Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Documenti dal 1652 al 1698.

Capitolo II
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2.3 Documenti dal 1652 al 1698.

       Una volta, nel 1652, arrivò un percettore della Dogana di Foggia a Vallata, perché, secondo lui, la Cappella del Santissimo Sacramento (b. 8 f. 17bis) doveva pagare un’allistamento (= antica tassa imposta sugli animali grossi in proporzione diretta alla distanza dei luoghi d’origine dalla Puglia e fu stabilito ai fini del pagamento della fida, che ogni vacca o giumenta equivaleva a 10 pecore) di grana 25 ad animale per gli anni 1643-1644 perché erano state viste alcune vacche e giumente che pascolavano nella Defensa ed al Feudo di San Pietro senza che ci fosse una debita autorizzazione. Infatti, una parte di quel demanio della Defensa era, oltre che assoggettato a vincoli di pastorizia e zootecnia in genere, sottoposta alla consuetudine della raccolta della legna, essendo quella una terra della Corona Napoletana e non dei Feudatari; pertanto, il percettore, rivoltosi al priore della Cappella disse: “ qual’è il motivo per cui quelle vacche e quelle giumente pascolano senza una preventiva fida pagata per l’erba statonica alla Regia Dogana?”. Allora, il Priore di cui non venne esplicitato il nome, si rivolse al Massaro addetto alla cura degli animali per ascoltare quello che a tutti i costi voleva dire e così fu messo a verbale: “ per prima cosa le vacche non hanno mai pascolato in quella zona, ma queste servivano per motivi di aratura e così pure le giumente servono in parte per triturare il grano ed in parte servono da soma per i locati di quella città”. Non apparve neanche il nome del massaro di fiducia della Venerabile Cappella del S.S. Sacramento, ma chiunque egli fosse stato, doveva essere assai esperto in materia, poiché erano questi i soli casi contemplati per non pagare l’allistamento, ma comunque, apparve chiaro che l’atmosfera non era delle migliori e che ogni occasione era buona perché  gli Ufficiali Doganali potessero comminare multe e fiscalizzare il possibile. Ma, altri che avevano le stesse prerogative erano i Razionali dell’Annona, delegati del fisco e dipendenti direttamente dalla Corona di Napoli, che riferivano al Regio Senato dell’Annona con sede a Castelcapuano come si comportavano i venditori della zona loro assegnata, se questi commettevano abusi nel pesare o misurare i vari generi ai compratori, ed erano anche le persone più vicine ai Baroni delle corti locali che, a volte, con la loro connivenza imponevano tasse sulla commercializzazione del grano, sul sale, sulle derrate alimentari e quant’altro. Per una città come Vallata il Razionale dell’Annona significava che doveva occuparsi essenzialmente della regolamentazione dei rapporti con gli Uffici della Dogana delle Pecore di Foggia. Ad esempio, a Vallata vigeva la regola del divieto di vendita dei cereali fuori dai confini del territorio di produzione ed i venditori o mediatori dovevano essere della piazza, e solo dopo il 1806, con l’abolizione del sistema feudale, venne commercializzato anche fuori piazza. Insomma, non doveva esserci attività o produzione di alcunché che non dovesse passare per la fiscalizzazione del feudatario locale prima e della Regia Dogana poi.
        Nella Dg. II, b. 71 f. 2190 nel 1670 la Mag.ca Donna Isabella Pisano di Vallata, dopo aver già denunciato presso la Corte Locale della sua città davanti al giudice Bartolomeo Longo, i coniugi Diana Pisano e suo marito il Mag.co Don Francesco Mirabella, non avendo ricevuto la dovuta soddisfazione, si rivolse direttamente al Giudice Giuseppe Mattei ed al Presidente e Governatore della Regia Dogana di Foggia, Don Didaco Viloa. Davanti a quella corte Donna Isabella fece intendere che quel debito era anche più di cento ducati e derivava da un mancato pagamento che alcuni massari della città di Boiano non le fecero come corrispettivo di una quantità di grano stimabile vicina a quella somma e che invece, ricevette Donna Diana Pisano, sposa di Francesco Mirabella. Ma, allorquando il Presidente Don Didaco Viloa, dalla città di Cerignola, in data 26 Maggio 1671 emise l’atto d’esecuzione contro i coniugi Mirabella, la Mag.ca Donna Isabella Pisano passò a miglior vita. Passò un po’di tempo prima che gli eredi di Donna Isabella Pisano potessero rendersi conto di quella causa e rivolgersi all’Ill.mo Don Hector Pignatelli D’Aragona, Princeps Calitri et terrae novae, nella sede della corte di Vallata, dove ribadirono la loro volontà di insistere nel soddisfacimento del loro credito di cento ducati. Ma, anche loro non furono soddisfatti come la quondam Donna Isabella e, con identica procedura, il 14 Maggio 1674 si rivolsero alla Corte della Regia Dogana di Foggia, che immediatamente convocò in sede il Mag.co Don Francesco Mirabella.  In quella sede, Don Francesco, accompagnato da suo figlio Scipione, comunicò che lui neanche conosceva chi fossero gli eredi della quondam né tantomeno ricordava di aver mai contratto debiti con lei, tanto che gli sembrava tutto così artefatto e paradossale quella situazione, per cui ufficialmente fece istanza al Presidente che tutto il processo mosso nei confronti suoi e di sua moglie fosse considerato nullo. Si ebbe un altro notevole ritardo nel disbrigo di quel processo poiché il Presidente cambiò e, al posto di Viloa arrivò Don Francesco Antonio Andreasso, oltre al fatto che fu discusso se eccepire o meno quell’atto di nullità richiesto da Don Francesco Mirabella. Ma, nel 1680 il Presidente inviò le lettere esecutoriali ai coniugi di Vallata affinché soddisfacessero il credito agli eredi di Donna Isabella Pisano, anzi ingiunse in quell’atto che nessuno s’intromettesse per sollevare vizi procedurali o quant’altro, a cominciare dal Barone e proprietario utile di quella terra di Vallata, per finire ai commissari d’esecuzione che erano ai suoi ordini, perché quella specifica materia era di competenza della Corona Napoletana e quindi della sede della Regia Dogana di Foggia. Sempre sullo stesso atto, il Presidente aggiunse che l’ufficiale doganale che sarebbe dovuto andare sul posto, come per Legge di Prammatica, doveva andare con i suoi aiutanti con tutto l’armamento previsto dalla legge ed inoltre, avrebbe dovuto rivolgersi e farsi aiutare dagli amministratori di quell’Università (=Comune). Così, in data 16 Febbraio 1681, l’ufficiale Doganale della città di Lacedonia, Tommaso Cavarretta, si recò a Vallata per notificare l’atto nelle mani dei coniugi Mirabella, alla presenza di due suoi aiutanti, Ferrante Porro e Domenico di Barletta e subito dopo, essendosi preventivamente informato, si recò con gli stessi aiutanti nella città di Ascoli, poiché risultava che i due coniugi Mirabella, in quella città avevano dei terreni affittati nella Locazione di Vallecannella. Pertanto furono sequestrate 30 vacche e, dopo un primo bando andato a vuoto, ne fu fatto un altro in data 26 Febbraio 1682, in cui il banditore pubblico che era anche ordinario giurato della Corte di Ascoli, Domenico di Barletta, andando in giro per il paese, con voce chiara e forte, così diceva : ”Chi vuole comprare le trenta vacche esecutate a Diana Pisano e Francesco Mirabella ad istanza di Isabella Pisano, si presenti al solito posto di questa città, perché lì ci sarà l’estinzione dell’ultima candela”. Così avvenne e le trenta vacche furono aggiudicate all’ultimo di coloro che spense la candela, asta che avvenne alla presenza di due testimoni, Don Antonio Giarnera e Don Ferrante d’Alessandro, entrambi della città di Ascoli. Ma, Don Francesco Mirabella, niente affatto contento di come erano andate le cose, si recò a Foggia presso la Regia Dogana accompagnato dallo zio della moglie don Vincenzo Pisano,  prelato della Cattedrale di Bovino, e fece istanza di nullità di quell’atto per vari motivi: perché quelle vacche facevano parte dei beni dotali della moglie Donna Diana e pertanto  non potevano essere vendute così, senza un preventivo nulla osta del giudice competente, perché non v’era traccia alcuna di quel debito presso gli Archivi della Local Corte di Vallata, perché quello presentato dalla quondam Donna Isabella era privo del  regio suggello e mancava pure la firma del Segretario, perché ancora alla data odierna non sapeva chi fossero i veri eredi della quondam, ricorreva in ulteriore grado di giudizio continuando il processo alla Sommaria a Napoli, motivo per il quale si ignora come fosse finita la causa in quella sede.
        Nella Dg. II b. 59 f. 1851, Don Vito Antonio Novia di Vallata, nel 1671 citò in giudizio Don Carlo Melchionna di Bisaccia per un saldo del prezzo di una mula acquistata sin dal giorno 8 Novembre 1669. Quel giorno, quando l’attore del processo convenne con Don Carlo Melchionna il prezzo della mula, questi non avendo tutto il denaro pattuito con se, gli diede 18 carlini in contanti, altri 7 in caciocavalli, ma avanzavano ancora quattro carlini e mezzo che gli promise di saldare quando si fosse trovato, prima o poi, dalle parti di Vallata. Ma, dopo tanto attendere, i quatto carlini e mezzo Don Vito Antonio Novia non li ricevette più e, avendo saputo che Don Carlo Melchionna detto “Melone” sarebbe passato per Villamaina e che era suo costume fermarsi alla Taverna del paese, si recò presso la Corte Locale di quella città per denunciare quanto accadutogli, mostrando l’atto di vendita fatto nel 1669 a Bisaccia, ed ebbe rassicurazioni dal Governatore De Angelis che così sentenziò : ”a partire da oggi 18 Agosto 1771, giorno della denunzia, se Don Carlo Melchionna in persona passa dalla Taverna, gli faccio sequestrare la mula” ma, subito dopo, convocando in modo ufficiale Don Vito Antonio Novia gli ricordò che erano entrambi locati presso la Regia Dogana, pertanto, avrebbe dovuto spedire a Foggia tutto l’incartamento della causa, perché quello era il loro foro competente e così fece mettere a verbale: ” ancor prima di ogni altra cosa, è mio dovere informare il governatore di quel Tribunale! ”. Così avvenne ed il Presidente della Regia Dogana, nonché Presidente della Camera della Sommaria di Napoli, Miles Hyspanicus, Don Didaco Viloa, venne informato della faccenda, ma decise di inviare le competenze per l’acquisizione delle testimonianze, all’Ufficiale Doganale di Rocchetta, Don Carlo Maffei, che ricevette per primo il canonico della Chiesa Cattedrale di Bisaccia, Don Simone Cappa. Questi, interrogato, così testimoniò: “confermo che Don Vito Antonio Novia vendette la mula, che deve ricevere 4 carlini e mezzo e che adesso, ho fatto i conti e,  con gli interessi sono arrivati a 7 carlini ”. L’Ufficiale Doganale, nel ricordare al canonico della Cattedrale che ad emettere giudizi ed a trarre il resoconto degli interessi era compito solo del giudice fiscale di Foggia, si apprestò a far comparire altri testimoni ma, all’improvviso, arrivò un atto con il quale veniva reso edotto che Don Carlo Melchionna era morto. Don Vito Antonio Novia che era presente alla scena, rivoltosi preoccupato verso l’ufficiale doganale, proferì : “ed ora quel debito chi me paga? ”. Allora, l’ufficiale doganale Maffei fece esplicita richiesta al Credenziere della Dogana di Foggia ponendogli quel quesito e la sua risposta non tardò che qualche giorno : “ la moglie del quondam, se vuole, può risponderne ma, si deve provvedere a fare una valutazione della mula e poi si venda ad ultima estinzione di candela”. Ma, quando l’alguzzino di Rocchetta Sant’Antonio andò a chiedere alla vedova di Don Carlo Melchionna che fine avesse fatto la mula, Donna Laura Norillo che abitava a Bisaccia a fianco del Monastero della città, riferì di averla venduta per 16 ducati a Cesare Profeta. L’alguzzino si mise subito sulle tracce dell’incolpevole carrettiere che fu trovato nella Taverna di Villamaina che mostrava tutto soddisfatto agli amici il buon affare che aveva fatto nel comprare la mula. Ma, quando fu affrontato dall’alguzzino di Rocchetta, nell’apprendere la storia rimase pietrificato e disse che “mai e poi mai pagherò i sette carlini a Novia”. L’alguzzino, allora, gliela sequestrò e la portò con se a Rocchetta e poi chiese lumi al suo capo Don Carlo Maffei. Questi, in virtù di ciò che aveva disposto Foggia, chiamò da Bisaccia due esperti vaticali per far valutare la mula sequestrata e poterla vendere ad ultima estinzione di candela. Fu così che arrivarono Don Giacomo Andrea Vitale, noto proprietario del luogo e Tenore Iannuzzo che, facendo la relazione al Presidente della Dogana scrissero :”sebbene la mula sia di una certa età, può ancora servire per diversi servizi e noi, pertanto la valutiamo in 18 ducati”. Portata a Foggia, fu venduta ad estinzione di candela ed aggiudicata ad un affittatore di terre salde della città di Manfredonia.
        Nella Dg. II b. 60 f. 1906, nel 1672 Angelo Cuoco di Vallata fu citato in giudizio dal suo compaesano Donato Antonio Villano per la vendita di un cavallo avvenuta in modo fraudolento. Infatti, successe che Cuoco essendosi recato alla Fiera di San Vito il 15 Giugno di quell’anno per vendere un cavallo, incontrò Donato Antonio Villano che era andato lì a vedere che animali si vendevano e trovandosi dopo parecchio tempo perché amici sin dall’infanzia, ammirò molto il cavallo e stette lì per tutto il tempo ad osservare la sua imponenza ed il suo mantello baio scuro. Ma, nonostante gli piacque molto, gli fu riportato indietro ed il compratore pretendeva che gli fosse restituita anche la somma spesa per l’acquisto. Quel giorno in fiera il patto che i due strinsero fu che per due giorni successivi l’avrebbe potuto provare e il terzo giorno, se ancora lo voleva, il compratore doveva dargli 34 ducati e così avvenne e Donato Antonio Villano che di professione era carrettiere nella città di Foggia ed un cavallo bello e grande come quello gli serviva proprio, dopo averlo provato per due giorni, arrivando fino alla città di Troia, il terzo, tornato a Vallata, pagò quanto concordato e porto con se il cavallo che al suo stesso dire: “ al timone andava assai spedito nonostante tutta quella sua imponenza”. Tornato nel capoluogo della Capitanata, s’impegnò col suo cavallo nel trasporto di “Balloni di spighe” da Manfredonia a Foggia ed “in uno di quei viaggi, il cavallo avendo incontrato un chiancone per strada, si fece male ad un piede e non riuscì più ad alzarsi”. La fortuna per lui fu che sopraggiunse un altro suo amico carrettiere di Montuoro, ma residente pure lui a Foggia che, dopo aver provato a far alzare il cavallo ma senza alcun risultato, ritornò con il suo aiuto in città. Fu così che, in piena campagna granaria, quando il cavallo gli sarebbe davvero servito, questo camminava zoppo e, nonostante fosse ridotto così lo portò a Vallata e, portatosi davanti alla casa di Angelo Cuoco lo legò lì davanti avendo saputo che momentaneamente era assente perché impegnato in campagna a dissodare le terre salde che aveva preso in affitto alla Regia Dogana. A sera, tornando a casa, si accorse subito della brutta sorpresa e  venne a discussione con il suo ex amico Donato Antonio Villano che pretendeva la restituzione dei 34 ducati, dopo ben 15 giorni di duro lavoro. Fu così che Donato Antonio Villano si vide costretto a citare in giudizio Angelo Cuoco; andò a Foggia il 12 Luglio presso quel Tribunale perché sapeva che l’ex amico era  affittatore di terre salde ed aveva gli stessi privilegi degli altri locati e lì cercò di tutelare i propri interessi. In quella sede l’Uditore giudiziario era Don Ignacio D’Amico che dopo aver ascoltato il convenuto, decise che il 27 Settembre il cavallo sarebbe dovuto ritornare a Foggia perché sarebbe stato “peritato da due maestri siniscalchi” e solo dopo avrebbe emesso il suo giudizio, ma alle rimostranze del Cuoco che desiderava sapere dove dovesse stare il cavallo fino a quella data e chi lo avrebbe dovuto accudire, il Villano disse che si offriva lui a trovare una soluzione a quel problema perché lo avrebbe detto a suo fratello sacerdote a Vallata. Puntuali, il 27 Settembre giunsero innanzi al Palazzo doganale i due periti e maestri siniscalchi Vito di Meo ed Antonio Pallotta entrambi di Foggia, esaminarono il cavallo e, portatisi dal notaio Albanese pure di Foggia, emisero un giudizio concorde tra loro: ” quello del cavallo è un male vecchio “. Acquisito il loro parere il Giudice D’Amico rinviò il suo giudizio al 24 Ottobre, data in cui a Foggia si presentò anche il fratello sacerdote di Donato Antonio Villano e dopo aver parlato con il Giudice mise agli atti una sua dichiarazione che: ”mi sono informato a Vallata che quello era un cavallo che aveva già avuto quei problemi, ma mio fratello quando l’ha provato al timone non poteva accorgersene, perché non lo sforzò al lavoro come avrebbe dovuto, quindi ci fu dolo da parte di Angelo Cuoco che pur sapendo del grave difetto lo vendette a mio fratello”. Subito dopo, sempre nella stessa giornata arrivò il giudizio del Giudice D’Amico che condannò Angelo Cuoco alla restituzione dei 34 ducati a Donato Antonio Villano, più al pagamento delle spese processuali.
        Da atti processuali sbiaditi ed ingialliti dal tempo, nel fondo della Dg. II atto 3136, ho appreso che nel 1698, a Vallata, c’era un notaio che stipulava gli atti il cui nome era Don Joseph Garzella che aveva sposato la Mag.ca Donna Antonia Montanarella di Melfi. Il notaio, oltre ad aver ereditato dei beni dalla moglie assai importanti nella locazione della Camarda, era un esperto di zootecnia, poiché già dal 1658 aveva avuto la nomina di “maestro dei massari della Real Razza delle giumente di Puglia a Vallata”, grazie all’interessamento della Duchessa Donna Giovanna della Tolfa e di suo marito Ferdinando Orsini. Alla morte del notaio avvenuta nel 1698, quell’attività avrebbe dovuto continuarla il figlio Don Orazio, ma fu fortemente osteggiato da due personaggi assai influenti in quel periodo a Vallata, dal Mag.co Utriusque Juris Doctor Don Francesco Mirabelli e dal Mag.co Don Antonio Capuano che addussero che  sul notaio e quindi sui suoi eredi, gravavano 400 ducati di debiti contratti con il Mag.co don Francesco Pavese che gestiva, come priore, le proprietà delle cappelle di San Domenico e di Santa Catarina. Dopo la morte del notar Joseph Garzella, chi stipulò gli atti a Vallata presso la local corte della principessa di Galluccio, fu Don Horatio Sauro. Alla fine del 1600 la Cappella di San Domenico possedeva delle vigne e degli appezzamenti di castagne, uno di quattro tomoli, nel luogo detto ”Le porte di Lagane”, gestendo anche “li beni dell’Ospedale di capacità di circa quattro persone”, oltre ad una casa sita nel posto detto “Lo Finellino”, composto da sette membri soprani e sei membri sottani, mentre la Cappella di Santa Catarina, confinante con la via pubblica gestiva alcune vigne in loco detto ”Padula” ed alcuni appezzamenti dati a gestire all’Arcipresbiter Don Bartolomeo Vella che ne possedeva anche di suoi, sia sul lato destro che superiormente a quelli della stessa cappella, oltre ad altri appezzamenti di terra che facevano parte del Rev. capitolo di detta terra di Vallata che si estendevano sulla via che andava verso Bisaccia. Il Sindaco del 1698 a Vallata era il Medico Don Francesco del Bufalo, figlio di Domenico, il capo eletto Silla Antonio, eletto Gennaro Rosa, eletto Nunzio delle Grazie, eletto Cesare Labella.

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