Vallata - brevi cenni storici - L'Apostolo delle Calabrie Ven. P. Vito Michele Di Netta - Capitolo II - Il bene delle Missioni continuato.

CAPITOLO VIII.

Il bene delle Missioni continuato.

SOMMARIO. — Il sempre dei Santi — L’ esercizio della meditazione — Efficacia di questa a mantenere la virtù nelle anime —L’amore a Maria — Com’ei l’amasse da bambino — Da Missionario — Ispirava tale amore nei popoli — Il Rosario pubblico — In Oppido in casa Grillo — Rifioritura di pratiche devote — L’ amor suo alla verginità — Efficacia nel descriverne i pregi — Anime a Gesù consacrate — In S. Costantino — In Drapia — In Troppa — Così in mille luoghi — Il terremoto in Calabria — Chiese distrutte e riedificate.


    Il Venerabile P. Di Netta nel suo apostolato non si contentava di un frutto che fosse stato come di passaggio, mirava invece a dare stabilità e durata all’opera buona, tanto efficacemente iniziata ne periodo piuttosto breve di una Missione. Oh! sarebbe stato ben poca cosa una conversione, un rimutamento di costumi, una pratica di pietà dello spazio di quindici a venti giorni, quanto sogliono durare le Missioni: un santo non si appaga di questo solo: santo mira al sempre, e vuole la perseveranza nella virtù e nella vita buona. E perciò il nostro Servo di Dio aveva i suoi preziosi amminicoli, dei quali corredava il ministero delle sue Missioni, e con questi si sforzava di creare nuove abitudini e nuova natura nelle anime convertite alla grazia.
    Dovunque egli andasse, stabiliva anzitutto l’uso della meditazione quotidiana, da farsi in comune la mattina o la sera, unitamente alla visita al Sacramento. E dove in ciò era coadiuvato dai Parroci, la popolazione diventava veramente un’oasi di Paradiso, mantenendosi con ciò la frequenza dei Sacramenti, e la pratica della vera vita cristiana.
    Si sa da tutti l’efficacia della meditazione per mantenere il buon costume nei popoli. Le Missioni stesse ripristinano in mezzo alle popolazioni il sentito spirito di vita religiosa, perchè in quelle prediche si parla e si batte sempre sulla considerazione delle massime eterne. Queste massime, predicate con tanta energia, e poi ribadite con tanti mezzi sussidiari, nelle Missioni hanno la potenza di rimutare i popoli, e ricondurli sulla via di Dio.
    Ora è chiaro che il Di Netta dovea porre ogni suo studio a far continuare nei paesi evangelizzati l’uso del meditare. E ve lo poneva davvero, secondo affermano tutti i contemporanei di lui. Ed oh! se avesse trovato dapertutto la necessaria cooperazione!... Cooperazione che purtroppo spesso manca, o viene meno, appena partito il missionario!...
    Con la meditazione ispirava insieme l’amore a Maria, quell’amore che fu in tutta sua vita uno dei palpiti più ardenti del suo cuore, e che forma per altro la caratteristica di ogni figlio di S. Alfonso.
    Fin da bambino egli digiunava ad onor di Maria in tutti i sabati, e ne celebrava con tenero trasporto le novene, accompagnandole con ossequi di mortificazioni e di aspre penitenze. Ne invocava spesso il nome durante il giorno con un fervore che sapeva di figlio affettuoso, e la salutava con delle frequenti e devote giaculatorie.
    Conseguentemente tale divozione gli crebbe con 1’ età, e da missionario la manifestava in mille modi e rincontri.
    Stando in Collegio ne riserbava a sè il sermone, solito a farsi il sabato in tutte le nostre Chiese, e si è accennato nel capitolo innanzi con quale trasporto e con quanta efficacia predicasse in Missione la predica propria di Maria. Ma oltre a ciò egli aveva il pio costume di rivolgersi a Maria dopo qualunque suo sermone, cui chiudeva sempre con un’invocazione e con una preghiera a Lei; di salutare per via ordinatamente chi incontrava col Sia lodato Gesù e Maria; e di ripetere spesso durante le ore la sua formola prediletta: Madre mia, io vi amo, io vi amo. Ne cantava anche con sommo diletto le canzoncine, e gli piaceva chiamarla con la tenera frase: Mamma Maria...
   
Capiva intanto che infondere nei popoli la divozione alla Vergine era un mezzo infallibile di perseveranza, e perciò tutto l’amore ch’ei nutriva per Maria, voleva che si accendesse nel cuore dei fedeli, e non è a dire con quale soave impegno, e con quante dolci premure lo inculcasse nei popoli.
    Consigliava a tutti di fare quotidianamente dei fioretti alla Madonna, di lasciare le frutta in qualche giorno della settimana, o adusarsi ad altre piccole mortificazioni ad onor di Lei.
    Loro imparava la recita devota del S. Rosario, ed amava che lo dicessero ancora pubblicamente, cantandolo per le vie.
    Dopo la Missione in Tropea del 1842, un testimone afferma: «Oltre alla frequenza delle confessioni e comunioni, che quasi generalmente si eseguivano... pure ogni sera, per tutto un decennio, dopo il tramonto si riuniva in Chiesa gran parte del popolo, e girava per le vie della città, cantando il Rosario, ed in Chiesa faceva la meditazione».
   
Mirava specialmente che l’amore a Maria fosse un amore di tenerezza, quale conviene che sia l’amor del figlio per la madre: e con tale amore egli rendeva stabile il trasporto dei fedeli per la Madonna, e più facile il farli perseverare nel bene. A tutti cui parlava diceva, talvolta colle lacrime agli occhi: Pregate, pregate sempre la Madonna, che è la Madre e la protettrice nostra.
    In Oppido, nella casa dei Signori Grillo, il Di Netta si recava spesso, anzi era quella la casa dove si fermava con le intere compagnie dei Missionari, non solo in tempo di Missione ivi, ma tutte le volte che nei lunghi viaggi occorreva far delle fermate per prender riposo. In tali casi Oppido era un punto di sosta, e sempre presso la santa famiglia Grillo. Ebbene, afferma il Cav. Signor Giovambattista Grillo «che l’amor del P. Di Netta alla Madonna non si può raccontare, e i mezzi, che egli usava per infonderlo negli altri, eran tanti... » Tutte le sere, quando il Servo di Dio era in loro casa, soleva «raccogliere tutti di famiglia avanti l’immagine della Madonna, e postosi in ginocchio in mezzo alla sala recitava con loro il rosario ».
    Quando poi la sventura visitava taluno della famiglia, l’unico consiglio che dava loro il Servo di Dio, l’unico conforto che ispirava era quello di « ricorrere alla Madonna». Una sera egli prese per mano il suddetto Signor Giovambattista, affannatissimo per peripezie domestiche, e conducendolo nella Cappella di famiglia innanzi l’immagine della Madonna delle Grazie, gli disse con emozione insolita: Don Giovanbattista hai qui la mamma, che dunque ti manca ?... Il Signor Giovambattista ne pianse per la tenerezza.
   
Con l’amore a Maria egli accoppiava pure una vera rifioritura di altre pratiche devote, che lasciava in ricordo, e come in eredità alle popolazioni evangelizzate.
    Chi non parla infatti in Calabria del suo amore e del suo culto speciale ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria? Divozione che ei cercava diffondere con grande zelo dapertutto, con intensità di affetto, e con tale fervore, che non era possibile non rimanesse profondamente radicata nei popoli. - Chi non ricorda anche il suo fuoco nel volere eseguite secondo il rito voluto dalla Chiesa le funzioni religiose? tante delle quali egli soavemente impiantava nelle diverse Parrocchie. Specialmente poi il rito per eccellenza, detto delle Sacre Quarantore. Questa pratica, anzi, del culto eucaristico in molti luoghi delle Calabrie era affatto sconosciuta, ed il Servo di Dio ve la lasciava trapiantata. -     Chi non ricorda la creazione di pie Unioni di ragazze, di giovanette, di operai, al santo scopo di istruirli è adusarli nella pratica dei propri doveri? - In ogni passo nelle tre Calabrie si trovano monumenti e tracce di questo fruttuoso apostolato del nostro Venerabile; e il fine di tutto era sempre il medesimo: conservare nei popoli e parrocchie il santo fervore delle Missioni - continuare e perseverare nel bene intrapreso.
    E qui non bisogna tralasciare un altro lato, bellamente luminoso, di suo zelo, e che gli apparteneva in modo singolare, quello cioè di consacrare a Gesù Cristo anime, votandole alla verginità. Pensava essere in tale modo assicurato il regno di Gesù Cristo in esse, anzi esser questo uno dei mezzi più efficaci per farlo regnare da solo e da sovrano.
    Tutti i Santi hanno provato un impulso indicibile per la verginità, e il Venerabile nostro lo provò anche lui, e gli si rivelò fortissimo da bamboletto. Le sue speciali attrattive per la purezza gli fecero riguardare questa virtù come la pupilla degli occhi suoi, e se la custodì fin dai più piccoli anni con una cura e con una diligenza al tutto ammirabile. E non fu forse per questa che egli si mantenne sempre innocente, come lo appellarono vari che lo conobbero? I )
    I suoi contemporanei infatti ci hanno tramandato che da fanciulletto non trattò egli mai con donna alcuna, e neppure familiarmente con compagni dello stesso sesso, o della sua stessa età. Fu sempre modesto, sempre ritirato, fino ad avere il nomignolo di romito, sempre lontano da occasioni pericolose, privandosi di qualunque piacere, e mortificandosi con asprezze e con digiuni.
    La modestia degli occhi fu cosa che lo distinse singolarmente. Li teneva sempre bassi, senza mai fissarli in faccia a chicchessia: era miope, e non volle usare gli occhiali che rarissime volte: e tra i suoi propositi trovasi scritto: Modestia nel guardare e nel toccare. La notte stessa a prevenire le brutte sorprese del cattivo demone, se ne stava a letto abbracciato con una croce di legno, e con ambi le mani legate.
    Or perchè sommamente innamorato di questa virtù, ne voleva la pratica anche dagli altri. E perchè sapeva che spenta o attutita la concupiscenza, la quale purtroppo fa tanta strage di anime, il cammino della virtù e la perseveranza nel bene riescono cosa facilissima, egli con premura la purità ispirava, e non lasciava mezzo intentato per consacrare anime a Gesù Cristo, conducendole a vivere vita casta e verginale. E chi può dire con ciò l’orma profonda che ci lasciava in mezzo ai popoli?
    Di questa virtù ne parlava in confessionale e dal pulpito, descrivendone al vivo i pregi; e ne parlava con tanto fervore ed entusiasmo da sembrare trasformato. In Tropea, predicandone un giorno, apparve raggiante ed elettrizzato così nel farne gli elogi, che il Sig. Giovambattista Di Tocco ebbe ad esclamare: Ma dunque il P. Di Netta è un angelo ?... dev’esser nato dalla pietra ?...
   
Gesù Cristo poi fecondava soavemente le di lui parole, ed accadeva sempre che giovanette in gran numero, dopo siffatto suo parlare, si risolvevano a vivere castamente, e senza volerne più sapere di mondo.
    In S. Costantino Calabro, una sola fiata, 28 donzelle abbandonarono l’amor del mondo, ed abbracciarono la vita casta. Ancora se ne parla colà, e le vestigia si conservano... Eppure è passato oltre la metà di un secolo! Da alcuni vecchi del luogo si esclama «che S. Costantino dopo la venuta del Di Netta rassomigliava a un vero giardino olezzante odori di Gesù Cristo…».
    Il R.mo Ruffa D. Vincenzo, Arciprete in Drapia, depone nel processo: «Nella mia cura ed in quella del vicinissimo villaggio di Gasponi, avviò molte donne nella via della perfezione, delle quali alcune vestirono 1’ abito di monache, e fino a poco tempo addietro vissero vita perfetta, e qualcuna di esse morì pure in odore di santità».
    In Tropea sono viventi moltissime che dietro l’impulso di lui divennero devote col voto di verginità. Anzi ne formò una pia aggregazione, cui dette il nome del SS. Redentore, e tanto bene le diresse da averne veri modelli di pietà cristiana. Voleva che tutti i giorni si riunissero in casa della Sig.ra M.a Antonia Grassi, cui aveva costituita lor direttrice: questa casa era come il loro monastero, dove dette monache facevano esercizi di devozione. Ed ancora oggi vivono alcune di esse, che si fanno ammirare per la loro virtù, e sono l’esempio degli altri.
    Il Cavaliere D. Filippo Taccone - Gallucci, che ad una somma pietà univa un sapere non comune, così conchiuse la sua deposizione: «Fra le opere memorande del Servo di Dio, posso testimoniare che in tutti i luoghi del suo apostolato, massime in Tropea, in Mileto, ed in altri paesi vicini, istituì le monache, dette di casa, sottraendole dai pericoli del mondo e consacrandole a Dio».
    Infatti di tali opere di zelo, è meraviglioso che se ne riscontrano le traccie in quasi tutti i paesi visitati dal Servo di Dio con le Missioni, o con altre opere di ministero. E se ne parla non già in Tropea solamente, luogo di sua abituale dimora, nè in Mileto e paesi vicini, come si espresse l’or citato Cavaliere, ma in Reggio, in Catanzaro, in Oppido, in Corigliano, in S. Cristina di Aspromonte, in Filadelfia Calabro, in Sitizano, in Scidò, in Longobardi, in Fitili di Parghelia, in Sinopoli, in S. Gregorio d’Ippona, in Molochio, in Potenzoni, in Terranova Sappominulio, Drapia, Fiumefreddo, Pizzo, Caridà, Nicotera, Amantea, Belmonte, Falconara, Aiello, Lago, S. Pietro, Falerna, Pietramala, Sammanco, Nocera Tirinese, Briatico, Ricadi, Trisilico, Pedaulo, Paragono… ed altri cento e cento luoghi.
    Uno dei suoi compagni perciò, il P. Caprioli, alla morte del Servo di Dio, ebbe a scrivere: «Tra gli operai zelanti nell’ evangelizzazione di questa Calabria, quegli che più si distinse per perseveranza di travaglio, per estensione di terreno, per felicità di successi, fu appunto l’illustre Defunto, che tanto vuoto ha lasciato nel nostro Istituto, dopo aver lasciata tanta orma di sè nella vigna del Signore…».
    Sono le orme dei Santi, che a guisa di striscie luminose segnano il loro percorso, e la di cui durata non è mai quella d’un giorno solo!
    E potremmo qui chiudere il capitolo, se tuttavia non ci fosse un’ altra opera dello zelo del Servo di Dio, che va bene a ricordarla in questo luogo, giacchè è pur essa effetto di un apostolato che non tramonta, e che lega il nome del Di Netta alla memoria della posterità.
    Si comprende da tutti, quanto giovino a mantenere il fervore di un popolo convertito la maestà, il decoro e la bellezza del tempio cattolico.
    Come si ama la propria Chiesa, la propria Parrocchia, dove, appena nati, siamo stati rigenerati! dove abbiamo fatta la Prima Comunione! e dove tante volte, da bambini e da giovinetti, abbiamo ammirato e gustato estatici l’imponenza e le gioie del culto cattolico!... Ma nelle Calabrie tanto spesso quei popoli restano senza Chiesa e senza tempio, rubato loro da una potenza terribile, qual’è quella del terremoto.
    Oramai si conosce quello che è il terremoto per quelle povere regioni: è come un nemico importuno, molesto, incontentabile, che dopo aver devastato e distrutto, torna ancora a ripigliarsi ciò che si era potuto involare alla sua voracità devastatrice. E talora non aspetta nè anni nè periodi di anni per ripresentarsi, ma mesi soltanto, e talora con ferocia crescente. I Calabresi di fede ardente, e devoti talora fino alla superstizione dei loro Santi e della loro Madonna, si sentono sanguinare il cuore al vedersi privati della loro Chiesa dietro i grandi cataclismi del terremoto, e vorrebbero più volentieri rimanere privi di tutto, anche del cibo, anzichè senza la Casa del Signore.
    Il Venerabile Di Netta non poteva rimanere impassibile dinanzi alle lacrime dei popoli ove egli si recava, e non può descriversi lo zelo che impiegò per la restaurazione od erezione di parecchie Chiese, rimaste danneggiate o interamente distrutte dal terremoto. Si ricordano i prodigi di tal suo zelo in Radicena, in Sinopoli, Lionari, S. Costantino, ecc.
    Predicava prima sull’ utilità e necessità della Casa di Dio, e poi si poneva egli innanzi a dare l’esempio, trasportando sulle spalle tufi, calce, pietre. Il popolo lo seguiva in folla, e non poteva essere diversamente, e così in poco di tempo risorgevano le Chiese, altre si riaprivano al culto, come altre si adornavano, si abbellivano, si riducevano più conformi alla maestà e santità del culto cattolico.
    Talvolta l’aiuto ed il compiacimento celeste si rendevano visibili in tali lavori. Così ricostruendosi la Chiesa parrocchiale in S. Costantino, si temevano e prevedevano disgrazie, perchè il popolo in preda ad un sacro entusiasmo e ad un fervore indicibile, accorreva confusamente e in frotte al lavoro. Il Servo di Dio calmava e rassicurava tutti affermando «che nulla mai di sinistro sarebbe accaduto». Fu profezia. Un giorno nel meglio del lavoro cadde da un palco un tale Antonio Piperno; ma nel cadere rimase miracolosamente attaccato ad un asse, e potè mantenersi fino a tanto che non venne aiutato a discendere.
    Con simili prodigi il lavoro continuava ininterrotto, e le Chiese venivano ridonate ai popoli, ove trovavano l’ alimento per la loro fede, e il mezzo principale per continuare nelle pratiche imparate loro dal Santo.
    Il Di Netta per questo veniva reputato non solamente 1’ Apostolo delle Calabrie, ma il vero padre di quei popoli, è come tale essi lo riverivano e sentitamente lo amavano.


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I ) Il P. Patrono, valente estimatore delle coscienze, e che fu confessore e direttore nello spirito del nostro Servo di Dio, affermò « avere il Di Netta conservata candida la stola del battesimo » .

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