il 28 Gennaio 1653, scrisse alla Corte di Vallata ed ordinò di Comunicare al Capitolo della Chiesa di Vallata che “ l’atto di vendere il seminativo di Zamarra è illegittimo, pertanto, un atto da considerarsi del tutto nullo e che, dopo aver esaminato carte, documenti e conti vari, l’unica cosa che deve essere rimborsata da questi è il valore di una giumenta morta, ma dello scarso valore di carlini 10, a cui si devono aggiungere il costo di quattro giornate lavorative di coloni che avevano lavorato alla Macchia di Alvino e che ancora non hanno ricevuto il compenso”. Questo fu stabilito e comunicato anche alla Regia Dogana di Foggia, tutto con formale atto d’accettazione notarile di Giovanni Battista D’Ippolito di Vallata, che ebbe l’onere di fare da intermediario con la Corte di quella città.

__________________________________________

Pagina Precedente Indice Pagina Successiva
Home