Vallata - brevi cenni storici - L'Apostolo delle Calabrie Ven. P. Vito Michele Di Netta - Capitolo IX - Le qualità dell'apostolo.

CAPITOLO IX.

Le qualità dell'apostolo.

SOMMARIO — Altri raggi luminosi — L’apostolo è un santo — Vita interiore e vita apostolica — Le braccia prodigiose — Manifestazioni dell’amore — Avanti al Sacramento — La parola ai contemporanei — In S. Cristina — In Molochio — Inimita­bile — Rassegnazione totale — Fiducia in Dio — Sempre lavo­rando — Umiltà eroica — Bassa stima di sè — Che vuoi dire P.DiNetta? — Uguale con tutti — Amava farsi conoscere per tale Il P. Caprioli raccoglie notizie per la vita Allegrezza nelle umiliazioni.

    Non dispiaccia ai lettori se mi fermo ancora di vantaggio a illustrare l’apostolato del caro nostro Venerabile, questo tratto il più luminoso della vita di lui. L’apostolato è la caratteristica sua, come fu detto, ed intorno ad esso parecchie altre virtù, a guisa di raggi, si raggruppano per abbellirlo e renderlo maggiormente visibile e insieme attraente. Poi se il Di Netta fu suscitato da Dio per essere in gran parte un redentore spirituale dei poveri Calabresi abbandonati, è chiaro che egli doveva portare con sè tutto quel ricco corredo di virtù e di risorse morali, che lo avrebbero fatto idoneo, e sommamente atto per tale missione. Queste virtù e queste risorse bisogna, almeno di volo, accennarle, per avere, se non altro, un abbozzo al vero di lui apostolo.
    Qual’è l’apostolo che non è santo? E come si potrebbe riuscire efficaci, sorgente di bene, seme di virtù nei popoli, se non si avesse quello che devesi comunicare agli altri? A tanto si riesce, quanto più è intima l’unione tra l’apostolo e Dio, a mezzo di un amore fervido, ardente, sincero. Da ciò viene tutto il rimanente.
Ora il nostro Servo di Dio in ciò non ebbe l’eguale, fu appellato per questo un Serafino. E questo è tanto più meraviglioso in quanto egli non visse la vita della contemplazione, sibbene quella dell’azione, e l’altra clamorosa delle Missioni. Eppure per l’amore al suo Dio si mantenne innocente sempre, come lo fu da bambino, sempre illibato, sempre vigile osservatore e della legge della Chiesa e della regola dell’ Istituto. Niuno lo colse mai in fallo.
    I misteri di nostra santa Fede, la SS. Triade, Maria, i Santi, il SS. Sacramento dell’altare, i Sacri Cuori, la Santa Messa, l’annientamento di tutto sé... ecco il centro di sua vita vita interiore: la gloria di Dio, il bene spirituale del prossimo, l’amministrazione dei santi Sacramenti, la dire­zione spirituale delle anime, il catechizzare gl’ignoranti, la distruzione della colpa.... ecco la meta di sua vita apostolica. Tale è tutto il Di Netta.
    Con un braccio egli si attaccò a Dio, con l’altro braccio si attaccò alle anime per trarle a Dio: e quanto fu più unito e più aderente a Dio per amore, tanto più divenne efficace e fruttuoso il suo zelo per le anime. Non si è, non si può essere vero amatore di anime, se non si è vero amatore di Dio.
Il P. Di Netta in ogni tratto del viver suo si manifestò così.
L’amore, non è possibile, che non si riveli; dall’interno del cuore passa fuori, e si fa ammirare nell’esterno degli atti. Nel Di Netta vediamo degli irradiamenti bellissimi, specialmente nei suoi rapporti con Gesù Sacramentato, che è quel punto dove l’amore stesso di Dio si rende sensibile. I suoi contemporanei sono concordi nell’affermarlo:
«Ore intiere se la passava inginocchiato e con le mani giunte innanzi al Sacro Ciborio, stando senza appoggio, tanto da destar meraviglia a chi l’avesse osservato». «Quando stava innanzi a Gesù Sacramentato con le braccia conserte e col volto tutto acceso, sembrava proprio un Serafino di amore». Il solo suo genuflettere avanti a Gesù Sacramentato dimostrava tutto il suo interiore, ed i riguardanti si sentivano come impiccioliti nel mirarlo. Il Sig. Giuseppe Antonio Petracca di Ricadi soleva esclamare: «Quando il P. Di Netta genuflette innanzi al Santissimo, io mi faccio piccolo piccolo, e mi sento annientare».
      Il suo pregare era continuo, perchè è nella preghiera dove l’anima si solleva sino a Dio, e gli si congiunge. Fuori il tempo in cui era occupato negli affari di comunità o di ministero « lo si trovava sempre in orazione sia in coro sia nella sua cella, piacendogli passare tutte le ore libere col suo Bene amato ».
Che meraviglia quindi se il suo apostolato riu­sciva poi così fecondo? Era il santo che parlava, che predicava, che edificava col suo esempio.
« Dal suo volto, dalle sue parole, da tutte le sue opere traspariva il suo interno amore: pareva assorto sempre nel Signore: il suo volto diceva — raccoglimento nell’anima sua e amore ardente verso Dio ».
E quando celebrava? Era sensibile la sua unione con Dio, pareva che con Dio venisse quasi a un contatto misterioso, per cui negli astanti suscitava sempre sentimenti di grande compunzione, di raccoglimento, ed anche di ammirazione.
In S. Cristina d’ Aspromonte fu visto pure sollevato in estasi sull’ altare maggiore della Chiesa parrocchiale. E il Sacerdote D. Bruno Caruso di Molochio lo trovò prostrato davanti al divin Sacramento, assorto in estasi dolcissima; e non si riscosse se non dopo ripetute chiamate, e riportandone il viso tutto raggiante di luce vivissima, che abbagliava.
Giungeva a tanto da eccitare negli altri l’imitazione anche in siffatte cose, perchè se il male riesce contagioso, pure il bene ha un contagio suo proprio, diffusivo e penetrante. D.a Domenica Petracca attesta che un suo fratello, spinto dall’esempio del Servo di Dio, aveva presa la santa consuetudine di pregare a lungo presso il santo Tabernacolo. La madre perciò gli diceva: Figlio mio, vorresti tu imitare il P. Di Netta? Ma il santo Sacerdote rispondeva gemendo: Eh! madre mia, ci vuole ben altro per imitare pur da lontano il P. Di Netta!
Indice della sua unione perenne con Dio era altresì la completa rassegnazione alla divina volontà e la forza di spirito con cui la durava avanti ai più grandi travagli apostolici. Nelle avversità, nelle sventure, nelle malattie, non era mai che ei si smarrisse o si perturbasse, ma restava con la pace nel cuore, abbandonandosi totalmente nelle braccia della divina Provvidenza. Sia fatta la Volontà divina: Lasciamo fare a Dio: Dio ci penserà: Così a Dio è piaciuto: ecco le sue espressioni abituali in ogni pericolo, in ogni angustia, in ogni frangente, in ogni sventura. Altre volte fu inteso pure esclamare: Siamo peccatori, è vero, ma più grande dei nostri peccati è la misericordia di Dio: abbiamo fiducia in Lui.
Si volgeva anche a Maria, e ripeteva: Oh! la Madonna, la Madre nostra, non è Ella tutto per noi?
Nè tale pace di uniformità perdeva egli innanzi ai casi straordinari. Nel 1848 gli morì un fratello. Il Sig. Francesco Rùffa andandolo a visitare, glielo domandò: « Padre, è morto il vostro fratello? »
Ed il Servo di Dio: Oh! lo sapete? Sì, è morto, ed era un bravo secolare. E nulla più disse, tanto era rassegnato e sereno.
Nelle fatiche apostoliche poi, animato continuatamente da tale fuoco interno, non ci fu caso che cedesse mai, e che venisse mai meno. Vinceva tutti nel lavorare, e in mancanza suppliva tutti; sempre sano, vegeto, robusto; che anzi quanto più lavorava, più sembrava ringiovanisse. In Casa moltissime fiate si addossava tanto volentieri le fatiche degli altri, senza rifiutarsi mai, quando ne era richiesto. Sitibondo sempre della gloria del suo Dio che amava, e nel contempo sitibondo di anime che pure amava, predicava talvolta e lavorava con siffatto ardore da incontrarne malanni, e tuttavia non si arrestava. E non interrompeva, come fu accennato altrove, neppure le sue consuete mortificazioni; le discipline, i cilizi, le polveri amare nelle vivande, i sonni disagiati, le astinenze nel cibarsi - e tutto accompagnato sempre dalle sue lunghe preghiere, dalle sue meditazioni quotidiane, dalle visite replicate al Sacramento, dalle sue giaculatorie, dai suoi slanci amorosi e continui.
Però se l’apostolo attinge a Dio per dare alle anime, occorre necessariamente che alle anime egli si presenti in veste umile, come agnello, a somiglianza di Gesù Apostolo. Senza di ciò non farebbe breccia su di esse, e il suo apostolato sarebbe anzi respinto e rifiutato in tutte le maniere.
Se questo è vero, abbiamo la manifestazione di un altro segreto per spiegare i frutti immensi di questo Apostolo delle Calabrie. Perchè nel nostro Servo di Dio ammiriamo oltre l’amante di Gesù, un vero tipo e modello di sentita, sincera umiltà.
Egli stesso l’umiltà la riconobbe quale base di tutte le altre virtù, e pose tutto il suo studio per fondarsi bene in essa. Vi riuscì tanto bene, che il solo suo comparire, il solo vederlo per la prima volta, già bastava per rimanerne convinti. A sentirlo poi parlare con voce bassa, e sempre con termini miti e di preghiera, a vederlo camminare con andatura dimessa e col capo chino, con un contegno edificante e con un vestito assai povero, a vederlo sempre in cerca. dell’ultimo posto, ancorchè Superiore, sempre prestarsi ai servizi più bassi, pregare, e comandare mai, anche quando lo richiedevano l’ufficio e le circostanze... si era forzati esclamare: Oh! quale modello di umiltà!
Fu quasi sempre Superiore, o in casa o in Missione, ed appariva l’ultimo. E tanto in casa quanto fuori serbava per sè sempre il peggio, peggiore stanza, peggiore letto, peggiore vestito, peggiore cavalcatura.
Attendeva agli esercizi più bassi di comunità: lavava perciò i piatti in cucina, serviva a mensa, si scopava con le proprie mani la stanza, si rifaceva il letto, baciava i piedi dei Padri e dei Fratelli laici in refettorio, serviva volentieri gl’infermi, e soleva camminare senza berretta, che è il distintivo proprio dei Sacerdoti.
Tutto questo nasceva dalla bassa stima che aveva di sè, e perciò si chiamava spesso «gran peccatore, povero peccatore». In Ciorani e in Tropea, funzionando da Ministro, o supplendo in questo ufficio, e dovendo assegnare sè per eddomadario nella settimana, diceva: Farà da eddomadario Fratello Di Netta. I suoi contemporanei ci affermano pure che stimandosi egli un nulla, soleva talvolta qualificarsi col nome di ciucciariello I ), e tal’altra se ne andava sul cesso a ripetere ivi col capo chino e con grande convincimento: Son fango, son fango.
Se ne andava pure spesso avanti a Gesù, e lo si sentiva esclamare con grande enfasi: Gesù mio, sono un povero peccatore, abbiate pietà di me. Trovandosi poi avanti a delle immagini di Maria Santissima od anche di Gesù, aveva questa gia­culatoria: Onore e gloria a te, e schiaffi a me. Parlando coi servi della casa, diceva: Noi siamo niente , avanti a Dio:   non abbiamo nulla di nostro, tranne il peccato.
Una domenica, predicando nella nostra Chiesa di Tropea, tra l’altro uscì in queste parole: Tutti dicono: P. Di Netta è santo, P. Di Netta è santo.
Ma di grazia, a chi è venuto avviso che il Padre Di Netta si salverà l’anima? Sapete che vuol dire P. Pi Netta? che mi debbo nettar l’anima dai peccati di cui è macchiata.
Era uguale con tutti, fossero stati anche inferiori o servi. Non permetteva gli si baciasse la mano; e da suddito o da Ministro, era solito pigliare dal Superiore, sempre che l’incontrava, la benedizione con un ginocchio a terra. Egli stesso poi Superiore si umiliava pure agli inferiori, e si vide talvolta chiedere il benedicite ad un umile Fratello laico, come, lo chiedeva al Fratello portinaio, quando usciva fuori casa. Nella Missione del dicembre 1843 in Oppido Mamertina, da Superiore servì tutte e tre le Messe della notte di Natale al P. Tortora, il quale edificato al maggior segno, sentissi dopo esclamare: Mi sento pieno di Gesù Gristo. L’ umiltà del P. Di Netta gli aveva portato Gesù in un modo pure sensibile.
Era tanta la bassa stima che aveva di sè da amare che anche gli altri lo conoscessero per tale, ed è questo un grado più elevato di umiltà.
Una sera nella porteria di Tropea giunsero due Religiosi Francescani, e chiesero ospitalità. Avvisato il Servo di Dio, che ne era il Superiore, corse di persona, prese le loro valigie, e guidan­doli alle stanze prodigò loro ogni cura. Fu creduto perciò Fratello laico, e da quei buoni Religiosi fu richiesto li accompagnasse dal Superiore per ossequiarlo e ringraziarlo. Allora egli non potendo sfuggire: Che Superiore? rispose, che Superiore? io sono il « ciucciariello » della Comunità. Quei Padri, sorpresi, dissero che già di lui a primo vederlo si eran formata l’idea di un gran Servo di Dio, ma dopo quella rivelazione si erano intesi confusi ed annichiliti.
Andavano spesso Chierici ordinandi nella nostra Casa di Tropea a compiere gli Esercizi per l’ordinazione, ed egli li serviva a tavola, e poi in ginocchio baciava loro i piedi, con tale esteriore di umiltà edificante, da sentirsene essi compunti interiormente. Lo affermano il Canonico Polito, e l’Arcidiacono Barone.
Non posso poi omettere ciò che attestò il R.mo D. Giacomo Barone, a prova del concetto in che altri lo teneva, e viceversa del concetto in cui si teneva egli stesso. Seppe il Servo di Dio che un suo Confratello, il P. Caprioli, raccoglieva notizie, lui vivente, per scriverne la vita. Non ci volle altro per non riposare, e servendosi dell’autorità che aveva come Superiore, gli entrò un giorno in camera, lacerò il quaderno in minutissimi pezzi, e li gettò via per la finestra.
Un simile esempio si riscontra nella storia della vita di S. Alfonso, col quale, come sopra si ac­cennò, il nostro Servo di Dio ebbe raffronti non pochi. S. Alfonso veniva, come a dire, pedinato sempre dal suo illustre biografo, P. Tannoia, da non potersene egli stesso non accorgere. E perciò talvolta se ne lamentava: Ma costui mi sta come poliziotto sempre alle spalle! soleva dire. Alla fine seppe che prendeva appunti sulla di lui vita, e allora senza troppi riguardi gli va in camera, prende le carte, le lacera, e gliele butta per la finestra. Povero Tannoia, quanto dolore ne ebbe !... E così anche quanta pena provò il nostro P. Caprioli! E noi quante altre notizie avremmo saputo del nostro Venerabile !… Ma i Santi nelle cose loro sono sempre inflessibili e taglienti.
E potrebbe bastare a prova della profonda umiltà del caro nostro Venerabile; ma come tacere di una prerogativa, che quando si riscontra nella vita dei Santi è il segno più chiaro dell’ eroismo di loro virtù? cioè dell’ interna allegrezza avanti alle umiliazioni e alle sorprese più mortificanti? E qui giunse il nostro Di Netta, cioè all’ umiltà perfetta.
In Corani era Maestro di Novizi, ed una volta venne immeritevolmente mortificato dal Rettore. Tutti se ne afflissero, meno egli che, come riferiscono i novizi suoi, ne gioì, e non perdè punto di sua serenità.
Altra volta ricevè, e se ne ignora la vera ra­gione, dal Rettore Maggiore Rev.mo P. Cocle, un’ osservazione. Egli rispose prontamente al suo Superiore in data 2 febbraio 1831. Dalla lettera non si rileva null’altro che il suo animo grato, il suo contento interno, ed anche una cotale allegrezza, con la quale da sè medesimo s’impone la penitenza. E degna d’essere riportata tutta:
« Nel leggere e rileggere la vostra, anzichè affliggermi, ne ho inteso un interna allegrezza. Solo mi dà pena che avete dovuto usare maniere dolci per correggermi: tanta è la mia imperfezione! Prego intanto Gesù Cristo e la Madonna Santissima, acciò vi dessero pazienza in soffrirmi in Congregazione, ed assegnarmi severe penitenze per l’avvenire, mentre per ora con la presunta vostra licenza e con la intelligenza del mio confessore, in questo mese mi farò ogni giorno la disciplina a secco, due a sangue, e due giorni la settimana passerommela con una cosa a tavola… ».
Ecco i Santi !... ed eccone il loro linguaggio.
Ma vi sono altre bellissime qualità morali da studiare nel Servo di Dio, e lo faremo nel capitolo seguente, quasi a completare il suo vero ritratto.

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I ) Piccolo asino.

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