Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Processi dal 1719 al 1750.

Capitolo IV
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4.1 Processi in Alta Irpinia dal 1719 al 1741.

        Nella Dg. II, b. 174 f. 4043 il 6 Febbraio 1719, Giacinta Paduano di Trevico citò in giudizio Gerardo Raffa di Zungoli per una pretesa eredità di 390 Ducati di cui la comparente dichiarava essere la sola, legittima ed esclusiva intestataria. Il fatto fu che Donna Giacinta era la legittima moglie di Don Giuseppe Verdoglia di Trevico, locato della Regia Dogana di Foggia presso cui si era rivolta per ottenere giustizia di un assunto assai grave, tanto che preferiva che a raccontarlo fosse il marito, unico suo amministratore,  che chiamava a rappresentarla per tutti gli atti che si sarebbero dovuti compiere. Don Giuseppe Verdoglia marito di Donna Giacinta disse che la moglie aveva uno zio di nome Angelo Potito ed un altro di nome Michelangelo, entrambi senza eredi, né figli naturali, né legittimi. Il 1° dei due zii, Angelo Potito decedette due anni prima  del 1719 ed un mese prima della sua attuale denuncia, decedette anche lo zio Michelangelo Susanna e, l’unica erede avrebbe dovuto essere la nipote, sua moglie Giacinta, che avrebbe dovuto avere 390 Ducati più tutta una serie di beni stabili, mandrie di pecore, vacche e giumente che le dovevano arrivare per effetto di tale eredità, tutti beni che si trovavano a Zungoli. Tale dichiarazione fu fatta presso la Marchesal Corte di Carife, dove il Notar Domenico Pelosi della terra di Vallata, attestava quanto detto dal dichiarante Don Giuseppe Antonio Verdoglia e scrisse che era giusto che Donna Giacinta si appellasse al “decreto del preambolo” poiché era l’unica erede e sarebbe potuta entrare direttamente sull’eredità, oltre al fatto che gli zii avevano scritto su una Pergamena, che si accludeva alla documentazione, nella quale si attestava in modo olografo che tutto sarebbe dovuta andare alla loro nipote Giacinta. Ma, c’era quel tal Gerardo Raffa proveniente dalla “Terra Zuncolorum” che, con un atto redatto a San Nicola Baronia dal Notaio Evangelista, tutto scritto in un latino maccheronico ed evidentemente artefatto, con il quale si dichiarava che Gerardo Raffa era figlio dello zio Michelangelo, pertanto quest’ultimo, era entrato con un atto d’inibitoria fatto dallo stesso Notaio Evangelista, presso il Giudice della Regia Dogana di Foggia, per congelare il passaggio del patrimonio del presunto padre e del presunto zio a Giacinta Paduano, bloccando i 390 ducati e utilizzando al momento, tutta la proprietà terriera degli stessi defunti zii. Tutto l’incartamento ed il processo durò abbastanza, e nel 1723 venne mandato dalla Regia Dogana di Foggia alla Gran Vicaria di Napoli, considerata sede più competente per quei giudizi così delicati. Furono richiesti atti in originali, documenti prodotti da Raffa di Zungoli, atti probatori delle proprietà degli zii, e si arrivò al giudizio finale del 26 Febbraio 1729, col quale si dichiarò falso l’atto prodotto dal Notaio Evangelista a favore di Gerardo Raffa, ma s’invitò la Corte di Carife a mandare un sopralluogo a Zungoli per verificare il patrimonio terriero e lo stato di consistenza delle Masserie ancora nelle mani di Gerardo Raffa e dei suoi numerosi fratelli. Il notaio Don Domenico Pelosi fu incaricato di fare quell’operazione con uno o più sopralluoghi e di redigere uno stato di consistenza fatto di: 300 tomoli di grano, 178 tomoli a granone,  46 tomoli a vigne, 1000 pecore, 253 vacche e 35 vitelli, 42 giumente. Ma, tutto quell’ingente patrimonio consistente anche in vari corpi di fabbrica, beni stabili come varie masserie e case coloniche, anche se furono passate a Donna Giacinta, a sorpresa, intervenne un accordo extragiudiziale fatto dall’Avvocato del Porro di Mirabella e poi presentato prima alla Regia Dogana a Foggia e poi per competenza alla Gran Vicaria a Napoli, col quale si dichiarava che Raffa Gerardo di Zungoli, poteva rimanere su quei beni purché avesse portato gli interessi della signora Giacinta e che, a cominciare da quella data, si sarebbe potuto considerare enfiteuta di quelle proprietà, avendo Donna Giacinta confermato che l’avrebbe fatto: “non fosse stato altro che per il rispetto e l’amore che questi portava verso il mio amatissimo zio Michelangelo”.
        Nella Dg. II, b. 184 f. 4255 il 6 Settembre 1719 fu fatta una società tra due locati della locazione di Vallecannella della Regia Dogana di Foggia, il vallatese Pietro Antonio Garruto e l’abruzzese Marino Mancino della terra di Pescasseroli che avrebbe trovato fine solo due anni dopo, cioè il 6 Settembre 1721. L’atto fu redatto dal notaio Francesco Consoli di Foggia dove Garruto si recò assieme all’altro testimone ed amico Don Carmine Malgieri ed avendo saputo che sapeva leggere e scrivere gli chiese di autocertificare lui stesso il fatto che avesse una società e Garruto non se lo fece ripetere due volte : quell’ inchiostro sporca ancor oggi e sono finanche visibili le sue impronte digitali. L’atto apparve anche sull’albarano della città di Vallata dove tutti appresero che i due avevano fatto una società dove entravano con gli utili, le spese e gli interessi, nella misura del 50% cadauno. Gli animali erano composti da 320 vacche, 305 pecore, 249 agnelli nati nei due parti primaverili ed autunnali, 25 capre, 13 capretti, oltre a 2 giumente baie di Pietro Antonio Garruto ed il cavallo ed una giumenta di Marino Mancino, che fecero valutare attentamente perché il solo cavallo valeva 16 ducati e “se per una mala fortuna la società non fosse andata bene, nessuno dei due doveva rimetterci”. Pertanto fu anche stabilito che il 1° Maggio in bilancio sarebbero andate le spese relative alla carosatura degli animali e l’utile della vendita dei rotoli di lana così, sarebbero state annotate le spese dei garzoni, la fida da conferire e quant’altro sarebbe servito per il mantenimento degli animali. Così i due avrebbero pagato un salario a Carmine Garruto e Biagio Mancino relativi fratelli addetti alla manutenzione dell’occorrente, come l’acquisto del sale, delle caraffe dell’olio, dell’acquisto dell’orzo, ma il responsabile di tutto sarebbe stato Pietro di Benedetto, figlio di abruzzesi e stabilitosi nella città di Ascoli che avrebbe risposto direttamente ai due soci. Così nel fascicolo apparve un vero e proprio bilancio economico in cui i dati grezzi venivano forniti da un libricino di pergamena su cui venivano annotate le spese per il ferraro, per l’acquisto della paglia, per il barilotto del vino, per il compassatore, per le scarpe, per le 4 galline comprate, per le sarde, per i rotoli di pane, per la concia delle coratine che venivano preparate nella città di Rocchetta Sant’Antonio, così apparve anche la gratificazione di grana 83 data ai due garzoni per Natale, le spese di viaggio per un altro guardiano che doveva ritornare a casa sua in Abruzzo nella città di Calascio, ed 8 ducati al Dottor Don Gennaro Testa di Frigento che aveva messo una stalla a disposizione dei loro animali. Ma, al termine dei due anni, anche se le cose andavano bene, c’erano delle differenze da compensare che aveva creato non pochi problemi di comprensione a Marino Mancino e, di comune accordo decisero di affidarsi ad un “lodo arbitrale” nella persona del Dottor Signor Don Antonio de Federicis della città di Vallata, decidendo che qualunque fosse stata la sua decisione, questa andava rispettata e nessuno dei due poteva invocare la nullità dell’atto, anzi quella relazione sarebbe stata per i due considerata al pari di una sentenza della S.R.C. di Napoli. Il 23 Maggio 1721 portarono le scritture, i conti e le ragioni della contesa affinché fosse fatta giustizia, al Dottor de Federicis che avrebbe potuto avvalersi anche di un altro arbitro, ma sempre in una rosa di 4 nominativi che eventualmente loro gli avrebbero amichevolmente fornito. Ma il Dottor de Federicis in due giorni, preparò una dettagliatissima relazione, riportando punto per punto tutte le spese e tutti gli utili, senza bisogno di nessun aiuto, in cui alla fine riportava che le spese fatte per il 1° anno da Pietro Antonio Garruto ammontavano a ducati 42 e che per il secondo anno a 46 ducati, per un totale di 88 ducati spesi in due anni, a fronte di spese sostenute da Marino Mancino per 31 ducati al 1° anno ed a ducati 32 per il secondo, ammontanti a 63 ducati; quella differenza andava data per conguaglio a Pietro Antonio Garruto e non doveva essere divisa a metà come pretendeva l’abruzzese. Allora, tutti e due i contendenti si dichiararono pienamente soddisfatti di quel giudizio “super partes” e pensarono di comune accordo di continuare la società, ma allorquando Pietro Antonio Garruto andò dal Segretario della Corte Locale di Vallata per farsi rilasciare un attestato di quanto stabilito dal Signor Dottor Don Antonio de Federicis, gli fu negato “perché sempre questa è stata la consuetudine in questa terra”. Ma fu allora che Pietro Antonio Garruto, portatosi presso il Tribunale di Foggia che faceva gli interessi dei locati come lui, espose all’Ill.mo Signor Doganiere e Governatore tutta la vicenda e, sia pur sentendosi garantito assieme al suo socio per una giusta decisione, chiese ed ottenne che tutti gli incartamenti, il bilancio, il libricino prima nota e principalmente la relazione del Dottor de Federicis fossero trasmessi in quella sede. Così, recatosi a Vallata l’alguzzino della Regia Dogana Antonio de Dominicis ed avendo notificato ed intimato l’ordine nelle mani proprie del Dottor de Federicis, portò tutto a Foggia, dove il Segretario Mastrodatti Silvestro Pecoraro scrisse che dal 9 settembre 1723 tutto era registrato nella Banca dei Processi di Foggia.
        Nella Dg II. b. 178 f. 4132 l’ 18 Settembre 1721 comparve una causa tra il Mag.co Don Giuseppe Antonio Verdoglia della terra di Trevico ed i fratelli Saverio e Gerardo Berardi della città di Castel Baronia. Il Verdoglia che abbiamo già trovato come antico e nobile locato della Regia Dogana di Foggia, in quella stessa sede promosse atti civili contro i fratelli Berardi di Castel Baronia, perché nel momento in cui decise di vendere una sua proprietà, apparve un atto dei fratelli Berardi che diceva che anche loro vantavano un censo su quell’antica proprietà che all’origine era della diocesi di Trevico, cioè il Convento dei P.P. conventuali di Carife. Ma, il Mag.co Verdoglia mostrò tutta una serie di atti attestanti come gli era pervenuta tale proprietà, antichissimi diritti, servigi fatti ai frati conventuali dai suoi predecessori, ed infine un atto di donazione “inter vivos”, fatto dal Notaio Iascone di Trevico, da parte di  un suo zio che era il Primicerio Padre Michele Angelo Verdoglia che l’aveva da molto tempo avuta in affidamento, come conto capitale, da parte del Convento di San Francesco. L’atto dell’affidamento portava il sigillo del Comune di Trevico e portava la firma del Notaio Francavilla di detta terra. Presso il Tribunale della Regia Dogana di Foggia venne portato un atto scritto metà in latino e metà in spagnolo e dalla cui lettura apparve come una specie di proclama ed evidentemente di dubbia provenienza e colui che lo fece mettere agli atti fu un tal Angelo Ricciardo, che si definì quale Procuratore degli eredi del defunto Francesco Berardi. Questi, inoltre, fece scrivere sugli atti processuali che quel Documento fu redatto a Roma presso la Santa Sede, ed ”il Sigillo lo può dimostrare”. Il documento presentato riportava che su tutte le proprietà del Verdoglia, esisteva un censo di 800 ducati. Si chiesero tutte le carte al Capitolo della Chiesa di Carife, questa inviò tutta un’altra serie di atti alla Diocesi di Trevico, e di qui, tutto fu mandato a Roma presso la Santa Sede. Nel frattempo si acquisivano informative circa i fratelli (de)Berardi di Castel Baronia, in particolare sul maggiore dei due Gerardo che, a dir di molti, era un Gran Professore. Ma, a Dicembre 1721, arrivò il responso del Collateral Consiglio da Roma: “l’Atto prodotto è un falso, i fratelli Berardi non vantano alcun censo, il Sigillo della Santa Sede è vero, ma è quello che è stato rubato”.  Il Mag.co Don Giuseppe Antonio Verdoglia non avrebbe voluto proseguire il giudizio nel confronti dei fratelli Berardi perché non avrebbe voluto che la sua azione avesse fini persecutori e lo fece mettere a verbale ma il giudice scrisse che la legge imponeva di produrre giudizio criminale e fu obbligato quindi a farlo, con atto del notaio Iascone di Trevico depositato a Foggia e la giustizia iniziò il suo corso, ma non sappiamo come finì la storia ma, spulciando altri atti, dopo sei anni, la vittima fu la Cappella del S.S. Sacramento di Vallata, peccato che all’epoca non ci fosse l’informatizzazione dei dati (vedi b. 194  f. 4487).
        Nella Dg. I, b. 247 f. 9146 il 3 Aprile 1724 ci fu una causa tra i Mag.ci Dottori Don Giuseppe Verdoglia, Don Francesco d’Arminio e Don Romualdo Montieri tutti della città di Trevico contro il Regio Fisco nonché l’affittuario del Regio diritto d’allistamento rappresentato dall’ill.mo Marchese di Trevico e Conte di Potenza. Il fatto consistette nell’abuso di potere di quest’ultimo che, innanzi ai commissari del Regio Fisco della Dogana di Foggia, essendo il detentore del Feudo di San Pietro, mostrò chi erano coloro che avevano preso in affitto i terreni di quella Defensa, rilevandolo dal Libro delle numerazione degli animali grossi allistati. E, fu così che due ufficiali doganali, Carmine Leone di Acerno ed Antonio Giordano di Vallata, avendo appreso che 80 vacche e 23 giumente erano iscritte a nome del Primicerio Verdoglia, fratello di Don Giuseppe, risalirono ai tre reali detentori di quegli animali: Romualdo Montieri, Giuseppe Antonio Verdoglia e Francesco d’Arminio. Questi due ufficiali doganali fecero una relazione ai due Credenzieri della Regia Dogana di Foggia  che erano i Signori Picchieri e Pecoraio, e scrissero : “fin dal 1723 si sono verificati degli sconfinamenti degli animali dei tre Dottori e Locati di Trevico, poiché più volte sono state avvistate delle vacche che dal Feudo di San Pietro, attraverso il Regio Tratturo, che sono arrivate fino alla località detto Lo Scaricaturo nel tenimento di Candela”. I tre locati, chiamati a rispondere a Foggia, presentarono un ricorso e negarono di essere mai arrivati sin lì ed aggiunsero che si trattava di “pura estorsione, come falsa era la loro relazione”, poiché le 23 giumente erano allocate presso la Posta fissa di Salvetere che apparteneva al Feudatario l’Ill.mo Signor Conte di Potenza e le 80 vacche non si erano mai mosse dal Feudo di San Pietro. Il 30 Maggio 1724 il Presidente della Dogana che nel frattempo era cambiato perché subentrò Don Joseph de Aguirre, Conte di Massotta che era anche Presidente della Regia Camera di Santa Chiara a Napoli, assolse i tre personaggi di Trevico, perché aveva appreso che dal Feudo di San Pietro, non esisteva nessun Regio Tratturo che arrivava fino al luogo detto “Lo Scaricaturo” di Candela ed ammonì gli ufficiali doganali  Leone e Giordano ad essere più precisi alla prossima occasione.
        Nella Dg. II b. 190 f. 4381 l’8 Febbraio 1726 Pietro Antonio Garruto di Vallata, locato della locazione di Vallecannella,  promosse degli atti civili presso il Tribunale di Foggia contro alcuni suoi paesani, Giacomo Novia, Angela Sauro e la vedova Anna Quaglia dopo che aveva lasciato la sua eredità al figlio Vito. Questo il tono della sua esposizione: “Eccellentissimo signor Giudice, il sottoscritto Pietro Antonio Garruto di Vallata, ordinario Locato di questa Regia Dogana nella locazione di Vallecannella, si vede costretto a fare istanza a V.S. perché vuole intentare un giudizio per via di una casa  di Vallata sita in luogo detto Portonecchia che ha sia quarti soprani che sottani che confina con alcuni beni stabili di Giacomo Novia, Angela Sauro e la vedova Anna Quaglia. In particolar, ho venduto a Sauro una casa li vicino alla mia da cui si accede tramite un ponticello, e tutti i soprannominati signori si sono presi il giardiniello ed un orticiello che confinano con detta casa, ma la storia riguarda pure una grotta che si trova sotto questa casa ed anche un seminativo di tre tomoli siti in località detta Le Cesine”. Il fatto fu che quando suo figlio Vito, ricevette l’eredità proveniente sia dal padre che da parte dallo zio Geronimo Campo di Carife, vendette ad Angela Sauro una casa ma, l’atto notarile non era troppo dettagliato e creò problemi di incomprensione su quali fossero le proprietà vendute e così suo padre, non trovò quei beni di cui s’era parlato in precedenza, anzi, nel frattempo Angela Sauro le aveva date già in godimento a Giacomo Novia ed Anna Quaglia. Così, Pietro Garruto, decise di chiamare tutti in giudizio per appropriazione indebita perché volle far chiarezza circa ciò che il figlio aveva alienato e fece convocare tutti a Foggia, presso la Regia Dogana dove furono ascoltati dal giudice. Pertanto, il 1° a parlare fu Pietro Antonio che fece mettere agli atti la sua richiesta: ”Supplico V.S. che tutto l’incartamento sia mandato a San Sossio o dove riterrà più opportuno perché venga un alguzzino e faccia un sopralluogo e così io potrò stare più tranquillo”.Tutti i convenuti si dissero d’accordo su quella richiesta di Garruto, così che l’istanza fu accettata e l’incartamento inviato a San Sossio. Così l’alguzzino da San Sossio si recò a Vallata sul posto e, nell’atto che fece predisporre il 23 Maggio 1726 e che fu inviato anche all’Ufficiale Doganale di Foggia, c’era scritto : “Sono stato lì per ben due volte sul posto, ma non sono riuscito a sapere qual’era la verità perché ognuno raccontava la sua versione dei fatti, allora ho dato un termine perentorio di un mese di tempo perché ognuno degli aventi diritti mi mostri le sue carte ad probandum e gli atti notarili del caso”. Nel frattempo Pietro Antonio Garruto presentò anche un atto con due testimoni che erano Antonio Villa e Ferdinando Salomone che attestavano che quei beni, erano sempre stati della famiglia dello zio di Vito, suo figlio. Però, trascorso un mese, nessuno mostrò gli atti necessari ad attestare realmente le proprietà vendute ed acquistate, ma con certezza si accertò anche che la grotta, l’orticello ed il piccolo giardino erano frutto di abusi fatti e che bisognava comminare una multa a Vito Garruto,  perché le proprietà risultavano della Chiesa, a meno che, così sentenziò il giudice : “Questa non ne faccia espressamente menzione in un atto pubblico”. Così accadde e la situazione fu sanata il 21 Settembre 1726 grazie a Don Gaetano del Bufalo della Chiesa Matrice della Terra di Vallata, con avallo del timbro notarile di Don Fabio Magaletta, nel quale atto fu scritto che quei beni da tempo furono concessi ai parenti dei Garruto per opere meritorie nei confronti della Chiesa. Quindi, si stabilì che quello che aveva venduto Vito Garruto era soltanto la casa confinante con Sauro collegata ad essa tramite un Ponticello che era da considerarsi ora una servitù di passaggio comune a tutti gli altri aventi diritto e che, in virtù dell’atto di magnanimità della Chiesa, anche l’orticello, il piccolo giardino, la grotta e la terra alle Cesine, rimanevano di proprietà di Garruto Vito.
        Nella Dg. II b. 220 f. 5158 vi fu un atto con il quale il 3 maggio 1740  Don Domenico Capuano di Vallata dopo aver intentato un giudizio durato vari anni, ottenne giustizia contro gli eredi di Don Ciriaco Floja di Carife e Domenico D’Ambrosio di San Nicola Baronia. Il Dottor Fisico Don Domenico, quale procuratore del Banco dei Poveri riferì innanzi al Giudice che sin dal 23 Agosto 1731 fu fatto un “grazioso prestito” a Don Ciriaco Floja di Carife perché, dovendosi sposare la figlia, avrebbe voluto dotarla per questa esigenza e non avendo una disponibilità immediata, gli chiese un credito di 50 Ducati. L’atto fu firmato dal Mastrodatti Don Stefano Pelosi di Carife e il prestito consisté in una “Fede di Credito” del Banco dei Poveri intestato a Teodoro Bertone, che Don Ciriaco s’impegnò a restituire entro il 23 Agosto 1732. Ma, a quella data, questi non potendo ancora pagare, chiese, se possibile, di procrastinare il debito a Gennaio 1733. Ma, dopo che l’atto fu redatto in quel modo, Don Ciriaco Floja morì sotto le rovine di quel terribile terremoto, e nessuno riuscì più a trovare quella fede di credito. Furono ascoltati gli eredi Floja, i quali ricordavano qualcosa, ma si ritenevano dispensati dopo quell’evento luttuoso che li aveva colpiti tanto duramente. Fu indagato a fondo per rinvenire almeno una copia dell’atto, ed il Notaio Magaletta di Vallata andò a chiederne una copia al mastrodatti di Carife, Stefano Pelosi. Questi, arrivato a Carife il 13 Dicembre 1732, andò a casa del Mastrodatti Pelosi e, verbalizzando il loro incontro, scrisse in una postilla in basso “l’ho ascoltato, conoscendolo personalmente anche perché figlio del notaio Don Domenico, mio maestro di professione, ma risultava ferito al braccio destro e compromesso nel suo lavoro, ma mi riferisce di ricordare bene che quella Fede di Credito fu girata a D’Ambrosio Domenico, genero di Don Ciriaco come dote della figlia, ma non poteva, in quel momento di distruzione, trovare nessuna copia di quell’atto”. Alla fine, dopo tante ricerche, il notaio Magaletta rinvenne la Fede di Credito a San Nicola Baronia dal notaio Antonio Annolfo e questi disse che a lui era pervenuta dal notaio Domenico Mancino di Castel Baronia, perché lì D’Ambrosio l’aveva scontata per avere dei soldi per comperare la Masseria con la Vigna,  e precisamente la somma era di 36 Ducati e carlini nove. Rintracciato il D’Ambrosio, portò l’atto d’acquisto della masseria e dovette impegnarsi a restituire la somma come concordato entro Gennaio del 1733. Ma, alla data prestabilita, il D’Ambrosio non solo non pagò, ma tramite il notaio Mancino comperò pure altri terreni e si dichiarò debitore nei confronti dei suoi cognati, eredi di Don Ciriaco,  per una somma che eccedeva ben oltre i 50 ducati che pure avrebbe dovuto già restituire. Saputo l’accaduto, come prima cosa il Procuratore del Banco dei Poveri, Don Domenico Capuano fece ricorso al Governatore di Rocca San Felice e di Carife, chiedendo il sequestro dei beni degli eredi Floja a Carife che prontamente ottenne, ma trovò solo una botte cerchiata di legno piuttosto capiente e, dopo averla sequestrata e provveduto alla vendita ad estinzione di candela, il 18 Febbraio 1733, ricorse alla Gran Vicaria di Napoli. Quest’ultima provvide al sequestro delle proprietà di D’Ambrosio nel 1736 e il 3 Maggio 1740 ottenne il sequestro dei beni di D’Ambrosio di Castel Baronia ed in tal modo il ricavato fu restituito al Dottor Capuano per il benefizio del Banco dei Poveri.
        Nella Dg. II b 223, f. 5255  nel 1741 Lorenzo Cervellino, sposato a Vallata, citò in giudizio l’Ufficiale Doganale di Castel Baronia. Il fatto fu che questi era debitore di un tal Giuseppe Maiore della terra di P. Montecorvino, ma quegli, a sua volta, era creditore di Don Giuseppe Maruzza, sacerdote ed economo della Mensa Vescovile della città di Trevico ed allora gli cedette il suo credito che era anche minore rispetto a quanto gli doveva il Cervellino. Questi, infatti, aveva contratto con Maiore una Bancale(=cambiale) di ducati sei ed un’altra con la quale s’impegnava a dargli quanto ricavato dalla vendita di venti tomoli di grano. Entrambi i crediti furono legalizzati dal notaio Fabio Magaletta di Vallata e “penes acta” s’impegnò a renderglieli entro l’anno. Tutto ciò non avvenne e Lorenzo Cervellino fu arrestato e trasportato al carcere doganale di Foggia ma, dopo otto giorni di permanenza in loco, fu portato nelle carceri sicure della città di Vallata e lì Lorenzo Cervellino avrebbe voluto rimanere ma, quando l’alguzzino andò a Vallata per effettuare l’atto esecutivo sui beni, non solo non trovò a chi consegnare l’atto di sequestro, ma si rese conto che Cervellino non aveva nulla perché questi era ussorato a Vallata ma lui, in realtà, era di Oppido. Così, comparve un documento del Comune di Vallata in data 25 Ottobre 1741 con relativo sigillo, in cui il Sindaco Don Francesco Rosata attestò che effettivamente Cervellino era di Oppido, a tre giornate di viaggio da Vallata, ma che questi aveva già provveduto a vendere i beni di sua moglie perché aveva intenzioni di andar via da quella terra ed attestò che la moglie di Lorenzo Cervellino era passata nel suo studio per dargli in moneta contante i 6 Ducati, quindi, a quel punto, poteva garantire che quei ducati erano a disposizione presso di lui, per essere consegnati al sacerdote Maruzza di Trevico e così anche i proventi dei 20 tomoli di grano. Firmato: io Sindaco di Vallata  Francesco Rosata, io Don Paolo Pali capo eletto e testimone, io Antonio Villa eletto e testimone. Seguì la richiesta alla Mensa Vescovile in cui c’era scritto se ancora a loro risultasse quel debito di Giuseppe Maiore di Montecorvino. Ed allora, in data 25 Novembre comparve la lettera dell’Ecc.mo Giacomo Giugliani, ufficiale della Regia Dogana di Foggia e delegato nelle cause della Mensa Vescovile di Trevico che disse che il debito c’era nei confronti di quella Diocesi, così come confermato dal sacerdote Maruzza e che quello, fu a suo tempo anche riportato sull’Albarano, oltre che a conoscenza di Don Bartolomeo Novia della chiesa di Vallata. Firmato: Io Giugliani Giacomo Delegato Vescovile, Firmato: Io Arcipresbiter Don Bartolomeo Novia di Vallata, Firmato: Io Pietro Pelosi, scrivano e subalterno funzionario della Regia Dogana “in civitate Trevici”,  che aggiunse : “ho scritto questo atto per volontà della Mensa Vescovile di Trevico”. Ma, Lorenzo Cervellino, dalle “sicure carceri di Vallata” fu inviato con grandi strapazzi e maltrattamenti nella città di Castel Baronia e, nonostante tutto ciò, di lì riuscì a scrivere (=res in scriptis) una lettera al Governatore di Vallata, duca Orsini e per conoscenza alla Regia Dogana di Foggia a che qualcuno intervenisse per toglierlo di lì prima perché la Città di Castel Baronia era a sole due miglia da Vallata dove almeno ci sarebbe stata la moglie che avrebbe potuto andare a trovarlo e poi perché l’alguzzino Giovanni Primavera gli faceva gli screzi e lo strapazzava continuamente. L’Ecc.mo Duca di Gravina e Padrone di Vallata, l’8 Dicembre andò da casa sua a Castel Baronia dove intervenne pesantemente per far riportare Lorenzo Cervellino a Vallata e li, nella Corte Ducale, interrogò personalmente l’alguzzino Giovanni Primavera indagandolo formalmente per maltrattamenti, dopo averne fatto richiesta a Castel Baronia, e lo fece innanzi ai componenti dalla sua Corte e gli chiese perché si fosse comportato così con quel prigioniero. Questi, dopo un parlare senza costrutto logico, molto incerto se dire e non dire così si espresse “ l’ho fatto perché non ho trovato beni stabili su cui fare il sequestro e questo mi ha indispettito non poco”.
        Il Duca Orsini ottenne che quell’alguzzino fosse trattenuto per un paio di giorni e che, Cervellino ritornasse Vallata dove, dopo altri 12 giorni di detenzione, il 20 Dicembre 1741 fu rimesso in libertà e così, prendendo subito animo, chiese, se possibile, un poco di dilazione per pagare più comodamente quel suo debito ma non solo non gli venne concesso, ma dovette in 6 giorni liquidare quanto dovuto e così avvenne.
        Nella Dg. I, b. 86 f. 1318  vi fu una causa del 1741 tra il Mag.co Dottor Don Alessio Patetta di Vallata ed alcuni locati della locazione di Vallecannella. Il massaro Tommaso Contella di Monteleone di Puglia, raccontò prima al Dott Don Alessio suo padrone e poi alla Regia Dogana di Foggia che, come faceva ormai da tanti anni, portava le pecore in due posti diversi, ma sempre nella stessa locazione, sui terreni demaniali di Candela, nella zona detta “Piani dei Morti” e sugli altri dove il suo padrone pagava gli erbaggi, nella località detta ”Giardino” in località Incoronata. Accadde così che i pastori delle 700 pecore che pascolavano nel Demanio di Candela, si videro sbarrare la strada da altri che erano al comando di due massari abruzzesi di Frattura, tal Matteo Bariscianello ed Angelo Paparella, che addussero motivazioni che in quel posto stavano costruendo una Posticchia, cioè dei piccoli pagliai amovibili per il comodo dei pastori, dove vi potevano risiedere sia la mandria che il capo mandriano, e la stessa cosa accadde alle oltre mille pecore che erano andate alla località “Giardino all’Incoronata” dove, passando vicino ai terreni coltivati a vigna dal Dottor Iambrenghi e fratelli, il massaro ed i pastori del Marchese Don Girolamo Susanna di Zungoli stavano anche lì costruendo un’altra Posticchia, sempre su terreno Demaniale e considerato di passaggio per le pecore. Pertanto, il massaro Tommaso Contella, dovette, su consiglio e tutela del Dottor Don Alessio Patetta, sporgere denunzia contro tutti quelli nominati e, dopo aver segnato un segno di croce su di un atto, nominò suo procuratore, sia per le cause civili che penali, l’avvocato Michele Ricciotti, con i due testimoni che furono Gabriele Caterino ed Ignazio Centofanti. L’avvocato Ricciotti nel dibattimento fece riferimento a quanto stabilito in data 26 Novembre 1741, 15 giorni precedenti a questa causa quando, a proposito dei Ripartimenti della Locazione di Vallecannella, vi era un item nel quale si diceva espressamente: ”nessun locato può in tale locazione farvi Posticchia, ma detti Demani devono restare a beneficio solo di chi sta regolarmente catastato nella Posta fissa di Monterocilio”, ed il Dottor Don Alessio Patetta, oltre a detenere quel grazioso privilegio, ne faceva pure i relativi conteggi per il Regio Fisco. L’avvocato Ricciotti mostrò quell’atto di concordato, in data 26 Novembre, in cui aveva trovato il consenso dei Deputati, quali rappresentanti dei locati  della locazione di Vallecannella e del Presidente della Regia Dogana, Ill.mo Don Troiano de Philipiis. Allora, in data 10 Dicembre 1741, il nuovo Presidente Don Francesco Marchant, da qualche giorno insediatosi e subentrato al primo, ordinò che tutte quelle pecore che si sarebbero incontrate su quelle zone demaniali e che avrebbero voluto “ammorrarsi in qualche Posticchia”, fossero sequestrate e che di quel suo comando doveva farsene carico l’Ufficiale Doganale di Ascoli.
        Nella Dg. II, b. 436 f. 9234, nel 1750, Don Nicola Bariscianello, fratello di Don Matteo massaro di Frattura, essendo ormai da tanti anni un assiduo frequentatore del “Piano dei Morti” che faceva parte del Demanio di Candela, fu nominato custode dello “Scaricaturo di Candela”, ed allora raccontò che un giorno stava passando ad ispezionare quei luoghi quando osservò che negli Erbaggi dei Concinti, nella Mezzana delle Coste, Pietralunga e San Marco, c’erano ben 7 morre di pecore di persone non conosciute (=alieni), proprio in quelle zone che confinavano con il “Piano dei Morti” ed anche con i suoi terreni, per cui, nell’istanza che produsse, chiese che l’Ufficiale Doganale di Foggia dovesse assolutamente intervenire per verificare qual’era la situazione effettiva in zona, perché lui, volendo fare fino in fondo il suo dovere, si avvicinò a quei pastori e, dopo essersi presentato nelle vesti di custode dello “Scaricaturo”, quelli, non solo non risposero di chi fossero realmente le pecore e qualcuno, addusse pure false motivazioni, come : ”questi erbaggi mi sono stati dati dall’Unità del Buon Governo di Candela” e qualche altro,invece, fuggì abbandonando le pecore. La Regia Dogana di Foggia, sapendo che effettivamente in quella zona esisteva un gran caos e che gli sconfinamenti e gli abusivi erano all’ordine del giorno, diede disposizioni ai Regi agrimensori Conte e Magnacca di eseguire dei sopralluoghi e redigere una mappa dei luoghi di Candela e dintorni.

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